O
gni buon libro nasce da un’ossessione. Un’ossessione che a volte non si esaurisce in una singola opera, ma si propaga da un libro all’altro diventando motore di letteratura. Nel caso di Vanni Santoni quest’ossessione è legata alla sua generazione, quella dei nati negli anni Settanta del secolo scorso, soprattutto per quanto riguarda un aspetto che ha a che vedere con le dinamiche percettive e con un certo spirito micro-comunitario in grado però di coagularsi in realtà più ampie, a volte di respiro internazionale, ma sempre e comunque nomadi. Detta così sembra qualcosa di complicatissimo. Proviamo a farla più semplice. Vanni Santoni è interessato al come e al perché lui e gruppi di suoi coetanei abbiano speso tempo ed energie per creare mondi. Mondi effimeri, instabili, talvolta perfino inutili ma comunque sia alternativi alle dinamiche del mondo reale. Questa è una possibile chiave di lettura de La stanza profonda, romanzo sui giochi di ruolo appena uscito per Laterza, ed è anche l’elemento di congiunzione di questo nuovo libro con il precedente Muro di casse, dove Santoni esplorava il mondo dei rave party. Un legame che l’autore fiorentino rimarca esplicitamente: “Di punti in comune ce ne sono”, scrive verso le ultime pagine del libro. E il punto principale è che tanto i rave quanto i giochi di ruolo, secondo Santoni, sono elementi di “controcultura”.
L’accostamento non è scontato ma leggerlo esplicitato in questo, per me che sono nato lo stesso anno di Santoni (il 1978), è come trovare la conferma di un’intuizione che a prima vista sembra fuori luogo ma, a un’analisi più attenta, risulta illuminante. La controcultura è legata agli anni Settanta, alla contestazione, ai movimenti e ha come veicolo principale la musica. Un magma abbastanza distante, per finalità e temperatura, da quello descritto da Santoni nei suoi due libri (anche se i rave hanno a che vedere con la musica e, di quando in quando, hanno intersecato istanze dei movimenti degli anni Novanta). L’umanità giovane di Santoni è più spersa, atomizzata, anche se poi si coagula in entità collettive quando qualcosa di impellente lo richiede (un party da qualche parte in Europa, un gruppo di giocatori raggruppati in cantina). Tuttavia la dinamica dell’autoproduzione, del rifiuto del mainstream o – a volerla guardare in chiave più utopica – l’azione di creare mondi alternativi, sia pure per un lasso di tempo delimitato e dai risultati effimeri, tiene assieme rave e giochi di ruolo inquadrandoli all’interno di dinamiche che hanno un sapore controculturale. Un po’ come le Taz del filosofo anarchico Peter Lamborn Wilson, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Hakim Bey – quelle “zone temporaneamente autonome” che sono state uno dei concetti chiave dell’underground culturale durante quella stagione di fine millennio.
In effetti personaggi come Gary Gygax, un inventore di Dungeons & Dragons, che nel libro compare in forma ectoplasmatica come meta finale di un pellegrinaggio durato tutta l’adolescenza, sicuramente appartiene a quella temperie controculturale. L’edizione originale del più conosciuto dei giochi di ruolo, ad esempio, con il disegno di copertina letteralmente incollato sulla scatola, possiede tutta l’allure dell’autoproduzione; nonostante poi, nel corso degli anni, i giochi di ruolo interesseranno milioni di persone in tutto il mondo e la loro evoluzione digitale sfonderà il tetto del miliardo.
La stanza profonda, come il più classico dei libri game, usa la seconda persona singolare. Una narrazione in soggettiva che, in qualche modo, opera un’identificazione tra chi legge e il protagonista della storia. Ma il “tu” è anche la forma di narrazione del Master, che si rivolge ai giocatori cercando di materializzargli attorno un mondo immaginario. Un mondo fatto di regole, di punti esperienza, orientamenti morali e schede personaggio che racchiudono tutto questo. Ma c’è spazio anche per l’imprevisto: il lancio dei dadi. Non solo quelli classici, a sei facce, ma soprattutto quelli dalle fogge più bizzarre, che diventano la vera cifra del gioco e il vero feticcio per i giocatori. Come il dado a venti facce, l’icosaedro, che è anche un solido platonico e sembra uscito da un quadro rinascimentale.
La vera contrapposizione, oggi, è quella tra chi ha accesso alla narrazione ufficiale e chi, per esistere, ne deve condurre una alternativa: creare, cioè, una controcultura, con i suoi luoghi, le sue regole, i suoi linguaggi.
Tornando alla controcultura, un altro aspetto che il gioco di ruolo condivide con essa è lo spauracchio dell’attività sovversiva. In una delle pagine più esilaranti del libro i protagonisti si ritrovano in stato di fermo, come se l’azione di immaginare mondi fosse roba da facinorosi. O addirittura i responsabili di una qualche deriva satanista, o comunque diseducativa, a seguito della morte di un ragazzo per la quale viene incolpata l’influenza negativa dei giochi (una scena che fa il paio con lo spauracchio dei manga giapponesi, altri dispensatori di morte secondo il giornalismo degli anni Ottanta, come ricordò Daniele Timpano in uno spettacolo del 2007 intitolato Ecce robot). Ma poi, alla fine, cosa saranno mai questi giochi di ruolo? Santoni, per spiegarlo a profani e intimoriti, usa una metafora semplice semplice: “è una specie di teatro”.
Il paragone è azzeccatissimo. Io il teatro lo osservo e lo racconto da anni, specialmente il teatro “indipendente”, quello cioè nato dall’esplosione della contrapposizione tra istituzione e ricerca, ma che tuttavia resta fuori dal mainstream culturale. Paradossalmente, almeno nella sua fase iniziale, presenta le stesse dinamiche descritte da Santoni per i giochi di ruolo e per i rave: autoproduzione, dinamica di gruppo, nomadismo, invenzione di spazi e di mondi (molto spesso effimeri), diffidenza per la cultura dominante. Anche in quel caso i protagonisti di quella scena sono nati tra gli anni Settanta e Ottanta (più raramente alla fine dei Sessanta) e molto spesso, prima di andare in scena in un teatro, hanno allestito i loro lavori nei centri sociali, negli spazi occupati. La dialettica che vivono non è quella del Novecento, quella che ha contrapposto per decenni la tradizione all’avanguardia. I linguaggi sono ormai mescolati, i confini dissolti. La vera contrapposizione, oggi, è quella tra chi ha accesso alla narrazione ufficiale e chi, per esistere, ne deve condurre una alternativa: creare, cioè, una controcultura, con i suoi luoghi, le sue regole, i suoi linguaggi. È così nella musica, nel teatro, nell’illustrazione. È così nei giochi e nei rave.
La stanza profonda è un’indagine sulla genesi di quel mondo sotterraneo in cui nuota (o ha nuotato) un’intera generazione ma che ancora fatica a definire se stesso. Ma non c’è solo questo. Le avventure di Silli, Leia, Paride, Bollo e dell’instancabile Master che, decenni dopo l’origine del gruppo, organizza una rimpatriata per sondare cosa resta di quella dimensione percettiva e collettiva (e restituircelo in forma di narrazione) sono un tuffo riflessivo e non nostalgico nel passato per chiunque abbia tenuto in mano un dado da venti facce. E per quelli che non l’hanno mai tenuto in mano… beh, il suggerimento è leggersi d’un fiato La stanza profonda per cercare di capire che emozione si prova.