S comparire non è il termine giusto: quello che sceglie A. è rinunciare progressivamente alla sua identità fisica, dimenticarsi come ci si dimentica dei propri occhi, che il cuore batte incessantemente. Sdraiata sul suo letto, A. – il nome ridotto a nient’altro che una lettera – guarda fuori finestra le strade anonime del suo quartiere, le case disabitate, le cose lasciate indietro dai traslocatori, e pensa che il suo cuore gli somiglia, perché “potrebbe essere tolto dal mio corpo e messo nel tuo, e quella parte di me che avevo incubato fino ad allora continuerebbe a vivere, pompando sangue estraneo in canali estranei. Posto nel contenitore giusto potrebbe non avvertire mai la differenza”.
Quella che sperimenta Alexandra Kleeman, nel suo romanzo di esordio, è una crudeltà precisa, quella per cui il corpo è feroce non perché è fallibile, ma al contrario, perché i singoli organi potrebbero sopravviverci, perché niente di quello che circoscrive la pelle è qui e ora, è durevole. Ogni volta che il suo fidanzato C. la abbraccia, ogni volta che la tira a sé sovrapensiero per baciarla, A. pensa che, malgrado tutto, accoppiarsi “è un caso o, nella migliore delle ipotesi, un colpo di fortuna”, perché il suo corpo è fatto per accogliere qualsiasi uomo, “al di là della dimensione o della forma”, come pezzi di un puzzle che riesce sempre. Un giorno lui la ferma e le dice che le vuole bene, ma che lei è una parabola discendente.
Nella camera accanto all sua, vive B., una ragazza fragile che un giorno le regala una ciocca di capelli e che la aspetta sveglia quando esce, senza che questo sia un gesto di premura: se di lei non si sa nient’altro è perché tutto il mondo in Il corpo che vuoi è inconoscibile, avvolto in un’atmosfera insondabile, un mondo in cui i padri scompaiono misteriosamente dalle loro case borghesi per riapparire a chilometri di distanza, pronti a ricominciare la stessa vita in un’altra città, come fossero pezzi di ricambio universali per le relazioni, come fossero cuori trapiantati in altri corpi.
C., il fidanzato che la guarda come si guarda un programma televisivo, pensa che lei e B. siano indistinguibili, viste da dietro, come lo sono tra di loro le scatole di Kandy Kake sugli scaffali, le corsie, i cassieri che indossano la divisa del supermercato; a lui piace fare l’amore guardando i porno e A. sa che gli servono come serve una musica di sottofondo, come la radio mentre si prepara la cena, a difenderci dalla fragilità del presente.
[C.] cercava come di inspessire il momento presente, stendendo sopra uno strato di immaginazione uno strato di realtà e poi ancora di immaginazione. Due persone avvinghiate diventavano una landa sconfinata. Rimpolpava l’atto, di modo che nel compierlo noi due insieme non fossimo così soli.
Il corpo che vuoi è la storia di come si resiste alla diluizione inarrestabile delle cose, è lo sforzo di una ragazza di ritrovare se stessa, la sicurezza di quando “ero sicura di me, quando ogni centimetro di questo appartamento mi risultava familiare, e non distante come la fotografia di un disegno di un posto che un tempo ho amato”. Allo stesso tempo questo strano romanzo racconta il desiderio di smettere di essere qualcosa per essere niente, dell’alienazione e delle sette al tempo delle multinazionali: se tutto quello che acquistiamo è prodotto in serie, allora perché non cedere alla sublime tentazione dell’anonimato, alla rassicurazione di un ordine superiore in cui non abbiamo voce? È grottesco il mondo di Kleeman, e commovente, come la storia che racconta di quel russo a cui era cresciuto un abete nei polmoni, come sarebbe Vizio di Forma riscritto da Jenny Offill.
In uno dei saggi di The Empathy Exam, Leslie Jamison racconta di una sindrome, la Morgellons, per cui il proprio corpo diventa una terra invasa dagli alieni, una landa che non si riconosce più, e per questo chi ne soffre arriva a scarnificarsi le braccia e le gambe, per poter eliminare l’ospite indesiderato, per lasciar fuori solo se stesso: c’è la stessa furia disperata nella scrittura di A., il desiderio di penetrare dentro di sé, come dita premute dentro un’arancia per scoprire se “c’è qualcosa che mi lega alla mia vita in virtù di una necessità, piuttosto che per puro caso”.
Le cose che ci diciamo ci passano accanto senza entrare in contatto, non atterrano, non convergono. È come nei film porno di C, in cui degli attori svogliati fanno il proprio dovere mentre dietro quelle facce in realtà stanno pensando a tutt’altro. Li guardi scopare e deduci solo che stanno scopando. Un individuo preme la testa dell’altro contro il cuscino e inizia a pompare: è quello che è. Sono corpi universalmente compatibili e lo sono anche le loro menti. Non c’è nulla che questi corpi nudi possano fare per sorprendersi davvero l’un l’altro.A volte fantastico che esista una pornografia inversa, in cui conta solo quello che succede sotto la superficie di una bella scopata. Gli attori sarebbero tutti uguali, bidimensionali, felici, ma come spettatore io saprei che uno di loro teme che, a furia di strofinare, un lieve arrossamento si trasformi in eritema, l’altro è preoccupato per lo squilibrio nella loro relazione, non sa a cosa pensare o su cosa concentrarsi; in quel momento vorrebbe scoparsi qualcuno più energico e trascinante, anche solo per finta. Questi pensieri verrebbero comunicati da voci fuori campo registrate dagli stessi attori subito dopo l’atto e montate in postproduzione. In questo modo sapremmo tutto ciò che il corpo, impegnato nella sua frenetica attività, ci nasconde.