D amien Chazelle ha 31 anni e ha appena vinto l’Oscar come miglior regista. È il più giovane di sempre. È molto bravo, tecnicamente ineccepibile, un talento che ha stupito il mondo in pochi anni. La sua carriera comincia con Guy and Madeline on a Park Bench, ma il successo vero arriva con Whiplash, e La La Land è il film della consacrazione. Agli Oscar non ha vinto tutto quello che poteva vincere, ma è indubbiamente il film più discusso del momento, e un film che resterà. Ha una storia coinvolgente, ci sono trovate raffinate a livello di scrittura, gli attori sono bravi.
Però se la critica ha ancora un ruolo questo dovrebbe essere anche quello di sposare o rigettare la visione del mondo di un film e di un regista. Storicamente è ciò che la critica ha sempre fatto, in tutte le arti: creato canoni, per inclusioni e esclusioni, in base a motivazioni precise – siano queste estetiche, ideologiche, di senso o di approccio a un’arte. Chazelle è bravo, ha talento, ma il suo cinema porta avanti una visione del mondo reazionaria e ammiccante, bianchissima e conservatrice.
Chazelle ha deciso che la sua cifra è il jazz, che è attraverso il jazz che ci presenta le sue idee e la sua visione del mondo. Il problema è che quella cosa che lui ama e esalta (non voglio assolutamente mettere in discussione la sua buona fede) non è jazz, ma il suo contrario. In Whiplash la musica è qualcosa di muscolare, violento, autoritario, una prova di forza. Il Full Metal Jacket dei batteristi, solo che il sergente Hartman per lui è un personaggio positivo; un violento manipolatore è tutto sommato un buon maestro, qualcuno che si ricorderà con affetto e a cui si deve molto. In La La Land, oltre alle canzoncine e ai balletti c’è l’ossessione per la purezza e il virtuosismo (quello che in un paio di scene viene impropriamente chiamato free jazz), c’è il “fanculo la gente” pronunciato nel film più ammiccante del mondo.
La più grande preoccupazione dei bianchi americani, quella che abbiamo visto esprimersi alle urne pochi mesi fa, è quella di non contare più come prima, di non essere più i signori e padroni del mondo, e il terrore per il fatto che qualcuno osi alzare la testa. I film di Chazelle sono un tentativo, non necessariamente conscio, di riprendersi tutto, di porre fine a ogni cambiamento e tornare a un’epoca d’oro fatta di begli attori bianchi, di swing ripulito, di balletti, di middle class felice – e di farlo anche con la forza, con la violenza, i calli sulle mani, il sacrificio. A costo della felicità (“preferisci l’amore o la carriera?” sembra essere il tema del film).
Chazelle toglie al jazz ogni elemento di gioco, di fantasia, istintività e sperimentazione: proprio quegli elementi che lo rendono qualcosa di più alto.
Louis CK diceva “if you’re not white you’re missing out”, se non sei bianco non sai che ti perdi, che fa molto ridere e ha molto senso in questo contesto. Qui però è il più bianco dei registi viventi a starsi perdendo qualcosa. Si sta perdendo per esempio il fatto che il jazz è sempre stato libertà, fuoco e droga. Tutte cose completamente assenti nella pulizia dei suoi personaggi e nel conservatorismo assoluto della sua visione della musica e del mondo. Con alcuni amici sognavamo un La La Land diverso, che avesse come colonna sonora anziché lo swing buono per Frank Capra il free jazz più estremo (o perché no direttamente i Naked City, compresi di inserti grindcore), ma – scherzi a parte – è preoccupante che un regista di vero talento giri ben due film che propagandano una visione tanto revisionista della musica più nera e rivoluzionaria di sempre e dei suoi valori.
(Quello del pubblico per La La Land è un innamoramento che ricorda quello per un film molto sopravvalutato degli ultimi anni, The Artist, altro film perfetto e truffaldino, che dietro allo stratagemma del film muto in bianco e nero si è rivelato col tempo un prodotto banale e innocuo, arrivato alla perfezione negli anni in cui il vintage pareva garanzia di contenuto.) Un’altra cosa. Nei due film sul jazz di Chazelle c’è un’altra idea: che il successo sia tutto. Che tutto – la dignità, la felicità, qualsiasi cosa – siano sacrificabili in nome del successo. Non dell’arte, non dell’espressione artistica, non della soddisfazione personale, ma in nome del successo.
Se è vero però che questo “autismo per il successo” dei suoi personaggi, presente e grave, potremmo anche interpretarlo come semplice stratagemma drammatico, la questione più difficile da accogliere è il dualismo schematico tutto americano di dover contrapporre arte o denaro (o successo e amore, o altri infiniti dualismi) come realtà ben definite e precisamente separate – mentre in realtà sono facce della stessa medaglia di un sistema fallimentare. Chazelle è un finto cinico che mentre ci mostra che il sogno americano ha dei lati negativi non lo sconfessa mai davvero, e ce lo mostra attraverso il linguaggio più escapista possibile (che sia quello superomista di Whiplash o quello sognante di La La Land), ma nello stesso momento togliendo all’arte di cui ci sta parlando ogni elemento di gioco, di fantasia, istintività e sperimentazione. Cioè proprio quegli elementi che la rendono qualcosa di più alto.
Se nutriamo la speranza che gli spiriti di Coltrane e Miles Davis (e di Albert Ayler, che in quanto a fantasmi se ne intendeva) vadano a tirare Chazelle per i piedi la notte, senza andare troppo lontano ci accontenteremmo di costringere il regista a una cura Ludovico a base dell’ultimo disco di Thundercat, Drunk, che perlomeno della tradizione black è un ottimo e autentico continuatore.