L a vita di Loretta Pleasant non fu mai semplice. Nata nel 1920 in Virginia, rimase orfana della madre che morì, sfinita, dopo il decimo parto. Miseria e razzismo furono il pane quotidiano della famiglia: i Pleasant erano di colore, non erano schiavi ma subirono condizioni di vita dure e, dopo la morte della madre, il padre, incapace di star dietro a quella nidiata di figli, li sparpagliò nelle case dei parenti. Fu probabilmente in quel momento che Loretta non si chiamò più Loretta, ma Henrietta. Nessuno sa bene quando o perché, fatto sta che da allora, anche sui documenti ufficiali, fu sempre chiamata Henrietta. La bambina fu mandata dal nonno, Tommy Lacks, in una capanna di due stanze dove condivideva il letto col cugino e futuro marito David “Day” Lacks. Iniziò a lavorare nelle piantagioni di tabacco giovanissima. A quattordici anni ebbe il primo figlio, cui ne seguirono altri cinque (una, Elsie, con gravi disabilità psicofisiche). Appena sposati, negli anni ‘40, Henrietta e David si spostarono in Maryland, dove lui iniziò a lavorare in una acciaieria per poi essere chiamato alle armi. Quattro mesi dopo aver dato la luce al suo ultimo figlio, a Henrietta fu diagnosticato un tumore alla cervice.
Henrietta Lacks morì il 4 ottobre del 1951 nell’unico ospedale della zona che accettava di curare negros. Prima di morire, furono fatti due prelievi del tessuto canceroso che la stava uccidendo. Da uno di questi prelievi, il dottor George Otto Grey capì di aver trovato delle cellule tumorali molto particolari: le dichiarò “immortali”, perché erano estremamente resistenti e in grado di sopravvivere anche in condizioni intollerabili per le altre cellule. Dalle cellule di Henrietta creò una linea cellulare che sarebbe stata ampiamente utilizzata nei laboratori di tutto il mondo e avrebbe rivoluzionato la ricerca medica e farmaceutica, una coltura che ha permesso e permette ancora oggi ricerche e scoperte, specie sul cancro.
Henrietta Lacks morì nell’unico ospedale della zona che accettava di curare negros. Furono prelevate delle cellule tumorali a scopo di ricerca, senza che lei né la sua famiglia venissero informate del processo.
Tuttavia, a Henrietta non fu mai dichiarata l’intenzione di prelevare i suoi tessuti per scopi di ricerca, né la famiglia fu mai, in alcun modo, coinvolta nel processo. La linea cellulare sviluppata dalle cellule di Henrietta fu sottoposta a brevetto e commercializzata, generando profitti per decine di centinaia di migliaia di dollari. Tutto questo senza che i Lacks potessero in alcun modo trarne dei benefici. Unico magro compenso fu che la linea cellulare poi sviluppata venne chiamata HeLa dalle sue iniziali. Henrietta morì talmente povera che fu sepolta in una tomba senza lapide nel cimitero di Clover, in Virginia. Solo qualche anno fa è stata posta una targa commemorativa nel luogo in cui presumibilmente si trova il suo corpo.
La storia di Henrietta, ormai un caso di scuola, dimostra che una domanda per noi banale, banale in realtà non lo è affatto. Di chi è il nostro corpo? Fin dove e fin quando possiamo decidere del nostro corpo? Cosa succede agli organi che lo compongono se ci vengono prelevati? Henrietta visse in un contesto sociale e storico particolare, e la sua è una vicenda che ha intrecciato negazione dei diritti, razzismo e affari milionari su parti del corpo altrui. Oggi il dibattito sugli aspetti etici dell’utilizzo di parti del corpo umano è ben più maturo di allora. Ma, sorprendentemente, alcune “lacune” che hanno caratterizzato la vicenda di HeLa continuano a esistere.
Siamo selvaggina
Per certi versi, la storia di Henrietta si replicò a distanza di trent’anni in quella di John Moore. Nel 1976 a Moore, operaio venticinquenne, venne diagnosticato un cancro. Gli venne prelevato un campione biologico (dalla milza) da cui il centro di ricerca (in questo caso l’Università della California) sviluppò una linea cellulare brevettata e commercializzata. Anche le cellule di Moore erano uniche: la sua milza produceva una proteina ematica capace di stimolare la crescita di globuli bianchi, agenti antitumorali.
La storica sentenza Moore vs Regents of University of California del 1990 ribadì quanto era successo con Henrietta: il paziente da cui era stato prelevato il tessuto biologico non ha alcun diritto sui proventi che derivano da tale campione. Una volta separato dal corpo, insomma, il materiale biologico diventa di proprietà di chi lo ha staccato.
Nel corso del processo la Corte fece proprio un documento predisposto dall’Office of Technology Assessment (OTA) del Congresso degli Stati Uniti. Il documento in questione delineava il trattamento giuridico degli organi e delle parti del corpo una volta che queste fossero state staccate materialmente dal corpo. Tali organi o tessuti o cellule possono essere considerate, secondo il giudice americano (ma anche in Europa), come res derelictae, ovvero “cose abbandonate”. Nella fictio giuridica, quindi, il paziente durante l’operazione abbandona volontariamente i propri organi che vengono “trovati” dal medico e diventano di sua proprietà. Per esemplificare questo status l’OTA ha ben visto di paragonare gli organi del corpo umano alla selvaggina: “si può argomentare che […] non avendo esercitato il dominio o il controllo sui propri tessuti, i diritti del paziente sarebbero simili a quelli di un proprietario terriero che non abbia cercato di catturare la selvaggina di passaggio sul proprio terreno”. Se il medico-cacciatore impallina qualche organo, è suo.
Il trattamento giuridico degli organi e delle parti del corpo una volta staccate prevede che siano considerate come res derelictae, ovvero ‘cose abbandonate’.
Sebbene presentasse queste ardite metafore, la sentenza Moore vs Regents of the University of California del 1990 introduceva anche una distinzione sottile, ma fondamentale. Fatto salvo che il signor Moore non avesse alcun diritto sugli introiti derivanti dalle proprie cellule, un diritto però lo aveva e gli era stato negato: il diritto a essere informato degli scopi per cui venivano prelevate quelle cellule e degli eventuali impieghi commerciali. Si dichiarava, insomma, una distinzione fondamentale tra diritto all’informazione e alla privacy, fortemente a favore del paziente, e diritto di proprietà, in cui il paziente aveva un controllo sostanzialmente passivo (gli organi sono nostri fintanto che non li “abbandoniamo” nelle mani di un medico).
In Europa la questione della proprietà delle parti del proprio corpo è sostanzialmente simile a quella negli Stati Uniti. Ciò che differenzia i cittadini-pazienti delle due sponde dell’Atlantico è che negli Stati Uniti il paziente “abbandona” le parti del parti del proprio corpo, in Europa dona volontariamente e gratuitamente i propri organi. Se, quindi, gli effetti pratici sono abbastanza simili, la premessa è importante. E la premessa è il consenso informato, che tende proprio a rendere esplicita la volontà e gratuità del dono.
Tra cervello e ovaie
Entriamo così nella più frequente delle occasioni in cui dobbiamo scontrarci con la proprietà del nostro corpo: la donazione. In Italia, come in gran parte del mondo, siamo liberi di donare agli altri molte parti del nostro corpo a meno che questo non pregiudichi le nostre capacità vitali, e solamente se cediamo in maniera totalmente gratuita i nostri organi. Possiamo donare, se compatibile, il nostro sangue, un rene, il midollo, la pelle, ma non gli altri organi unici e vitali, come ad esempio il cuore. Questi ultimi possono essere donati solo successivamente alla morte cerebrale che, per convenzione, è fissata come il momento in cui una persona è considerata “deceduta”. C’è un altro limite, parzialmente sconosciuto: non possiamo donare, in nessun caso, né il cervello né le gonadi, testicoli o ovaie, nonostante si possa invece donare lo sperma (con regole molto rigide, che allungano fino anche a due anni le liste di attesa) e gli ovuli (anche se, in Italia, sembra non esserci molte donatrici).
In Italia, come in gran parte del mondo, siamo liberi di donare molte parti del nostro corpo a meno che questo non pregiudichi le nostre capacità vitali, e solamente se cediamo in maniera totalmente gratuita i nostri organi.
La disciplina della donazione delle proprie parti del corpo delinea quindi quella che sembra la condizione di “proprietà del corpo” nel nostro paese (e in generale anche in Europa). Il corpo è nostro, fintanto che lo manteniamo sano e in ottime funzioni. Se, volontariamente, lo maltrattiamo o ne modifichiamo le funzionalità, allora lo Stato interviene e riacquista la “proprietà” del corpo, e ne può disporre l’uso. A ben vedere – ma giuridicamente non è mai stato così esplicitato – è come se lo Stato avesse la proprietà del nostro corpo, e noi invece il solo possesso. Per capire la differenza pensiamo ad una situazione comune: un padre compra un auto (che dunque diventa di sua proprietà) ad uso esclusivo del figlio (che quindi ne ha il possesso).
Avendone “la proprietà” è lo Stato che decide se siamo o non siamo legittimati a modificare in modo permanente il nostro corpo. In Italia, lo Stato – con una legislazione che su questo è all’avanguardia mondiale – permette alle persone transessuali di compiere una transizione che, una volta ultimata, comporta una modifica radicale e irrimediabile del corpo: la transizione completa presuppone infatti una sterilità totale poiché vengono asportate anche le gonadi. In molti altri casi lo Stato (per ragioni più o meno condivisibili o discusse) vieta invece con forza pratiche di intervento radicale sul corpo.
Desiderare la carrozzina
Chloe Jennings-White è una ricercatrice in chimica di 60 anni. Ha una vita piena e felice. Vive nello Utah e ha una brillante carriera accademica: laurea a Stanford, dottorato a Cambridge, decenni di ricerca di successo. Convive serenamente con il marito, con cui ama sciare e praticare sport all’aperto. Tuttavia Chloe, da quando ha 4 anni, ha provato decine di volte a spezzarsi la schiena, per diventare volontariamente paraplegica.
Chloe è affetta dalla BIID (Body Integrity Identity Disorder), un raro disordine mentale per cui non si riconosce come propri alcuni organi o parti del corpo. Chloe, ad esempio, non riconosce come proprie le due gambe. La BIID non pregiudica altre funzioni né una socialità normale, ed è solitamente ben focalizzata su un arto. Se la BIID riguarda il braccio, ad esempio, il malato farà in modo di non utilizzarlo, facendo finta che non esista. Più spesso, però, la BIID porta a gravi atti di autolesionismo. Da bambina, Chloe ha provato a fare un grave incidente in bicicletta, successivamente si è specializzata in sport altamente rischiosi, nel disperato tentativo che qualche incidente la facesse diventare veramente paraplegica. Oggi passa gran parte del suo tempo su una sedia a rotelle con le gambe immobilizzate. Si è anche rivolta a un medico disposto a tagliarle il nervo femorale, ma è molto costoso (25.000 dollari per gamba) e pericoloso. Molti medici che curano privatamente la BIID, infatti, si trovano in paesi in via di sviluppo e in cliniche clandestine. Ma soprattutto, se venisse scoperta, avrebbe un grosso guaio con la giustizia: negli USA, ma anche in Italia, l’autolesionismo è considerato un reato.
La libertà individuale di disporre del proprio corpo va a limitare direttamente la capacità di azione del potere organizzato, sia esso un’entità statale o una religione.
Eppure Chloe porta avanti da anni la sua battaglia perché sia riconosciuto il suo diritto ad amputarsi le gambe, facendo esplicito riferimento alle terapie di riassegnazione chirurgica del sesso. Tuttavia, ed è bene precisarlo, la transessualità è una condizione che nasce da un disturbo (disforia di genere), il BIID, invece, è una patologia. L’esempio di Chloe, pur estremo, è indicativo di quanto, in realtà, non abbiamo una piena libertà di disporre del nostro corpo. Amputandosi Chloe non andrebbe a ledere i diritti di nessun altro, e risolverebbe un proprio problema. Certo, peserebbe sui conti pubblici, ma al pari di qualsiasi altro malato che deve ricevere delle cure adeguate. Allora, perché Chloe non può amputarsi le gambe?
Il nocciolo centrale è il rapporto, profondo e in un certo senso fondativo, tra corpo e potere. La libertà individuale di disporre del proprio corpo va a limitare direttamente la capacità di azione del potere organizzato, sia esso un’entità statale o una religione. Tutte le religioni hanno da sempre esercitato un controllo molto forte nella libertà di disporre individualmente del corpo, e, allo stesso modo, il potere politico ha utilizzato il corpo altrui per i propri fini.
La tortura era considerata un diritto dello Stato, tollerata al fine di ottenere informazioni determinanti. Oggi è (purtroppo solo teoricamente) ormai considerata una pratica inammissibile. Ma rimangono ampi spazi in cui il potere esercita una grande influenza nel decidere sulla vita di altri. Addirittura, esistono ancora in molte parti del mondo divieti espliciti a modifiche superficiali del proprio corpo: in Corea del Sud, ad esempio, è illegale tatuarsi.
È lo Stato a decidere quando un ammasso di cellule si trasforma in “persona” e, parallelamente, è sempre lo Stato a decidere quando una persona può morire. La libertà di disporre del proprio corpo può diventare così più retorica che effettiva, e il potere di limitare la libertà individuale è d’altra parte spesso comunemente accettato: quanti di noi non provano un certo brivido nel pensare a Chloe Jennings-White che chiede di amputare legalmente le due gambe perfettamente sane? Il corpo è nostro, ma solo fino a un certo punto.