L’ università è stata a lungo una terra di conquista. Protagonista per almeno quindici anni di un dibattito pubblico sia per le continue riforme attuate da governi di entrambi gli schieramenti (Luigi Berlinguer con il governo Prodi, Letizia Moratti e Mariastella Gelmini con i governi Berlusconi); sia per gli scandali sul nepotismo, la malagestione e i gioco di potere emersi dall’apertura del vaso di Pandora grazie a libri come L’università truccata di Roberto Perotti (Einaudi 2008). Fino a dicembre 2010, l’Università era sulla bocca di tutti. Anche perché quelle riforme, nate con l’intenzione di modernizzare l’istituzione e allinearla allo “spirito dei tempi” – quando in realtà si è trattato di un lento processo di snaturamento – hanno rinfocolato la coscienza civile con lunghe proteste e occupazioni che hanno interessato studenti e docenti. Forse uno degli ultimi slanci di sincera opposizione al “potere” prima che opporsi al potere diventasse programma politico di un partito pronto a diventare esso stesso “potere”.
Dopo l’approvazione della riforma Gelmini – che ha abolito le facoltà in favore dei dipartimenti; rivisto potentemente il finanziamento pubblico, contraendolo; cancellato la figura del ricercatore precarizzandolo per tre anni (rinnovabili una sola volta) e bloccando i turnover e gli avanzamenti di carriera – l’Università è sparita dal discorso pubblico e anche da quello politico. Torna ogni tanto, come slogan, durante le campagne elettorali principalmente dei partiti di sinistra o di centrosinistra. Ma i governi che si sono succeduti negli ultimi sette anni (da quello dei “professori” di Mario Monti fino al governo Gentiloni passando per Enrico Letta e Matteo Renzi) non hanno mai voluto – o potuto – affrontare il nodo di un settore strategico che forse avrebbe bisogno non solo di una nuova riforma, ma di un vero e proprio ripensamento.
È proprio da questo necessario ripensamento che parte la lunga riflessione che Juan Carlos De Martin – professore al Politecnico di Torino, dove co-dirige il Centro Nexa, che riflette sui rapporti tra Internet e società – ha sintetizzato nel libro Università Futura, pubblicato recentemente da Codice. Tra BIT e democrazia, recita il sottotitolo, e leggendo l’introduzione si capisce perfettamente il senso di questa scelta. L’Università deve accompagnare i cambiamenti della società, assecondarli, studiarli, e al tempo stesso lavorare per far “maturare” la democrazia e la consapevolezza del cittadino e il suo ruolo nella società. Il ripensamento dell’istituto universitario deve andare, secondo De Martin, verso un superamento del funzionalismo, quel modus operandi che ha visto, riforma dopo riforma, l’Università trasformarsi in un esamificio che forma solo ed esclusivamente in vista del mercato del lavoro.
Un luogo che non è più spazio di confronto, di ricerca, di studio sul mondo e discussione di saperi – anche in modo conflittuale – ma è quasi un “passaggio obbligato” per la ricerca di un lavoro. Un approccio, questo, che alla lunga porta lo studente ad atrofizzarsi, a inseguire modelli ‘miopi’, accumulare crediti (non a caso chiamati formativi) ed esami in corsi di laurea scelti solo ed esclusivamente secondo le statistiche sull’occupazione. Dimenticandosi, tra l’altro, che è molto difficile ipotizzare una scelta di vita sulla base di statistiche che cambiano di anno in anno (e questo è anche il grande limite delle argomentazioni di chi, ogni anno, più o meno in estate, pubblica l’ennesima polemica sull’inutilità del Liceo Classico e degli studi umanistici, ma questo è un altro discorso).
L’Università deve accompagnare i cambiamenti della società, assecondarli, studiarli e al tempo stesso lavorare per far “maturare” la democrazia e la consapevolezza del cittadino e il suo ruolo nella società.
Università come spazio libero e di comunità, in stretto dialogo con la città in cui vive, non come mondo a parte. “Una repubblica, infatti, va costantemente curata e preservata; la democrazia è un ideale a cui tendere costantemente”. E questa tensione si traduce in una proposta radicale di rovesciamento della missione del mondo accademico. Oltre la retorica dell’Università come asset strategico capace di attrarre finanziamenti e fornire servizi alle aziende (che piegherebbero la ricerca ai propri scopi), per affrontare le sfide fondamentali del “mondo a venire” che, per De Martin, riguardano la democrazia, l’ambiente, la tecnologia, l’economia e la geopolitica. Per farlo, la proposta è quella di lavorare su piattaforme di confronto permanente che rendano l’Università viva oltre lo spazio delle lezioni e quello degli esami. “Un’università che educhi cittadini consapevoli delle sfide che attendono la società […] che aiuti le istituzioni democratiche e il sistema produttivo a prepararsi per tempo ad affrontare scenari futuri ormai certi […] università come istituzione dallo sguardo lungo in un momento la società è dominata dall’economia, ovvero da uno sguardo focalizzato sul brevissimo termine”.
C’è moltissima azione politica, nella riflessione di De Martin: politica e non partitica. L’argomentazione si oppone all’ideologia mercatista e liberista che ha portato sempre più l’Università a snaturarsi per piegarsi a logiche di natura aziendale e funzionale, per recuperare la sua funzione “civica” per agire con la società ma, soprattutto, nella società. È un’idea che si avvicina ad alcune argomentazioni e riflessioni sul ruolo dello stato e delle istituzioni nell’epoca contemporanea come quella sullo “stato innovatore” di Mariana Mazzucato. La tesi – che ha fatto molto rumore ed è stata anche ripresa (come slogan) anche dall’ex presidente del consiglio Matteo Renzi, fotografato dal suo addetto stampa Filippo Sensi/nomfup – si concentra sulla revisione del ruolo dello stato, che può (e deve) essere motore fondamentale per innovazione, crescita e sviluppo in modi alternativi rispetto alle logiche di mercato proprio perché si può permettere di “andare a fondo perduto”.
Lo stato, nella sua visione più “social-democratica”, si può fare garante di un progetto di ristrutturazione profonda della politica aziendale e culturale proprio perché, non dovendo presentarsi a un Consiglio di Amministrazione, ha le possibilità e le capacità di aspettare che i processi innovativi arrivino a buon punto senza avere l’ansia del risultato o la visione corta. Mazzucato pone l’esempio ideale della Silicon Valley, costruita come vero e proprio “progetto culturale” (se ci pensate, un mix perfetto di soft e hard power) innervato da importanti quantità di denaro pubblico lungo vari decenni. Immaginate, adesso, un politico che si alza e propone un piano di investimenti su un settore strategico dicendo che il risultato si vedrà fra 50 anni e pensate al tipo di tempesta mediatica capace di scatenarsi.
La proposta di De Martin è radicale: una riforma sostanziale del percorso accademico, un periodo di “incubazione” in cui lo studente sia libero di esplorare discipline di vari ambiti che finalmente tornano a dialogare.
Essere in un contesto regolato dalla estrema funzionalità, dalla necessità di generare utili o cercare fondi perché i finanziamenti ordinari sono sempre più scarsi, e dall’isteria del risultato istantaneo, ha portato l’Università a tradire la sua missione originaria (e cioè il luogo di discussione, confronto e costruzione della società futura) per diventare invece un “tecnificio” dell’eccellenza programmatica. Scardinato dalla ricerca pura, quindi piegato a logiche che rispondono ad aziende e alle ‘mode’, il corpo docente si ritrova a pubblicare una quantità abnorme di pubblicazioni per restare “a galla” (esiste un termine tecnico: publish or perish), per accreditarsi nelle classifiche di rendimento che si basano sul principio dell’accumulo – quantità e non qualità – e sperare, quindi, di passare ai livelli più alti di ordinamento e retribuzione.
È un meccanismo dell’accumulo proprio dell’ideologia culturale capitalista, che ha ormai plasmato l’Università. Le riforme citate in apertura non hanno fatto altro che facilitare questa trasformazione. Ecco quindi la figura dello studente trasformarsi in cliente o, meglio, consumatore che si muove nello spazio dell’Università non per cercare un confronto con il contesto, con la realtà, costruendo percorsi di partecipazione e di formazione culturale per affrontare il mondo là fuori, ma una matricola che paga le tasse (e nemmeno troppo basse) e quindi pretende un servizio che garantisca un ritorno quantificabile (in voti, ma soprattutto in crediti formativi) e la “certezza” della prospettiva di lavoro (spesso viziata da genitori spaventati dall’incertezza del mercato del lavoro).
La proposta di De Martin, in questo, è radicale. Ed è una riforma sostanziale del percorso accademico. Anziché un cammino già dato dal primo all’ultimo anno, si propone un periodo di “incubazione” in cui lo studente sia libero di esplorare a 360 gradi, affrontando corsi diversi, discipline di vari ambiti che finalmente tornano a dialogare (tra l’altro, questa prassi sarebbe ideale anche nel mondo del lavoro, se è vero che nell’utopia di Adriano Olivetti – ancora adesso considerata una delle più grandi occasioni perdute del paese – gli intellettuali e i tecnici dovevano lavorare a stretto contatto per creare assieme il mondo nuovo). Solo dopo aver affrontato questi anni di viaggio in mare aperto, anche con attività collaterali, si potrà procedere a una specializzazione più tecnica, che sarà quindi intrapresa con una maggiore consapevolezza e una maggiore motivazione. Lo studente ‘agente’ del proprio destino dentro una comunità attiva, operativa, dialettica e capace di “dire la verità, anche quella scomoda”. Università che deve ritrovare il suo ruolo di agorà dentro la città, a servizio della città ma anche capace di guidare le evoluzioni della città e, quindi, del paese.