I l 17 gennaio, nel suo ispirato discorso al World Economic Forum di Davos, il presidente cinese Xi Jinping ha fatto l’apologia della globalizzazione. Nel parlare dei problemi sociali creati dall’integrazione dei mercati, Xi ha più volte ripetuto che l’innovazione è la chiave per dar vita a una globalizzazione che non amplifichi la diseguaglianza, che non si perda nessuno per strada. Insomma, globalizzazione-più-innovazione come ricetta per andare avanti, tutti insieme, e non cedere alla tentazione di tornare indietro, alzare muri.
Già, ma che significa “innovazione” in Cina? Quando si parla di questo tema, ci sono di solito due scuole di pensiero.
L’innovazione è solo “democratica”
La prima, costituita dai teorici della creazione “democratica”, nega che a Pechino e dintorni si possa competere con l’Occidente nella produzione di innovazione radicale o “disruptive” (spesso i due termini vengono usati come sinonimi e per comodità lo faremo anche noi), cioè quella che cambia il paradigma, determina un’accelerazione epocale, distrugge i vecchi mercati e ne crea di nuovi.
Gli esempi percorrono tutta la storia umana, i più noti alla nostra epoca sono forse il personal computer – che “distrugge” il mercato dei calcolatori elettronici a scheda perforata così come quelli delle mini calcolatrici o delle macchine da scrivere – e il telefono cellulare, che mette fuori mercato la vecchia linea telefonica (con le relative cabine che connotavano il paesaggio urbano).
Per trovare l’innovazione radicale cinese – si dice – bisogna risalire al medioevo con le famose “Quattro grandi Invenzioni” (si da faming): carta (e anche la carta igienica, già che ci siamo); bussola; stampa; polvere da sparo, che per altro i cinesi usarono quasi esclusivamente nel sollazzo dei fuochi d’artificio e “noi” utilizzammo molto più efficacemente. Così, a cannonate e fucilate l’Occidente coalizzato finì per invadere la Cina stessa con le guerre dell’Oppio di metà Ottocento.
La Cina – sostiene questa corrente di pensiero – a un certo punto si ferma e lascia il palcoscenico del mondo perché il pensiero confuciano e un’organizzazione politica imperiale frenano lo sprigionamento delle forze creative che connotano invece la storia dell’Occidente, con il sorgere del capitalismo, della borghesia, dello Stato nazionale.
Che significa “innovazione” in Cina? Quando si parla di questo tema, ci sono di solito due scuole di pensiero.
Oggi – si dice – a frenare l’innovazione cinese nonostante gli investimenti e l’integrazione del Paese nei mercati globali, è quel mix di socialismo e confucianesimo che dà luogo a una struttura politico-sociale nemica della circolazione del libero pensiero, quindi delle idee. Solo la “democrazia”, che qui va intesa come liberal-democrazia occidentale, può creare il nuovo. I cinesi copiano, punto.
Bill Dodson, analista statunitense che ha vissuto molti anni in Cina, nel 2012 scrisse China Fast Forward, un libro molto scettico sull’innovazione cinese. Oggi, a cinque anni di distanza, commenta così: “In America non si discute se la Cina abbia acquisito tecnologie industriali e militari d’avanguardia dalle imprese americane. Si cerca piuttosto di calcolare quante migliaia di terabyte di file gli hacker cinesi abbiano rubato agli Stati Uniti per riadattarli all’uso locale”, spiega a Il Tascabile. “Il caccia invisibile cinese J-20 è un esempio calzante: è stupefacente quanto sia simile e funzioni come gli F-22 e F-35 statunitensi”.
Dodson taglia corto anche sul discorso di Xi Jinping a Davos, definendolo ipocrita: “Per il Partito comunista cinese – spiega – l’unica innovazione buona è quella che avvantaggia il Partito stesso”. Cioè, in pratica, “non cozza con la leadership e il controllo della Cina da parte del PCC; non destabilizza il Paese; se creata a livello internazionale, è relativamente facile da cooptare, adattare e ri-impacchettare come indigena”.
Secondo Dodson, la creatività e la “frattura” tecnologica portano inevitabilmente al confronto con i poteri forti, a prescindere dal Paese. Mentre le istituzioni democratiche dell’Occidente hanno la flessibilità necessaria ad assorbire questo urto – anche se a volte un po’ a rilento – in Cina molto semplicemente “non si può”.
“Le innovazioni che per ora i cinesi possono strombazzare sono il supercomputer più veloce del mondo, un risultato conteso tra più Paesi; e il lancio del primo satellite per le comunicazioni quantistiche, avvenuto nell’autunno dello scorso anno. Lo scopo del satellite è quello di sperimentare tecniche di cifratura radicali. Tuttavia, tutti questi risultati nascono ‘salendo sulle spalle’ dei ricercatori internazionali di tutto il mondo che hanno lavorato in questi settori per decenni”, conclude Dodson.
“Innovazione domestica” e “tripla elica”
La seconda scuola di pensiero, quella della cosiddetta “innovazione domestica” (zizhu chuangxin in cinese), ritiene invece che la Cina abbia caratteristiche peculiari che le permettono di avere una propria via originale all’innovazione: in primo luogo, una forte presenza dello Stato che consente di indirizzare la ricerca e gli investimenti; in secondo luogo, un’economia di scala che sopperisce con i numeri al controllo sulla circolazione di pensiero; in terzo luogo, una serie di “caratteristiche cinesi” che rendono percorribile una via del tutto originale ma assolutamente efficiente.
A parere di costoro, la zizhu chuangxin cinese non produce ancora innovazione radicale allo stesso ritmo dell’Occidente semplicemente perché, nonostante la pressoché completa digitalizzazione della società, la caratteristica fondamentale dell’economia dell’ex Celeste Impero è quella di essere ancora “industriale” (la famosa “fabbrica del mondo”).
Qualche anno fa, Will Tao, analista capo di iResearch, un istituto di ricerca cinese specializzato nell’innovazione digitale, ci disse una frase molto lapalissiana e molto cinese: “Siamo ancora un paese di nuova industrializzazione, non un’economia dell’informazione. Così tutte le principali innovazioni in internet ce le troviamo già lì, provengono generalmente dagli Usa e noi le prendiamo belle e fatte”. Con la crescita numerica del ceto medio, l’educazione sempre più cosmopolita delle nuove generazioni e lo sforzo della leadership per spostare sempre più il baricentro dell’economia dall’industria ai servizi – che rappresentano già più del 50 per cento del Pil – gli ottimisti ritengono che la Cina comincerà a sfornare innovazione radicale quasi naturalmente. Non è un caso che Pechino punti molto sull’urbanizzazione come leva dello sviluppo: la città è per definizione il luogo dove si crea innovazione. Ebbene, se la Cina è diventata civiltà urbana nel 2011, quando il 51 per cento della popolazione è risultato essere residente in città per la prima volta nella storia, la percentuale è cresciuto al 57 per cento nel 2016 e punta al 60 per cento nel 2020. Con questi ritmi, non sono lontani i livelli dell’Europa (74 per cento) e degli Stati Uniti (82 per cento).
Secondo il modello ‘a tripla elica’, il motore dell’innovazione e quindi dell’economia sta nell’ibridazione tra università, governo e aziende.
Luca Cacciolatti è docente di marketing e innovazione alla University of Westminster e visiting professor alle università Tsinghua e Ustc di Pechino. Dopo avere studiato i “sistemi d’innovazione regionale” (Regional Innovation Systems – Ris) cinesi, è giunto alla conclusione che la Cina ha già un suo modello per navigare nell’economia dell’informazione.
“Secondo il modello ‘a tripla elica’, il motore dell’innovazione e quindi anche dell’economia sta nell’ibridazione tra questi tre attori: università, governo e aziende”, spiega. “L’ibridazione avviene tramite collaborazioni strategiche tra i vari attori. In Cina la tripla elica funziona in maniera particolare. Il motore dell’innovazione è il governo. Ma non in quanto attore esterno, bensì come attore presente nel Dna delle università, dove c’è sempre un preside di dipartimento e un vice-preside, che è anche membro del Partito. I due agiscono sempre in accordo e il vice assume il ruolo di supervisore del dipartimento. Il che ha sia vantaggi sia svantaggi. Di positivo, c’è un meccanismo che permette l’adesione alle politiche governative, che è quello che manca spesso nei Paesi Europei; lo svantaggio è la limitata azione del preside, che deve sempre essere soppesata dall’opinione del vice preside. Comunque, io personalmente non vedo il sistema cinese negativamente, perché secondo me il miglioramento si ottiene sempre tramite discussione, negoziazione e grazie a quel consenso che manca in molte organizzazioni Europee”.
Il punto, secondo Cacciolatti, è che sono gli stessi Ris a necessitare della pianificazione di lungo termine del governo, cioè della sua presenza.
“Vedi il caso della Corea del Sud. Sono passati da un’economia agraria negli anni ’50 allo sviluppo industriale tra gli anni ’60 e ’80, grazie a iniezioni di capitale straniero. Poi, grazie al coordinamento tra i Ris appogiati dal governo – che in Corea è molto interventista, un po’ come la Francia – hanno compiuto la transizione verso l’economia della conoscenza degli anni ’90-’00, raggiungendo una crescita economica del 10 per cento. Una pianificazione governativa dei Ris a lungo termine – 30-50 anni – è essenziale per lo sviluppo economico di un Paese”.
Quindi, secondo questa impostazione, ciò che conta è soprattutto la stabilità istituzionale, che per la Cina è un vero e proprio chiodo fisso.
Fattore guanxi
Il guanxi è una caratteristica culturale della società cinese che consiste nel fare leva su una rete di conoscenze – una “famiglia allargata” – per ottenere vantaggi sia personali sia di gruppo (e quindi anche d’impresa). Il guanxi viene coltivato di continuo, rende possibili e al tempo stesso plasma gli obiettivi di lungo periodo dei singoli e delle organizzazioni collettive. È una rete relazionale intricata e pervasiva che si nutre di impliciti obblighi, intese, assicurazioni e accomodamenti reciproci; è un codice che pervade ogni aspetto della vita e che esiste da secoli.
Di solito viene preso ad esempio per spiegare inefficienza e mancanza di innovazione: di fronte a un’idea eccellente e a un’idea che proviene dalla mia rete relazionale, sceglierò sempre la seconda, perché è un obbligo sociale e perché in futuro ne trarrò qualche beneficio. Eppure, favorendo la comunicazione continua, il guanxi favorisce anche lo scambio di informazioni e quindi stimola il processo creativo.
Uno studio di ormai oltre quindici anni fa (Guanxi and organizational dynamics: organizational networking in Chinese firms – in Strategic Management Journal, 2001) rivela questa natura ambivalente della rete relazionale secondo caratteristiche cinesi: da un lato, il guanxi aiuta le imprese a espandersi (a conquistare fette di mercato), ma ne penalizza l’efficienza e i profitti netti (per via delle risorse spese nella coltivazione del network); dall’altro lato, però, studi specifici sul sistema delle banche e su quello degli ospedali rivelano che le strutture collegate tra loro sono più predisposte ad adottare le innovazioni.
Capire il guanxi significa, paradossalmente, dare ragione sia alla scuola dell’innovazione “democratica” sia a quella dell’innovazione “domestica”: il guanxi non favorisce di certo le idee nuove; ma, se queste si impongono, favorisce la loro diffusione alla velocità della luce.
Il guanxi è una caratteristica culturale della società cinese che consiste nel fare leva su una rete di conoscenze per ottenere vantaggi sia personali sia di gruppo.
E questo ci dice molto sulla natura dell’innovazione cinese, quasi mai “radicale” e quasi sempre “incrementale”. Esiste un’innovazione che nasce dal “caso”, cioè da idee di singoli che operano in un contesto aziendale o accademico molto orizzontale. Ci si può chiedere come in un sistema molto top-down e controllato come quello cinese si sopperisca a questa mancanza.
Secondo Luca Cacciolatti, anche in Cina esiste la creatività che nasce dal caso, per un motivo molto semplice: i cinesi sono bravissimi a creare “piattaforme”, i luoghi dove si coltiva la creatività. “L’innovazione dei singoli che operano in contesti non aziendali e non accademici, a livello inizialmente hobbistico, esistono negli spazi creativi che si chiamano ‘makerspaces’”, spiega. “Di solito vedono la compresenza di caffetterie ma – cosa molto più importante – di spazi per i meeting di chi vuole parlare di business, nonché di attrezzature per la manifattura digitale dei prototipi di un prodotto, come per esempio stampanti laser, mixer per la musica, studi di registrazione audio-video, spazi per la realtà virtuale e così via”.
A Pechino, un esempio di questi spazi creativi è l’Innoway di Zhongguancun, nel quartiere che fino a poco tempo fa era una grande rivendita a cielo aperto di hardware e ora punta su un’economia della conoscenza che non è solo manifatturiera.
“Queste iniziative sono supportate dal governo e facilitano lo sviluppo di idee creative, prototipi ed addirittura aziende, perché questi spazi sono spesso associati a diversi angel investors [soggetti facoltosi che investono in start-up di piccole dimensioni, ndr] oppure venture capitalist [che investono in progetti più grandi, ndr]. In questo caso lo Stato non controlla il contenuto dell’innovazione, ma favorisce l’emergenza di una piattaforma per l’innovazione. Quindi, è la scintilla che incendia la benzina nel motore dell’economia e le aziende private sono i pistoni che pompano l’innovazione e l’imprenditoria nel sistema economico”.
Spesso, la creazione di “parchi tecnologici” o di “vie dell’innovazione” è associata alla bolla immobiliare: cresce il contenuto cognitivo di un’area e cresce anche il suo prezzo al metro quadro. Ma del resto, non è stato così anche per la Silicon Valley?
Il vantaggio dell’arretratezza
Quando si parla di innovazione cinese, di solito si cita il caso di WeChat, la app targata Tencent – uno dei tre giganti dell’It cinese, con Baidu e Alibaba – come esempio cristallino. Nato come imitazione di WhatsApp, “Weixin” (questo il suo nome cinese) si è rapidamente evoluto da servizio di messaggistica istantanea a piattaforma con la quale si può fare tutto. È l’esempio tipico di come la copia si trasforma in innovazione incrementale e poi diventa “disruptive”, nel senso che cambia il paradigma e distrugge mercati pre-esistenti. Oggi, con WeChat hai il social media su piattaforma mobile – e infatti la sua crescita vertiginosa ha ridimensionato lo storico Weibo – ma anche una piattaforma onnicomprensiva con cui compri i biglietti del treno, dell’aereo, del cinema e del teatro, fai ecommerce, paghi le bollette, ricarichi il tuo telefonino, effettui transazioni bancarie, paghi alla cassa di ristoranti, negozi, supermercati e molto di più. Qui, la radicalità dell’innovazione nasce dalla convergenza che viene amplificata da quella economia di scala che solo la Cina rende possibile: a fine 2016, gli utenti di Weixin sono 864 milioni, di cui almeno 70 milioni fuori dalla Cina.
Parrebbe un successo ma Bill Dodson è di diverso avviso: “Wechat è espressione di quello che gli economisti chiamano ‘il vantaggio di arretratezza’”, spiega. “I paesi che restano indietro nello sviluppo tecnologico hanno il vantaggio della rincorsa rispetto alle economie più avanzate nella realizzazione di tecnologie mature. Le economie avanzate hanno un peso del passato e interessi politici da gestire che rendono la rincorsa difficile, se non impossibile”.
Un perfetto esempio sono le infrastrutture della Roma antica, che rendono impossibile una nuova linea della metropolitana. “In Cina, tutte le metropoli e quasi ogni città di secondo livello hanno metropolitane e treni ad alta velocità che le collegano tra loro”. Similmente, l’assenza di infrastrutture di telefonia fissa ha permesso alla Cina di sviluppare rapidamente le comunicazioni mobile. E l’immaturità del settore bancario e finanziario nel contesto di un’economia che, dalla manifattura ai servizi, è in rapida evoluzione, ha richiesto uno strumento che corrispondesse alla gamma di attività che tale enorme Paese è in grado di generare.
“I cinesi partecipano ventiquattr’ore su ventiquattro alla ‘toilettatura’ dell’ecosistema di social networking WeChat, piattaforma perfetta per un Paese in cui l’uso della carta di credito è ancora allo stato neonatale. Non dimentichiamoci però che pezzi da novanta del calibro di Twitter, Facebook e Google stanno tenendo d’occhio Weixin per capire cosa se ne può commercializzare nel contesto occidentale, più legato alla privacy”.
L’esempio di WeChat, con gli utenti che offrono un feedback a ciclo continuo, dimostra che una delle peculiarità dell’innovazione cinese è la sua vocazione immediatamente commerciale.
D’altra parte, l’esempio di WeChat, con i suoi grandi numeri e quella continua interazione con gli utenti che offrono un feedback a ciclo continuo, ci dice anche che una delle peculiarità dell’innovazione cinese è la sua vocazione immediatamente commerciale. “Alcuni dei prototipi esposti alla Innoway di Zhongguancun li trovi già in vendita su Jingdong, il sito di ecommerce specializzato nei prodotti elettronici”, spiega Cacciolatti. Questo permette una verifica continua e una continua e velocissima evoluzione. Ma d’altro canto, il rischio è che un prodotto arrivi sul mercato ancora “imperfetto”. Finché si tratta di un instant messenger, poco male; nel caso di altri prodotti si rischia grosso. Il caso che già nel 2012 Dodson riportava in China Fast Forward – e che dà il titolo al libro – è quello del catastrofico incidente ferroviario di Wenzhou (2011), quando due treni veloci si scontrarono per un errore nel sistema di sicurezza “copiato” dall’originale giapponese.
Invece di contrapporre innovazione radicale e innovazione domestica cinese, sarebbe forse più corretto immaginare un universo fluido in cui diverse tendenze, tutte compresenti, connotano lo stato dell’arte. La Cina è, a detta dei suoi leader, un Paese dove coesistono primo, secondo e terzo mondo. Anche nella sfera della creatività è così. A dicembre dello scorso anno, un articolo di Forbes provava a identificare i tipi di innovazione tecnologica compresenti nell’ex Impero Celeste.
Nonostante l’aumentato costo del lavoro, persiste per esempio la manifattura di tech commodities, con Shenzhen che è ormai diventata l’equivalente, per l’hardware, della Silicon Valley per il software (produce circa il 70 per cento dei telefoni cellulari di tutto il mondo, l’80 per cento dei condizionatori d’aria, e addirittura il 90 per cento dei personal computer). Lì, non si fa solo “fabbrica”, ma si sviluppano competenze e si innova sul piano della supply chain. Ai margini della grande produzione hardware, si innesta il movimento shanzai, cioè l’imitazione dei modelli occidentali che vengono convertiti in modelli low-end, spesso bizzarri come il telefonino-rasoio, destinati esclusivamente al mercato locale. C’è proprio un ecosistema shanzai fatto di centinaia di piccole industrie che imitano, disassemblano, aggiungono, provano, sperimentano: qualche “invenzione” si perde nel nulla, qualcosa resta.
Si assiste poi alla Xiaomizzazione dei prodotti, cioè il metodo dell’azienda elettronica nata nel 2010 che consiste nel creare una serie di prodotti high-tech ma low-cost e connetterli tra loro per avere una “smart home”. Così, puoi oggi attivare dal tuo telefonino Xiaomi il tuo filtro dell’aria Xiaomi e, il tuo bollitore di riso Xiaomi e perfino la tua aspirapolvere-robot Xiaomi mentre torni a casa dall’ufficio.
Disruption alla cinese
Se poi per caso un imitatore è anche un fast follower, tu avrai un prodotto sviluppato localmente che diventa ben presto migliore di quello originale – il “vantaggio dell’arretratezza” di Dodson – anche perché in Cina la competizione è alta e bisogna fare in fretta. Tencent (cioè WeChat) nasce imitando Icq. Chi si ricorda di Icq, oggi?
C’è bisogno di innovazione “distruttiva” non disponibile sul suolo patrio? Ecco che i cinesi comprano: “Innovazione per acquisizione”. Nel 2016, ben trentasette imprese tedesche sono passate in mani cinesi per un valore di 10,8 miliardi di dollari, mentre tra il 2010 e il 2015 sono stati 300 i miliardi investiti in acquisizioni negli Stati Uniti.
Da questo ecosistema spuntano come per incanto i campioni nazionali che si ritagliano quasi-monopoli globali grazie ai bassi costi e all’economia di scala, ma non solo: c’è anche la capacità di fiutare la nicchia. Il leader mondiale nella produzione di droni di consumo è per esempio la cinese DJI. Le start-up sono finanziate sia con capitali locali, sia da venture capitalist provenienti da tutto il mondo che adocchiano il prossimo profitto, finché non raggiungono il cosiddetto “unicorn status”, valgono cioè più di un miliardo di dollari. Poi viaggiano da sole.
Oggi in Cina si può creare una start-up in meno di una settimana con solo qualche migliaio di yuan, senza bisogno di un ufficio o di un capitale sociale.
E qui subentra un’altra particolarità dell’ecosistema cinese. Molte di queste imprese non le conosciamo perché, molto semplicemente, puntano al mercato domestico e non sono per ora interessate a fare il grande passo fuori dai confini. Tanto, lì fuori ci sono un miliardo e 400 milioni di potenziali clienti, perché fare il passo più lungo della gamba?
Su tutto, ovviamente, sovrintende lo Stato, non solo con i sussidi, ma anche con politiche mirate. Oggi, in Cina, si può creare una start-up in meno di una settimana con solo qualche migliaio di yuan, senza bisogno di un ufficio o di un capitale sociale. Nel 2014 più di 3,65 milioni di imprese sono state registrate in tutta la Cina; 4,43 milioni nel 2015 e 5,52 milioni l’anno scorso. La maggior parte sono piccole imprese nel settore dei servizi, ma la campagna “imprenditorialità di massa e innovazione” lanciata dal premier Li Keqiang è stata recepita dai governi locali a tutti i livelli – provincia, città, contea, municipalità – che hanno cominciato a sovvenzionare incubatori e parchi dell’innovazione. Di nuovo, ci chiediamo: siamo di fronte a un grande spreco fatto di speculazione finanziaria, immobiliare, soldi che svaniscono nel nulla; oppure alla naturale creazione di un ecosistema secondo caratteristiche cinesi, dove i grandi numeri portano a un ciclo continuo di nascita e morte, in questo caso di imprese e di idee? Finché, darwinianamente, i più adatti sopravviveranno?
Quando anni fa si parlava dell’ingresso di internet in Cina, si riteneva che la rete avrebbe cambiato il Paese. Certo, l’ha fatto, ma non come certi circoli occidentali si sarebbero aspettati. Alla fine, è stata forse la Cina a cambiare internet, creandone una “secondo caratteristiche cinesi”. Lo stesso si può forse dire dell’ecosistema dell’innovazione. La Cina ne sta creando uno secondo proprie caratteristiche. E forse c’è da chiedersi non se, ma quando questo ecosistema darà i suoi frutti più “distruttivi”. Nel senso dell’innovazione, ovviamente.