R emember, remember, the fifth of November… Prima del 22 marzo 2017, l’immagine di un attentato al parlamento inglese era irrimediabilmente associato alla figura del cospiratore papista Guy Fawkes e alla “congiura delle polveri” del 1605. Più recentemente, una moderna incarnazione di Fawkes si era vista in V per Vendetta — fumetto e film — che aveva come scena madre proprio l’esplosione del parlamento, inteso come simbolo di oppressione. Guy Fawkes ha qualcosa in comune con l’attentatore di Westminster: sono entrambi dei fondamentalisti religiosi, e sono entrambi morti per la loro causa. Il primo è Stato chiamato martire dai suoi, e lo stesso glorioso destino post-mortem probabilmente toccherà al secondo. Ma in cosa consiste la strategia del martirio? E perché è così efficace?
Scrivendo il suo Leviatano nel 1651, il filosofo Thomas Hobbes stava fondando la moderna teoria dello Stato. Ma lo faceva con in testa il ricordo vividissimo dell’impresa di Guy Fawkes. Anzi potremmo dire che, per fondare la sua idea di Stato, Hobbes doveva fondarla contro Fawkes. Contro il fondamentalismo religioso e contro la sua pericolosissima tendenza a produrre martiri. Il martire è l’anomalia che manda in crisi tutte le regole della vita civile, corrode dall’interno le nostre istituzioni politiche. Secondo Hobbes, siamo tutti uguali, perché siamo tutti sottomessi. Siamo uguali di fronte allo Stato, che lui appunto chiama Leviatano, uguali di fronte al Sovrano, ma prima ancora di fronte alla nostra stessa paura di morire.
Ma che cosa accade quando all’interno della macchina geometrica hobbesiana, subentra l’eccezione? Un caso esemplare di questa eccezione è dato dal martire: un individuo disposto a morire che si sottrae a quella regola generale senza la quale non sarebbe possibile fondare alcuna società ed alcun monopolio della violenza. Sottraendosi al presupposto implicito del “Tutti hanno paura di morire”, il martire è in grado di destabilizzare dal suo interno la società ed ogni potere che si ponga come scopo ultimo quello di proteggere i suoi cittadini. Indifferente alla morte, perché già “morto”, il martire rende ogni esercizio legittimo di violenza inefficace e debole, mettendone in discussione il suo monopolio necessario.
Pulsione di morte e monopolio della violenza
In questi giorni la potenza destabilizzante del martire contemporaneo è resa evidente dal modo in cui la sicurezza nazionale e la politica internazionale stanno reagendo ad un “attentato” come quello di Londra, che verrebbe voglia di ascrivere ad un semplice delirio individuale. Ma su quali basi si fonda la reazione evidentemente sproporzionata, che hanno avuto anche i media nella loro diffusione irrazionale della paura, ad un evento marginale come quello di oggi?
Forse la verità è che le nostre società moderne sono internamente organizzate ai fini della preservazione e conservazione della vita e che dunque non riescono a fare i conti con un fenomeno umano inestirpabile: la necessità di esercitare, indirizzare e organizzare la violenza. Come ci ricorda anche Freud, l’uomo è mosso da due pulsioni contrastanti ed opposte; accanto alla pulsione di vita vi è nell’uomo la pulsione di morte, accanto ad Eros vi è sempre Thanatos. Il misconoscimento di tale pulsione e la troppa considerazione della pulsione di vita nelle nostre società moderne “desideranti” — dove il capitalismo stesso esige che si voglia vivere per continuare a desiderare — ci porta a riassumere lo scopo di ogni nostro sforzo evolutivo nell’efficace sintesi nietzscheana del “meno dolore possibile, vita più lunga possibile”.
Scrivendo il Leviatano nel 1651, Hobbes stava fondando la moderna teoria dello Stato. Ma doveva fondarla contro il fondamentalismo religioso e la sua tendenza a produrre martiri.
Proprio a partire da questo stesso presupposto epicureo Hobbes fonda tutta la sua teoria dello Stato. Riusciamo a vivere assieme fintanto che rinunciamo a mettere in gioco la nostra vita. Eppure nel Leviatano è Hobbes stesso a sollevare il problema del martirio. Vivendo in un’epoca segnata dalle guerre di religione, che aveva visto ripresentarsi il fenomeno in maniera violenta, Hobbes propone infatti un’interpretazione del martirio al fine di neutralizzarne la legittimità, limitarne l’impiego e circoscriverne la validità a un periodo storico del tutto superato, ovvero le origini del cristianesimo. Hobbes riduce la fede a fatto privato e sostiene che l’uomo sia moralmente autorizzato a rinnegare la propria fede di fronte alla minaccia di morte. “Non è la morte, ma la testimonianza che fa il martire”, scrive Hobbes, e l’unica testimonianza per la quale si è autorizzati a morire coincide con l’unica verità rivelata (ovvero all’epoca l’unica verità universale su cui concordavano papisti e protestanti) ovvero il “Jesus is the Christ!”. L’unico martirio legittimo, quindi, era quello avvenuto nel contesto pagano dell’Impero romano in cui i cristiani dovevano ancora rendere testimonianza della loro fede. Non essendoci più pagani in Inghilterra al diciassettesimo secolo, il martirio era diventato non soltanto inutile ma anche sbagliato. I papisti come Guy Fawkes, che si ostinavano a combattere contro la Corona rischiando la loro vita, non erano altro che dei nemici pubblici e dei cattivi cristiani.
L’interpretazione di Hobbes argina il fenomeno nella sua legittimità teorica per renderlo compatibile con il suo principio di sottomissione al Sovrano. Il martirio è infatti un potente strumento di ricatto nei confronti del potere: il martire che si consegna spontaneamente alle autorità, senza paura della morte e realizzando un suicidio/omicidio, nullifica il potere coercitivo del Sovrano, mettendone in discussione l’efficacia.
Come distruggere un impero dall’interno
Il concetto di “martirio” è un concetto cristiano che sorge in un contesto ben determinato, ovvero quello dell’Impero romano del II e III sec. d.C., in cui alcuni uomini e donne, rifiutando l’ingiunzione romana di sacrificare all’Imperatore, incorrono nella propria condanna a morte. Il martire cristiano è colui che lega per la prima volta il termine greco μάρτυς, che significa semplicemente “testimone”, ad un atto di disobbedienza: una disobbedienza fino alla morte. Nel II sec. d. C., in una lettera indirizzata al governatore romano dell’Africa del Nord, il quale stava conducendo una campagna contro i cristiani, Tertulliano scrive: “La vostra crudeltà è la nostra gloria. Fa’ solo attenzione che, per il solo fatto che noi sopportiamo queste sofferenze, non sembri che vogliamo uscire allo scoperto solamente per dimostrare che non abbiamo paura, ma per sfidarti per primi.” (Ad scapulam).
Nella lettera di Tertulliano le minacce di violenza e crudeltà da parte del potere romano, si ribaltano e assumono il valore di un ricatto dal basso: “Quanto fuoco, quante spade ti sarebbero necessarie!” Non c’è infatti potere coercitivo che possa arginare la potenza di un gruppo di persone che non ha paura di morire. E non c’è ordine sociale che non si fondi sul presupposto dell’efficacia della coercizione. Ecco perché il martirio, in quanto esaltazione della morte, si presenta a noi come un potente dispositivo anarchico di destabilizzazione del potere. Il martire rende infatti debole la forza e forte ogni debolezza.
Il martirio, in quanto esaltazione della morte, si presenta come un potente dispositivo anarchico di destabilizzazione del potere.
Nietzsche è ossessionato da quest’idea nell’Anticristo: in un mondo abitato da lupi, come lo era l’Impero romano, vincono le pecore (Mt 10,16-23). Nel tempo di una notte, il cristianesimo distrusse l’impero dal suo interno. La potenza del martirio risiede infatti, da un lato nella sua contagiosità mimetica (alle origini del cristianesimo, come anche oggi, il fenomeno si moltiplica insieme alla sua popolarità), dall’altro nella compassione e ammirazione che suscita in chi vi assiste. E in Nietzsche, la compassione per i più deboli è prerogativa del risentimento nei confronti dei più forti: il presupposto di ogni morale. Il cristianesimo infatti “vendicherebbe” i propri martiri nel nome della loro innocenza, introducendo così nel mondo la morale del vinto. Mutatis mutandis, la stessa consapevolezza della funzione distruttrice del terrorismo viene apertamente formulata negli scritti di Osama Bin Laden. Come ha scritto Raffaele Alberto Ventura a proposito della strategia jihadista:
“La conseguenza positiva degli attacchi del 2001, scriveva Bin Laden, è di avere rinforzato la fraternità tra i musulmani, di avere svegliato il mondo. Così, proprio come la mitica Idra, per ogni testa mozzata se ne guadagnano di nuove. Perché allora si dovrebbe temere la spada dell’avversario? La strategia terrorista non è altro che un sacrificio umano su vasta scala, un olocausto propiziatorio. Il martire non testimonia soltanto della fede nella propria causa, ma soprattutto testimonia della violenza che subisce. Catalizzandola su di sé, nella forma della rappresaglia, la rende riconoscibile. Il martirio è la traccia scavata dell’avversario, la testimonianza della sua atrocità impressa nella carne e nel sangue di chi l’ha scatenata. Nello stesso tempo, è l’avversario a specchiarsi nella vittima, e così nutrire il proprio senso di colpa, minare il proprio morale e demobilitare il proprio esercito”.
I martiri laici del jihadismo
Non è la morte in sé a fare il martire, bensì la sua testimonianza. Potremmo anche dire che è il contenuto di ciò che il martire afferma con la sua morte, e non la sua presunta innocenza, che lo rende martire. Insomma non basta essere una vittima innocente per essere un martire, ci vuole ancora qualcosa.
Al contrario la macchina mediatica costruisce i suoi martiri laici da opporre ai martiri religiosi. Vi è una differenza rilevante nel considerare le giovani vittime dell’attentato al Bataclan come delle vittime di una “calamità naturale” (se si considera p.es. l’attentato terroristico come una sorta di terremoto antropologico, al pari del massacro scolastico alla Columbine Highschool) o come dei martiri della libertà di pensiero e di cultura. Come vi è una differenza altrettanto rilevante nel considerare sullo stesso piano gli attentati dell’11 settembre e i danni provocati da un ragazzo, armato di un coltellino su un treno in Germania, che pretende di ribellarsi ad un mondo apocalitticamente identificato come un mondo “cattivo”.
La testimonianza nel martirio è testimonianza di qualcosa che lo trascende e gli sopravvive, qualcosa che lo lega alla narrazione e alla memoria del suo atto eroico.
Facendo questo tipo di distinzioni ci accorgiamo che diventa quasi ridicolo infatti sostenere che i giovani del Bataclan siano morti per un presunto “diritto di far festa”, quanto le vittime di Orlando per i diritti gay. Eppure il premier francese Hollande nelle dichiarazioni fatte dopo la strage di Parigi adotta da subito una retorica di guerra per difendere la vittima innocente: trasforma la vittima in “martire” nazionale. Hollande dichiara: “Il paese è forte e lo sarà sempre di più.” In quel “sempre di più” si rivela, in modo rovesciato, un dispositivo politico, antropologico e teologico-politico, antico quanto il cristianesimo stesso. Pensare il più potente strumento di aggregazione sociale, ovvero l’odio del nemico, il rifiuto dell’altro e la violenza sacrale, dopo il cristianesimo, significa rovesciare il dispositivo di forza e fare della debolezza del martire una forza, della vittima una nuova Babilonia.
La potenza dell’idea del martirio risiede nel plusvalore che in essa viene legato alla morte da chi gli sopravvive. Quello del martire non è un semplice morire, ma un morire-per. La testimonianza nel martirio è testimonianza di qualcosa che lo trascende e gli sopravvive, qualcosa che lo lega alla narrazione e alla memoria del suo atto eroico. Se pensiamo al fascino che subiamo nel vedere qualcuno disposto a morire per una causa, ci accorgiamo di quanto sia potente in realtà questa peculiare forma di debolezza. Essa si articola nella forma di un ricatto morale. Per fare un esempio pacifico di attuazione efficace di tale dispositivo politico, rimandiamo per esempio al nome del noto movimento antimafia calabrese “Ammazzateci tutti”, nato nel 2005 come reazione spontanea a numerosi omicidi di ‘ndrangheta.
L’uberizzazione del martirio
Nella corsa allo status dei membri di una classe che, seguendo il neologismo introdotto da Raffaele Alberto Ventura, chiameremo la “classe disagiata”, possiamo annoverare due figure ormai note al nostro giornalismo di cronaca: il giovane terrorista e il giovane suicida, di cui parla anche Alain Badiou nel suo recente libro La vraie vie (2016). Il martire contemporaneo, incarnato in queste due persone, distrugge la possibilità di essere reinserito nell’ordine economico mondano, perché il suo “regno non è di questo mondo”. Egli soddisfa la sua “corsa allo status” a un livello trascendente, inserendola nel quadro di un’altra economia di salvezza. L’indifferenza del martire nei confronti del valore del mondo, lo porta ad un nichilismo ripiegato su di sé. In termini nietzschiani potremmo dire che la volontà di potenza nel martire si spinge fino alla distruzione e alla dissoluzione della propria soggettività.
L’offerta simbolica fornita al terrorista, come al martire cristiano in oriente, trae la sua sostanza da delle categorie teologico-politiche già acquisite dalla nostra storia occidentale. L’apocalittica giudaica, ereditata e rielaborata nel cristianesimo e nell’Islam, offre ai potenziali “martiri”, che essi siano vittime della violenza del mondo o carnefici pronti a distruggerlo, la realizzazione di uno “status a venire”, ovvero un’escatologia secolarizzata. Sia il terrorista islamico che si inserisce in un progetto politico legato all’idea del trionfo dello Stato Islamico, che il suicida, pensiamo al caso di “Michele” che scrive una lettera diffusa poi nel web sulla sua condizione privata facendola risalire a un responsabile politico, investono infatti nell’avvenire, dando alla loro morte un valore simbolico che la trascenda e gli sopravviva; il valore di un ricatto politico e morale.
Il martire si sottrae alla logica desiderante della modernità capitalista, assecondando la propria pulsione di morte.
Il martire è colui che si sottrae alla logica desiderante della modernità capitalista, colui che asseconda la propria pulsione di morte. Il martire distrugge il valore del mondo, perché riesce a investire altrove: egli si inserisce in un’altra economia, un’economia escatologico-apocalittica parallela al mondo, nella quale ognuno avrà la sua ricompensa.
In un suo recente articolo sull’uberizzazione della guerra, facendo un discorso sull’accesso ai mezzi bellici e mediatici che Internet offre al terrorismo contemporaneo, Ventura parla di diminuzione delle barriere all’ingresso: i lupi solitari alla ricerca della soddisfazione simbolica della loro pulsione di morte traggono il loro linguaggio simbolico dal fondamentalismo del web che fornisce loro mezzi e buone ragioni per realizzare la loro morte, dando loro anche la soddisfazione narcisistica di essere ricordati da chi sopravvive o di avere grande visibilità. Ma Internet non è che un mezzo per mediare qualcosa che ha già pochissime barriere all’ingresso, ovvero quella nostra cultura giudaico-cristiana e islamica dalla quale le nostre società hanno ereditato quelle categorie apocalittiche sempre pronte a riemergere ed esplodere.