Q uando si pensa alla più grande mente del ventesimo secolo, i primi nomi che si affacciano sono quelli di scienziati (Einstein, Heisenberg), statisti (Gandhi, Churcill), magari pittori (Picasso), musicisti (Stravinskij), architetti (Le Corbusier), financo filosofi (Simone Weil). Difficilmente si pensa a un poeta. Ma proprio in questi termini (“la più grande mente del ventesimo secolo”) parla di Wystan Hugh Auden il poeta russo Iosif Brodskij nel saggio “Per compiacere un’ombra”, tratto da Fuga da Bisanzio e opportunamente posto sulla soglia della recente edizione Adelphi delle Poesie scelte di Auden, nella versione di due maestri della traduzione, Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica.
“La più grande mente del ventesimo secolo”. Che un ingegno acuto come Brodskij – premio Nobel per la letteratura nel 1987, forse il più grande poeta russo della seconda metà del Novecento – si spinga a tanto avrà un significato, una spiegazione, un punto d’appoggio. Non sarà il semplice frutto di un commosso omaggio amicale. Chi conosce i saggi di Brodskij sa che il russo pratica un profondo scavo critico, mai arreso a slogan o a facili soluzioni. E dunque? Che un poeta sia la più grande mente del ventesimo secolo è una bella rivincita per chi crede nella poesia. Auden non è il semplice “cronista” che intravide Eugenio Montale (un’entrata a gamba tesa che complicò, tra l’altro, la fortuna del poeta in Italia), ma ben altro.
Nel testo originale l’aggettivo è greatest: la greatness è fatta di intuito e buon senso, visione e retroguardia, acribia e cialtroneria, fango e arcobaleno. La più “grande” mente non significa la più intelligente. Né la più geniale. Questa grandezza poi non deriva romanticamente dalla pura e semplice conduzione di vita di Auden. Che fece quel che doveva fare, senza strafare per altro: non visse molto, in fondo, appena sessantasei anni (1907-1973), fu inglese nell’accezione più classica e blasonata (fu oxoniense), e poi americano, ma anche austriaco (d’estate, a Kirchstetten, in un cottage seminascosto ai passanti, in fondo a una via ribattezzata “Audenstrasse”); vide la Guerra di Spagna e la Seconda guerra mondiale; viaggiò in Germania, Cina, Islanda, Italia; bevve molto whiskey e fumò molte sigarette.
La grandezza, naturalmente, risiede nelle poesie. Le poesie di Auden formano un mondo a sé, autonomo, dotato di gravità propria e proprio ossigeno. Come in ogni mondo, c’è tutto. Referti epocali:
Dall’Archeologia
è dato trarre almeno una morale:
cioè che tutti i nostri libridi scuola mentono.
Di quella che chiamano Storia
non c’è da menar vanto,fatta com’è di quanto
c’è in noi di criminale;
la bontà è senza tempo.
Preveggenze brucianti come in questo “Blues del profugo”:
Questa città avrà, mettiamo, dieci milioni di anime,
C’è chi vive in palazzi e chi in topaie,
Ma per noi non c’è posto, mia cara, no non c’è.Avevamo una patria, e ci pareva bella,
Se guardi sull’atlante è sempre quella:
Adesso non ci andremo, cara, no, non andremo là.
Scalpellature epigrammatiche:
Ora che i porci son rifatti uomini
Ed è propizio il cielo e quieto il mare,
Tutti a casa possiamo ritornare.
Slanci fulminanti:
Vai, macchinista, accelera e vai
Dove splende il sole sulla Springfield Line.Vola come un aereo e non frenare;
Non prima di New York, Stazione Centrale.
Campiture mozzafiato:
Oh la valle d’estate dove col mio John
Presso il fiume profondo camminavamo tanto
Mentre i fiori dal basso e gli uccelli lassù
Parlavan con debolezza di amore ricambiato.
Mi chinai sulla sua spalla: “Oh Johnny, giochiamo”;
Ma scuro in volto come il tuono se n’è andato.
L’Orazio anglosassone, si è detto. Del poeta latino Auden possiede la caratteristica, insieme banale e lussureggiante, di essere uomo e umanità, singolarità e sintesi, uno e folla. Wystan (Wystan era il nome di un principe medievale venerato come santo dalla Chiesa anglicana) Hugh Auden è ora una delle (tante) carrozze di un lungo, forse interminabile convoglio, ora la locomotrice di testa; ora l’apprendista, ora il mago. Tutto ciò risalta ancora meglio nella tensione di una partitura quasi sussurrata:
Splendi: che nessuno stanotte
Di soprassalto desto
Solo nel letto al buio pesto
Si senta augurare con furore
La morte al suo amore.
Amore e morte. Cosa c’è di più universale e, al tempo stesso, unico?
Anche qui la cognizione della morte
Le dà un amore struggente.
Fa breccia il fervore dell’amante:
Che hai in mente piccioncino, coniglietto;
Come le piume crescono i pensieri, impasse della vita;
Di far l’amore o di contare soldi,
O d’arraffare gioie, piani degni d’un ladro?
Così come il suo speculare, lo strazio:
Ah, ma di che tarlo di colpevolezza,
Di che dubbio maligno
Sono vittima?
Perché tu poi, sfrontato
Facesti ciò che mai avrei voluto
Confessando un altro amore;
E io sentendomi indesiderato
A testa bassa me ne andai?
Fino a coagularsi nella poesia forse più celebre (per via del film Quattro matrimoni e un funerale), “Funeral Blues”, che riportiamo per intero:
Fermate gli orologi, staccate il telefono,
Zittite il cane con un osso succulento,
Tacciano i pianoforti e tra tamburi afoni
Esca la bara, vengano i dolenti.Gemano sorvolando gli aeroplani,
Scribàcchino il messaggio Lui È Morto,
Mettete crespo al collo dei piccioni
Guanti neri di cotone i vigili ora portino.Lui era il mio Nord, Sud, Ovest, Est,
I giorni di lavoro e i dì di festa,
Meriggio e mezzanotte, voce e canto;
Credevo amore eterno ma s’è infranto.Le stelle ormai inservibili, spegnete una a una,
Smantellate il sole e imballate la luna,
Spazzate il bosco e svuotate il mare;
Nulla di buono ormai c’è da sperare.
Poesia in cui, non a caso, tornano insieme amore e morte. Ora, la morte ha vari modi di camuffarsi per presentarsi a noi senza farci impazzire. Uno di questi è sub specie temporis, sotto forma di tempo (“Il Tempo che non puoi debellare”). Le poesie di Auden sono piene di tempo. Percepito, misurato, pensato, subìto, meteorologico, astrale, epocale. Come si è visto, “Funeral blues” comincia con gli orologi. “In memoria di W.B. Yeats” attacca con una gelata invernale:
È scomparso nel cuore dell’inverno:
Gelati i ruscelli, gli aeroporti quasi deserti,
La neve sfigurava i monumenti;
Sprofondava il mercurio in bocca al giorno moribondo.
Ecco, secondo tutti gli strumenti
Il giorno in cui morì era un giorno buio e freddo.
Altri travestimenti della morte sono più ameni (ma sempre toccati da un soffio rabbrividente):
Ormai cresciuti, ricordiamo sere come questa
A zonzo insieme nel frutteto senza vento
Dove il torrente corre sulla ghiaia, lontano dal ghiacciaio.
[…]
A qualcuno i rumori dell’alba
Daranno libertà; non questa pace che nessun uccello
Può contraddire: breve ma sufficiente per qualcosa
Di compiuto è già quest’ora, di amato o di subìto.
Contro la morte ci sono soluzioni praticabili? Per evitarla no di certo, come sappiamo tutti noi. Ma si può renderla tollerabile, quasi amichevole, se non amica. Come? Con il buon senso, il senso comune. Anche qua la scintilla scaturisce dal saggio di Brodskij, da un teatralissimo scambio di battute: “Il migliore scrittore russo è Cechov”. “Perché?”. “È l’unico […] che abbia un briciolo di senso comune”. È il senso comune – inesauribile risorsa – che fa pronunciare ad Auden parole come queste:
Facile è fare la domanda difficile;
Domandare all’incontro
Con una semplice occhiata d’intesa
Questi dove vanno
E come stanno questi:
Facile è fare la domanda difficile,
Semplice atto di volontà confusa.
Oppure riflessioni come questa, al limite dell’idiot savant:
Se noi, caro, sappiamo di non saperne più
Di loro sulla legge,
Se io non più di te
So quello che si deve e non si deve
Salvo che ognuno conviene
Con gioia o dispiacere
Che la legge è
E che tutti lo sanno.
O confezionare autoritratti, come qua dove Yeats visita la tomba di Yeats ed è come se stesse parlando davanti a uno specchio (basta sostituire l’Irlanda dell’originale con Inghilterra):
“Eri sciocco come noi: il tuo talento sopravvisse a tutto;
Alla congrega delle donne ricche; al fisico degrado;
A te stesso; la folle Irlanda t’inferse la poesia.
Ora l’Irlanda ha sempre il suo clima e la follia
Perché la poesia non fa accadere niente; sopravvive
Nella valle del suo dire ove il burocrate
Mai metterebbe becco; sbocca a sud
Dalle tenute dell’isolamento e dagli assidui crucci,
Scabre città in cui si crede e muore; sopravvive,
Un modo di accadere, una bocca.
Chiudiamo con le parole finali del saggio di Brodskij perché tutto è già stato detto lì, inno bifronte al sublime e al senso comune: “lo vidi l’ultima volta a Londra nel luglio 1973, a una cena da Stephen Spender. Wystan, seduto a tavola con una sigaretta nella destra e un bicchiere nella sinistra, dissertava sul tema del salmone freddo. Poiché la sedia era troppo bassa, la padrona di casa provvide a infilargli sotto la persona due squinternati volumi dell’Oxford English Dictionary. Pensai allora che davanti ai miei occhi stava l’unico uomo che avesse il diritto di usare quei volumi come sedile.”