D ue anni dopo la firma dell’accordo, è infine arrivato a Budapest il tanto atteso via libera da parte dell’Unione Europea: l’Ungheria potrà allargare la centrale nucleare Paks, costruita all’epoca del comunismo, grazie a un prestito di oltre 12 miliardi di euro concesso dalla Russia.
Si tratta di un evento molto significativo, almeno per due motivi. Da un lato, perché questo accordo aggira in qualche modo le barriere innalzate con le sanzioni di carattere economico alla Russia dopo l’annessione della Crimea nel 2014, e dall’altro perché aumenterà l’influenza russa sul paese mitteleuropeo, le cui politiche energetiche ora dipenderanno in larga misura da Mosca.
Influenza: è questo il termine chiave al centro della politica estera del Cremlino. Una politica che ha saputo far sua l’eredità dell’Unione Sovietica, se non tanto nel brand ideologico, per lo meno per quanto riguarda la diplomazia a livello internazionale. La Russia è infatti l’erede principale dell’estinta URSS, ma mentre per quest’ultima l’apparato ideologico era il motore che portava a compimento l’intreccio di relazioni internazionali con l’obiettivo di poter controllare gli altri paesi, adesso Mosca conduce una politica estera che non muove da principi ideologici, ma da ambizioni dominatrici.
A rimanere invariato è l’assetto della diplomazia pubblica. Come spiega Ladislav Bittman, accademico esperto di propaganda sovietica, l’attività dell’Agit-prop, ovvero il dipartimento per l’agitazione e la propaganda dell’Unione Sovietica, si sviluppava in due forme di diplomazia pubblica: la prima era “manifesta”, pubblica, includeva gli strumenti classici della propaganda di regime, pubblicazioni e trasmissioni internazionali, diplomazia culturale, supporto a partiti e persino a circoli culturali in giro per il mondo; la seconda, invece, era segreta, riguardava l’impiego di agenti, un’intensa attività di disinformazione sui media occidentali, nonché il supporto ad organizzazioni della società civile all’estero.
Mosca ha saputo utilizzare a proprio vantaggio la presenza di compatrioti nei paesi vicini, verso i quali viene indirizzata una politica che è stata definita ‘cooperazione umanitaria’.
Come afferma Andrew Wilson, analista di questioni ucraine, dopo la Rivoluzione Arancione in Ucraina, nel 2004, la Russia ha rispolverato i vecchi metodi della diplomazia sovietica, sia quelli manifesti che quelli segreti. Di quest’ultimi esiste un’evidenza aneddotica, specie se si considera l’apparato di disinformazione, l’impiego di agenti e la creazione di organizzazioni il cui compito è stato aumentare l’influenza russa, nell’immediato della ribellione di Kiev. L’abilità diplomatica di Mosca è stata quella di saper utilizzare a proprio vantaggio la presenza di compatrioti all’interno dei paesi vicini, verso i quali viene indirizzata una politica che è stata sapientemente definita “cooperazione umanitaria”.
Paesi come l’Ucraina, la Moldavia e anche le repubbliche baltiche, infatti, rientrano tra quei paesi una volta facenti parti dell’URSS che erano altamente interdipendenti tra loro e al cui interno vi sono molti russi che all’improvviso si sono ritrovati cittadini di stati sovrani. Per l’élite politica russa è stato dunque difficile accettare che questi stati venissero trattati in politica estera proprio come tutti gli altri piuttosto che come “vicini” a cui dedicare un interesse e un coinvolgimento maggiori.
Modest Kolerov – da anni a capo di diverse organizzazioni non governative (tra cui REGNUM News Agency) il cui obiettivo velato è quello di aumentare l’influenza russa all’estero attraverso l’attività della società civile – ha pubblicamente dichiarato che la Russia è in grado di offrire ai suoi vicini la giusta combinazione tra sovranità, senza le normative e le condizioni riguardanti gli affari interni che tipicamente impone l’Ue, e un’alternativa al crescere del nazionalismo, della militarizzazione e del coinvolgimento in politica di servizi speciali che altrimenti dominerebbero lo spazio post-sovietico.
Nel contesto della ‘diplomazia manifesta’ del governo russo troviamo accordi di carattere economico ed energetico, che a sua volta la ‘diplomazia segreta’ supporta e promuove.
Successivamente alla Rivoluzione Arancione, la politica estera russa verso lo spazio post-sovietico si sviluppa su quattro pilastri: un coinvolgimento politico di carattere preventivo; una “diplomazia delle ONG”, creando network tra gruppi ed associazioni filo-russe; una cooperazione di carattere culturale; e ultimo, ma non per importanza, la creazione e gestione di canali mediatici in grado di esercitare influenza e diffondere il punto di vista del governo russo.
Dall’altro lato, nel contesto della “diplomazia manifesta” del governo russo, troviamo anche accordi di carattere economico ed energetico come quello stipulato con l’Ungheria, che a sua volta la “diplomazia segreta” supporta e promuove, e che ben rendono l’idea della tipologia di influenza alla quale i paesi si sottomettono quando vengono a patti con Mosca, nonostante al loro interno non vi siano minoranze russe, come nel caso magiaro. A livello geopolitico, per Budapest questo comporta che il proprio paese possa essere soggetto di una contesa tra l’Unione Europea, organizzazione internazionale di cui è parte e che ne garantisce la stabilità, e la Russia, dalla quale dipende in larga parte per quanto riguarda il rifornimento energetico. Per un paese piccolo come l’Ungheria il risultato politico che ne potrebbe derivare è quello del piede in due scarpe. E questo tipo di scenario è proprio l’aspettativa maggiore che la Russia cerca di perseguire con la sua politica di ingerenza.
Lo stesso tipo di scenario, ovvero l’oscillazione tra est e ovest, è quello che da anni si vede nei paesi del sud est europeo, a tinte ancora più forti. La maggior parte degli stati balcanici, infatti, siede nella sala d’aspetto dell’Unione Europea, godendo del suo indispensabile appoggio economico, destinato a far raggiungere gli standard europei prima dell’accesso definitivo, ma allo stesso tempo senza precludersi il sostegno, se non addirittura la “fratellanza” quando si tratta di paesi a maggioranza ortodossa, della “madre Russia”. È il caso, per esempio, della Serbia, il cui obiettivo numero uno in politica estera è l’integrazione europea ma alla quale la Russia guarda come avamposto nei Balcani per i propri obiettivi geopolitici. In cambio, il Cremlino mantiene fede alla sua politica di continuare a non riconoscere a livello internazionale il Kosovo e di fornire assistenza militare a Belgrado.
Lo scopo ultimo della diplomazia internazionale russa è quello di generare uno sbilanciamento di forze contro la NATO, specialmente in paesi come la Serbia o il Montenegro.
Approcci come questo sono da intendersi come continuazione del clima da Guerra Fredda, durante la quale il terreno di scontro tra le due superpotenze si sviluppava sempre in paesi terzi. Lo scopo ultimo della diplomazia internazionale russa è infatti quello di generare uno sbilanciamento di forze contro la NATO, specialmente in quei paesi che non ne sono ancora parte, come la Serbia o il Montenegro – dove lo scorso ottobre è stato sventato un colpo di stato ordito da nazionalisti russi al fine di impedire la rielezione del premier Đukanović, il cui obiettivo dichiarato in politica estera è proprio l’integrazione nella NATO.
Che le intenzioni del Cremlino in politica estera siano serie è confermato non solo dalle analisi circa la sua strategia di influenza, ma è attestato dai fatti stessi, tra cui la guerra nell’est dell’Ucraina che si protrae da tre anni è forse l’esempio migliore. Proprio da questo conflitto, inoltre, si è assistito alla guerra mediatica che ha diviso l’opinione pubblica europea circa le azioni della Russia di Putin. Le sue politiche vengono difese e promosse da canali satellitari filo-governativi che all’estero godono di un’enorme audience, come Russia Today, il cui budget all’indomani della Rivoluzione Arancione era di appena 30 milioni di euro annui e a oggi ammonta invece a 300 milioni.
In conclusione, la Russia di oggi ha sì cambiato look rispetto al periodo socialista, ma il suo approccio dominatore è rimasto intatto, somigliando sempre più a una potenza di natura imperialista, come il rivale Occidente. A farne le spese, nella terra di mezzo, come ai tempi della Guerra Fredda, restano i paesi dell’Europa orientale.