I l recente attentato alla metropolitana di San Pietroburgo ha ridestato i mai sopiti incubi nei confronti del terrorismo di matrice caucasica e islamista in Russia. Incubi antichi almeno duecento anni e che tornano ciclicamente a funestare la società russa. Non a caso la prima pista seguita dagli inquirenti è stata quella cecena e non a caso i media continuano a insistere sulla matrice caucasica dell’attacco. È dai tempi delle guerre ottocentesche per la conquista del Caucaso che perdura un conflitto, feroce e strisciante, tra quelle popolazioni e le autorità russe. Le cronache ci rammentano i fatti più recenti, dall’attentato all’aeroporto di Domodedovo del 2011 a quello alla metropolitana di Mosca del 2010, fino alla strage della scuola di Beslan del 2004 o l’attacco al teatro Dubrovka che causò ben 169 morti. Tutti attentati rivendicati o ascritti al terrorismo ceceno, che il Cremlino definisce “jihadista” ma si radica nella lunga lotta per la libertà da parte dei popoli caucasici. Una lotta che ha assunto varie forme nel tempo, di cui quella islamista è solo la più recente.
Alle origini della questione cecena
Quando l’impero russo si affacciò sul Caucaso, verso la fine del Settecento, trovò una congerie di popoli diversi ma accomunati da un marcato senso di libertà. La religione musulmana non aveva un ruolo preminente. Erano infatti gli anziani a esercitare la giustizia mentre il diritto consuetudinario (adat) non era stato scalzato dalla legge islamica (shari’a). Anzi, l’Islam era praticato attraverso il sufismo, corrente mistica e moderata, organizzata per confraternite (tariqat). Tale organizzazione comunitaria, basata su clan e tribù, aveva però impedito lo sviluppo di stati moderni, con relative aristocrazie e classi dirigenti.
L’impossibilità di cooptare all’interno dell’impero le élites locali, insieme alla fiera resistenza delle popolazioni caucasiche, portò a un conflitto feroce di cui per primi fecero le spese i circassi, popolazione di fede musulmana, largamente diffusa nel Caucaso settentrionale, che venne letteralmente annientata attraverso deportazioni, pulizia etnica e genocidio. Vittime di deportazioni furono anche abkhazi, abazi e cabardini. Le popolazioni nakh, ovvero ceceni, ingusci e kist, strettamente imparentate tra loro, si unirono allora sotto la guida di Shaykh Mansur in una lotta impari (1785 – 1791) che si concluse con la sconfitta. Dopo pochi anni di relativa pace, fu la volta di Imam Shamil, vero eroe popolare nakh, che tra il 1824 e il 1859 riuscì a tenere testa ai russi proclamando il jihad. Shamil seppe uscire dai confini tradizionali della famiglia e del clan, mobilitando un vero esercito e organizzando una struttura amministrativa, nominando governatori locali affiancati da un muftì, interprete della legge islamica. Si trattò di un embrione di stato ceceno che trovò, nell’Islam, legittimità e coerenza. Di più, si trattò di un embrione di stato caucasico sorretto dalla fede islamica, paradigma per ogni futuro tentativo di costituire un Emirato del Caucaso capace di garantire indipendenza alle popolazioni locali. È stata la conquista russa, quindi, a spingere verso la creazione di un’entità politica organizzata attorno all’elemento religioso. Shamil venne sconfitto ma ci vollero ancora decenni prima che i russi potessero imporre la loro autorità. Tuttavia la sua lezione non verrà dimenticata.
È dai tempi delle guerre ottocentesche per la conquista del Caucaso che perdura un conflitto, feroce e strisciante, tra le popolazioni cecene e le autorità russe.
Un pronipote di Shamil, nel 1917, approfittando della confusione seguita alla Rivoluzione d’Ottobre, dichiarò l’indipendenza dell’Emirato del Caucaso sfidando apertamente il generale Denikin, leader militare dell’Armata Bianca durante la guerra civile russa. Quando però i “bianchi” vennero sconfitti dall’Armata Rossa le cose peggiorarono: nel nuovo stato bolscevico non c’era spazio per l’elemento religioso, così importante per l’identità nakh. La resistenza caucasica venne repressa nel sangue e le élites religiose islamiche vennero deportate e giustiziate. Il rapporto tra ceceni, ingusci e kist nei confronti dello stato sovietico fu sempre turbolento e segnato da gravissimi eventi tra cui spicca la deportazione dei ceceni ordinata da Stalin nel 1944. La loro colpa sarebbe stata quella di “tradimento” e intelligenza con il nemico nazista durante la Seconda guerra mondiale, punita con la deportazione di massa in Asia centrale. La mattina del 23 febbraio 1944 migliaia di soldati sovietici accerchiarono le città e i villaggi ceceni e in poche ore, grazie a un piano meticolosamente studiato, fecero salire l’intera popolazione su treni diretti verso il Kazakistan e il Kirghizistan. Solo dopo la morte di Stalin i ceceni vennero ufficialmente “perdonati” per una colpa che non avevano mai commesso e poterono così fare ritorno in patria. Emarginati e perseguitati, coltivarono in silenzio la memoria di una deportazione che la storiografia di regime negava.
La memoria e il nazionalismo
Verso la fine degli anni Ottanta, complice la libertà di espressione che andava diffondendosi in virtù delle riforme di Mikhail Gorbacev, si cominciò a ricordare apertamente il trauma della deportazione. Presto il tema entrò nel dibattito politico locale e, nel 1990, venne persino istituita una “giornata della memoria e del dolore”. La riscoperta della deportazione in termini politici, poetici e patetici fu presto utilizzata come strumento di consenso dalle nuove classi dirigenti locali. In quegli anni emerse la figura di Dzhokhar Dudaev, militare e veterano della guerra in Afghanistan, che nel 1991 dichiarerà l’indipendenza unilaterale del paese approfittando dello sbando seguito alla caduta dell’URSS. Il progetto politico di Dudaev, tuttavia, non mirava a costituire un emirato caucasico, ma si nutriva di retoriche nazionaliste. Fu la prima guerra cecena (1994-1996) a segnare il passaggio dal nazionalismo al fondamentalismo islamico.
L’avvento del wahhabismo
L’esercito russo uscì distrutto dalla prima guerra cecena e la disfatta sarà tra le cause della fine politica del presidente Boris El’cin. I ceceni pagarono però a caro prezzo la vittoria. L’uccisione di Dudaev e il protagonismo dei leader miliziani spostò l’asse di potere verso i signori della guerra locali. Tra questi spiccava Shamil Basaev, nome destinato a entrare nel mito quanto quello degli eroi del passato. La vita di Basaev è degna di un romanzo criminale: reduce di tutte le guerre, già soldato sovietico, dall’inizio degli anni Novanta lo troviamo impegnato in ogni conflitto caucasico, dal Nagorno-Karabakh all’Abcasia. La prima guerra cecena lo vede diventare un protagonista quando decide di sequestrare 1600 persone nell’ospedale di Budennovsk, nel Caucaso russo. Fu quello il primo di molti eclatanti attentati terroristici che rappresentarono, per i ceceni, una risposta alle violenze dell’esercito russo nei confronti della popolazione civile. La brutalità russa in Cecenia, magistralmente raccontata da Anna Politkovskaja, contribuì a creare un’immagine negativa di quella guerra nell’opinione pubblica. Al contempo gli spettacolari attentati di Basaev dimostravano l’impotenza delle autorità di Mosca. Fu così che, terminata la guerra, Basaev diventò un influente capo politico. In quegli anni conosce l’emiro al-Khattab e lo sceicco Fatkhi al-Shishani, sauditi con ampie disponibilità economiche che diedero impulso al wahhabismo locale grazie a ingenti finanziamenti e all’organizzazione di gruppi militari.
Dopo la vittoria nella prima guerra cecena si cominciò a carezzare l’idea di costituire un grande stato islamico: l’Emirato del Caucaso.
La penetrazione del wahhabismo, corrente fondamentalista legata al salafismo, ha causato notevoli contraccolpi nel Caucaso arrivando a cambiare radicalmente i connotati dell’Islam locale. I leader salafiti scelsero di cominciare la propria attività di propaganda nelle regioni in cui dominava il sufismo anche se inizialmente non raccolsero grandi successi: la gente viveva come un sacrilegio le accuse che i salafiti muovevano ai capi religiosi sufi i quali, però, non avevano una preparazione teologica sufficiente per difendersi dagli attacchi dei salafiti. Questa indecisione fu la prima breccia aperta dal salafismo. La seconda furono le jama’at, in arabo “assemblee”, delle strutture politico-militari che raggruppavano piccoli gruppi di persone d’ispirazione salafita. La prima jama’at venne fondata nel 1995, in piena guerra, e non è un caso. La guerra offrì al salafismo l’occasione di guadagnare sul campo quella primazia che ancora non aveva ottenuto attraverso la propaganda religiosa. A capo di una delle più importanti jama’at fu nominato proprio Basaev.
La vittoria nella prima guerra cecena ha consentito ai salafiti di estendere il proprio raggio di azione a tutto il Caucaso settentrionale dove vennero fondate delle jama’at locali. Alcuni musulmani del Caucaso cominciarono a carezzare l’idea di costituire un grande stato islamico, l’Emirato del Caucaso, attratti dalla capacità militare ed economica dei salafiti. Questo si deve anche al comportamento dei russi durante la guerra: uccidendo civili in modo indiscriminato si sono alienati le simpatie dei giovani musulmani del Caucaso che hanno visto nel fondamentalismo una possibilità di riscatto. In quegli anni si andarono inoltre infittendo i rapporti tra i salafiti caucasici e al-Qa’ida.
Nel 1999 una serie di attentati sconvolse la Russia, tre edifici civili vennero fatti esplodere a Mosca e nel Daghestan, causando più di trecento morti. L’attacco offrì a Vladimir Putin la scusa per riprendere la guerra in Cecenia. I soldi sauditi contribuirono largamente alla resistenza cecena ma ne segnarono la radicalizzazione in senso islamista. La guerra di Putin, che doveva essere fulminea, si protrasse così fino al 2009 e fu segnata da una serie di terribili attentati condotti e ordinati proprio da Basaev, quali la strage di Beslan o l’attentato al teatro Dubrovka.
I due emirati
Prima di essere ucciso, nel 2006, Basaev fece in tempo a ordinare la morte di Akhmad Kadyrov, leader ceceno contrario all’indipendenza e vicino alla Russia e a unirsi a Dokku Umarov nell’Emirato del Caucaso, di cui diventò uno dei leader più importanti. La presenza di un Emirato del Caucaso rappresentò una costante minaccia alla stabilità della regione e al processo di normalizzazione avviato dai russi in Cecenia dal 2008 in poi. Grazie all’appoggio di Razman Kadyrov, figlio di Akhmad, e delle sue milizie, i russi riuscirono a cecenizzare il conflitto trasformandolo in una sorta di guerra civile intra-cecena. Mosca ha anche cercato di avviare nel Caucaso un processo di costruzione di un “Islam russo”, fedele a Mosca e direttamente controllato dal Cremlino, alternativo sia alla tradizione sufi che alla penetrazione wahhabita. L’uccisione di Dokku Umarov e il declino dell’Emirato del Caucaso portò però alla nascita di un califfato caucasico dominato da figure provenienti dal mondo arabo e islamico, in prima linea nel reclutamento di combattenti locali da mandare a combattere in Siria. Un dualismo tutt’oggi irrisolto, anche se l’ISIS sembra essere in posizione di vantaggio. Il riconoscimento del Caucaso come nuovo wilayah (governatorato) dello Stato Islamico, avvenuto nel 2015, dimostra la volontà dell’ISIS di stringere ulteriori legami con i mujaheddin caucasici finalizzati alla creazione di nuove cellule capaci di portare attacchi contro la Russia. In quest’ottica, nei piani dell’ISIS, l’Emirato del Caucaso sembra quindi essere un progetto superato.
Il declino dell’Emirato del Caucaso portò alla nascita di un califfato caucasico dominato da figure provenienti dal mondo arabo e islamico, in prima linea nel reclutamento di combattenti locali da mandare a combattere in Siria.
I legami tra guerriglieri caucasici e Stato Islamico, ma anche con componenti come al-Nusra (oggi Tahrir al-Sham), sono così forti che uno dei leader dell’ISIS è stato proprio Omar al Shishani, letteralmente “Omar il ceceno”, un kist del Pankisi (minoranza cecena della Georgia), che ha guidato coorti di mujaheddin caucasici fino alla morte avvenuta nel 2016 durante un raid americano.
I ceceni, doppiamente vittime
In questo quadro la popolazione cecena è stata vittima sia della guerra contro la Russia, sia dei salafiti che hanno lacerato le comunità spazzando le vecchie tradizioni legate al sufismo. Logorata da dieci anni di costante clima di conflitto, la società cecena si è arresa al potere di Kadyrov e al controllo indiretto di Mosca. Tuttavia il Cremlino non ha affatto risolto il problema ceceno che, come dimostra la storia, è la chiave di volta per il controllo della regione. La questione cecena, che Putin e Kadyrov hanno cercato di ridurre a conflitto locale, ha invece assunto una dimensione internazionale saldandosi con il fondamentalismo islamico e facendo della regione uno snodo dello jihadismo mondiale. Per questo, indipendentemente dalla provenienza dell’attentatore di Pietroburgo, il Caucaso resta centrale nelle dinamiche legate alla sicurezza interna ed esterna della Russia.