P er quanto Sabbie bianche non si presenti come “un romanzo, né un reportage, […] una raccolta di racconti e nemmeno un diario di viaggio”, non è l’oggetto misterioso in cui speravo. Di quella colonna che mezzo secolo fa venne definita New Journalism, Geoff Dyer è un’ennesima vertebra, una calcificazione che ricopre le stesse funzioni di quelle adiacenti. Cosa accomuna insomma questo mucchio di ossa? Sono tutte bianche, molto bianche, e iniziano a sentire il passare del tempo.
La raccolta si apre con Città Proibita, un articolo pubblicato da Harper’s in cui l’autore racconta i giorni conclusivi di un viaggio in Cina. Il privilegio di raccontare da insider l’alba del secolo cinese sfuma in una specie di meta umorismo post-coloniale:
‘Gualda, sembli Geolge Clooney!’ disse [l’affascinante guida cinese, ndA] spalancando gli occhi. Non le avevo mai sentito un accento così forzato. Rompendo l’incantesimo, lo rese ancora più potente. E mi aveva superato in spiritosaggini da bar.
Un viaggio nella Polinesia Francese di Gauguin si trasforma in un esperimento psicologico dove chi scrive è cavia, gabbia e carnefice. Il lettore diventa laboratorio, e si limita ad alzare un sopracciglio di fronte a certi passaggi (esempi: si racconta “il paradiso di gnocchitudine” che dev’essersi presentato di fronte a Gauguin, l’autore racconta la versione aggiornata di questo paradiso, popolato da donne “bellissime… soprattutto da giovani. Poi, da un giorno all’altro, diventano incredibilmente grasse. È come se scoprissero Fat is a Feminist Issue e lo trangugiassero”), per poi perdere la cognizione del tempo grazie a un campo da calcio scalcinato sull’isola di Atuona, che presenta a Dyer l’occasione di riabbracciare una foto scattata da Ghirri a Salisburgo nel 1977: un campo da calcio che autoalimenta la visione della propria scomparsa, scrive l’autore, generando l’interludio d’oblio che è precondizione della riscoperta, scrive sempre l’autore, sfumando i contorni di una mancanza di scopo totale e onnivora e senza fine.
Siamo qui per annoiarci a morte e poi interrogarci su come sia possibile annoiarsi tanto. […] Siamo qui per andare altrove.
Lo spleen è illimitato e lo stato mentale di Dyer attraversa tutti i livelli della materia: “l’albergo era enorme e lussuoso, e benché la vista fosse fantastica persino l’oceano sembrava curato”. Un estratto che potrebbe provenire dalla maggior parte dei saggi di Sabbie Bianche, dove spesso viene carezzata la sontuosità delle cornici e sgorga il bisogno e l’ansia di comunicare la variante deluxe dell’Esperienza, portando a riflettere sulla condizione economica della professione giornalistica, anche tra i suoi fiori più profumati. Con lentezza però, ormai assuefatti alla trafila di onesti first world problems – la wifi che non prende, le multinazionali che cambiano ingredienti – si iniziano a intravedere i contorni di un’opera coesa.
Oltre a esserne innamorato, Dyer è consapevole delle sue idiosincrasie ed è molto capace di trasformarle nel sottoprodotto nauseante di ogni viaggio, lo spaesamento, e cerca di comunicarci in tutti i modi che nonostante si possa vedere mezzo mondo, il mondo rimarrà sempre la proiezione distorta di soggettivissime pulsioni, impressioni, pregiudizi e ansie.
‘Polinesia’ significa ‘tante isole’, in ognuna delle quali vorresti essere, anziché su quella dove sei.
Il fatto è che il lettore può fingersi complice di questa impudica ammissione di incapacità/immaturità/negligenza/egotismo, ma se lo fa è, come dire, per educazione. Lo fa anche perché si è affezionato a questo grumo di tic: la vita, però, è altrove. Ma se la vita è altrove, dov’è l’altrove?
Fu presto chiaro che la domanda ‘Dove andiamo?’ si stava trasformando nel suo opposto, ‘Dove non andiamo?’, a cui si rispondeva con: tutti i posti dove volevo andare veramente.
La rappresentazione del “mondo” è entrata in crisi nel momento in cui abbiamo realizzato che, di “altrove”, non ce n’è: nonostante i dirottamenti pubblicitari in direzione Maui o Phuket, non esiste un fondale rispetto alla scena principale, un palco in cui il mondo potrà infine performare sé stesso: il mondo, come concetto normativo, è finito. (Nel giro di una settimana, a caso ma non troppo, ho trovato la stessa parodia dell’esotico-come-altrove-inesistente in Sabbie Bianche, Dark Ecology di Morton, Dissipatio H. G. di Morselli. Carramba ideologica e lessicale).
Secondo Jakob von Uexküll – biologo e pilastro del Novecento – ogni giorno ci muoviamo in una bolla che si chiama Umgebung, o dintorni, dove sono i soggetti a comporre il proprio ambiente, e non viceversa: il vivente non si adatta a uno spazio esterno (Umwelt, o ambiente), dato, ma è la sua soggettività deputata a filtrare gli input decisivi in ottica di sopravvivenza. In poche parole, quello che l’Ambiente offre a chi lo vive è funzione della domanda stessa. Di tutta la ricchezza degli atolli polinesiani, i miraggi del New Mexico, i pastelli californiani… l’animale Dyer raccoglie i segni percettivi che lo stimolano.
Dall’aurora boreale a pochi chilometri di distanza sabotata da una partita di calcio in TV, al fascino dello Spiral Jetty costruito da Smithson nel 1970 e annegato dalla marea del Great Salt Lake per quasi trent’anni, alla coda del libro, dove svetta Pellegrinaggio, un saggio sull’esperienza losangelina di Adorno: il dispatrio, la distanza, lo scarto tra spazio e tempo viene circuìto ossessivamente dalla ricerca di Dyer, letteraria e non, una forza cinetica che aumenta la temperatura emotiva del libro, fondendo i punti di contatto tra chi scrive, chi legge, lo spazio che li circonda.
Parlando proprio di Adorno, Dyer ricorda l’importanza di Minima Moralia nella sua vita e lo status di Adorno–fiore–all’occhiello–intellettuale, paragonandolo (non senza coraggio) al Knausgard di questi anni Dieci, e citando lo stesso Knausgard: “quello che mi ha arricchito leggendo Adorno, non stava in ciò che leggevo ma nella percezione che ho avuto di me stesso mentre lo leggevo. Ero una persona che leggeva Adorno!”. Leggendo Sabbie bianche, invece, mi sono sentito un po’ solo: solo, fatta eccezione la compagnia disinteressata di Dyer, uno di quei saggisti che si leggevano molto all’inizio del ventunesimo secolo.