I n principio fu un problema di tavoli. Al centro quello dell’inviato dell’Onu per la Siria, Staffan de Mistura e i suoi collaboratori. Alla sua destra la delegazione di Assad, compatta dietro il segaligno Bashar Jaafari. Dall’altro lato le opposizioni, frammentate ma presenti. La conferenza inaugurale dei nuovi negoziati di pace – Ginevra IV – è iniziata con ore di ritardo perché il principale gruppo di opposizione, l’High Negotiation Committee, voleva una separazione fisica dagli altri due, i cosiddetti gruppi del Cairo e di Mosca. Dopo lunghe contrattazioni un malmostoso Hariri, cardiologo quarantenne capodelegazione dell’HNC, ha accettato di sedersi allo stesso tavolo degli altri. Ma siccome al termine della prolusione de Mistura ha stretto la mano prima a loro, Jaafari ha lasciato la stanza indignato. Con queste premesse i negoziati sembravano destinati a concludersi con l’ennesimo nulla di fatto. Dopo sei anni di guerra, mezzo milione di morti e con le potenze regionali che continuano a volteggiare intorno a una Siria cadaverica, le aspettative erano comprensibilmente ridotte al minimo. Invece qualche timido passo avanti è stato fatto.
Fra transizione e terrorismo
Dopo i tavoli è toccato all’agenda. A Ginevra non si è parlato di altro, se non di ciò su cui tutti concordano sia lecito negoziare, e di ciò che invece resta e deve restare tabù. Il 3 marzo si è arrivati a un accordo di massima. I progressi, lo si vede, sono pochi. Ma fondamentali. Senza un’agenda condivisa non si discute, e se non si discute a parlare saranno solo le armi. Così entrambe le parti hanno smussato le spigolosità delle proprie richieste, entrambe hanno portato qualcosa a casa. Gli entusiasmi sono fuori luogo, ma va ricordato che proprio i diktat e i veti incrociati avevano ingabbiato i precedenti round negoziali, condannandoli al fallimento.
I tre punti su cui regime e opposizioni si sono impegnati a negoziare sono formazione di un governo di transizione credibile e inclusivo, stesura della nuova costituzione e libere elezioni.
Formazione di un governo di transizione credibile e inclusivo, stesura della nuova costituzione e libere elezioni. Sono questi i tre punti su cui regime e opposizioni si sono impegnati a negoziare. Assad è riuscito ad aggiungerne un quarto, la questione che va sotto l’etichetta di ‘anti-terrorismo’. Da un lato concede – implicitamente – dignità di parola ai ribelli, che il regime ha sempre considerato, senza distinzioni, terroristi. Dall’altro si prepara una possibile via d’uscita, perché discutere di anti-terrorismo significa poter aumentare la pressione sulle milizie ribelli armate e, se non arrivano i risultati sperati, abbandonare il tavolo. Le opposizioni, dal canto loro, piantano la bandiera della transizione politica: diventa lecito parlare di un dopo Assad, anche se l’attuale inquilino di Damasco non se ne andrà via immediatamente come chiedevano in origine.
Doppio binario
Se Ginevra IV non si è arenata tra recriminazioni e accuse reciproche (che pure non sono mancate), uno dei motivi è il doppio binario negoziale messo in campo da gennaio. Dopo che il regime ha riconquistato Aleppo alla fine del 2016, la Russia ha dato nuovo slancio alla diplomazia. Lo ha fatto tenendo a bada l’Iran, alleato di Assad al pari del Cremlino ma più incline a proseguire i combattimenti, ma anche ristabilendo i rapporti con la Turchia, sponsor di molte milizie ribelli. Non certo per amor della Siria, quanto per un più prosaico calcolo di convenienza: il suo impegno sul campo drena molte risorse e deve essere breve, la nuova amministrazione statunitense sembra più incline a lasciare l’iniziativa in mano russa, dopo la sconfitta di Aleppo le opposizioni e i loro sponsor regionali, indeboliti, sono propensi a negoziare.
Ne è scaturito un canale parallelo che passa per Astana, in Kazakhstan. Lì, sotto la supervisione di Russia e Turchia, si discutono le questioni di natura militare e si puntella il fragile cessate il fuoco che, almeno formalmente, è in vigore dalla fine di dicembre. Una tregua mai davvero rispettata, anzi violata centinaia di volte da ambo le parti. Ma fintanto che c’è la volontà politica di Mosca e Ankara, l’impianto regge. Ciò ha permesso di concentrare l’incontro di Ginevra sulle questioni squisitamente politiche. Questo formato dovrebbe continuare: ieri è cominciato il secondo incontro ad Astana, disertato però da gran parte dell’opposizione e quindi con poche speranze di successo, per poi tornare di nuovo in Svizzera la settimana prossima.
Un’idea di Siria
La distinzione di agende tra i due canali è meno rigida di come viene presentata. Già durante il primo incontro in Kazakhstan, la Russia ha fatto circolare in via informale una bozza della nuova costituzione siriana. Tutti, a parole, si sono affrettati a prenderne le distanze e criticarne i contenuti. Un’operazione imperialista secondo alcuni, al pari della carta fondamentale imposta all’Iraq dallo statunitense Paul Bremer nel 2004. Troppo timida secondo altri, perché non affronta i problemi del Paese alla radice. Ad ogni modo, questa bozza resta l’unico documento presentato e con tutta probabilità sarà il punto di partenza per i prossimi incontri a Ginevra. Ma il suo valore è anche un altro: leggendola in controluce si vedono emergere tutti i nodi irrisolti che incatenano il marasma siriano.
Su tutti spicca il ruolo del presidente. Dal 1971 la Siria è in mano alla famiglia Assad e ai suoi accoliti, destinatari di regalie e privilegi funzionali al consolidamento e alla tenuta del regime, e altrettanto deleteri per la maggioranza della popolazione. Un sistema paramafioso, costellato di valvassori e valvassini che hanno elevato la corruzione a norma e inabissato leggi e diritti negli orrori delle galere. Se questo meccanismo non viene disinnescato, le opposizioni non accetteranno alcun compromesso. C’è del pragmatismo nei corridoi del Cremlino. Così la nuova costituzione limita i poteri del presidente: massimo due mandati di sette anni, resta a capo dell’esercito ma deve ricevere il via libera dal parlamento per dichiarare lo stato di emergenza e la mobilitazione generale, non controlla più le nomine dei giudici della Corte costituzionale e della Banca centrale. Certo, nulla di tutto ciò garantisce di per sé un assetto democratico, ma è pur sempre un passo verso il riequilibrio dei poteri.
Chi ha paura di Teheran?
Diversi passaggi sono ambivalenti. Vale a dire, vanno sì incontro alle preoccupazioni di Damasco, ma al tempo stesso tradiscono le preoccupazioni di Mosca, che in alcuni casi si sovrappongono a quelle dell’opposizione, generando un cortocircuito solo apparente. È evidente, ad esempio, se si guarda al ruolo ritagliato dalla nuova costituzione per l’esercito. È senz’altro uno dei nodi più complessi da sciogliere vista la proliferazione di gruppi armati e milizie straniere presenti da anni in Siria. La fase di transizione non può compiersi sotto la minaccia della ripresa del conflitto, e in maniera speculare nessuno deporrà facilmente le armi senza adeguate garanzie politiche. Se questo è vero per i ribelli, è un problema altrettanto pressante per tutte quelle organizzazioni paramilitari che puntellano il regime di Assad, e che rispondono ai comandi di un altro Paese: l’Iran.
La Russia ha fatto circolare una bozza della nuova costituzione siriana. Tutti si sono affrettati a prenderne le distanze, ma con ogni probabilità sarà il punto di partenza per i prossimi incontri.
L’esercito di Damasco si è ormai sfaldato da anni, i reparti che escono dalle caserme si contano sulle dita di una mano e sono i più fidati, mentre il numero complessivo di effettivi è drasticamente calato. Teheran è stata abile ad approfittarne, reclutando decine di migliaia di iracheni e spedendoli a combattere in Siria. Queste milizie sono ormai più consistenti dell’esercito regolare, sono comandate da membri delle Forze speciali iraniane e hanno una presenza capillare sul territorio. Sono, a tutti gli effetti, la chiave di volta dell’influenza di Teheran. Se riuscissero a giocare un ruolo politico già durante la fase di transizione, Damasco parlerà persiano (e non russo). La costituzione cerca di prevenire questa possibilità mettendo nero su bianco che le forze militari e “altri gruppi armati” non devono interferire nella sfera degli interessi politici e non svolgono alcun ruolo nel trasferimento dei poteri. Richiesta che proviene anche dalle opposizioni, che hanno chiesto a più riprese l’allontanamento delle milizie iraniane dalla Siria come precondizione per avviare davvero i negoziati.
Compromessi sul federalismo
L’ultimo nodo è quello del federalismo e dell’unità della nazione. La Russia ha proposto un assetto fortemente decentrato, che accoglie almeno in parte le richieste dei curdi. La lunga striscia di territorio che controllano nel nord-est della Siria, e che loro chiamano Rojava, è da diversi anni sotto un’amministrazione indipendente da Damasco che fa dell’autonomia il suo pilastro portante. Per i curdi è il modello che l’intero Paese dovrebbe adottare. Ma sia il regime che le opposizioni temono che possa trasformarsi nel preludio di una secessione. La posizione del Cremlino è un compromesso bilanciato tra queste esigenze. Il nome ufficiale della Siria viene modificato: la Repubblica siriana non è più “araba”. Vengono poi riconosciuti ampi diritti culturali e linguistici a tutte le minoranze etniche e religiose. Ai curdi viene garantito un livello di autonomia particolare, ma è l’intera architettura istituzionale che viene decentrata. Perno del sistema è la costituenda Assemblea delle regioni, che va ad affiancare il parlamento ed è espressione dei territori. Le autorità curde hanno già fatto sapere che non si accontenteranno, ma i loro ottimi rapporti con Mosca potrebbero portare ad appianare le divergenze senza troppi scossoni.
Non si comprende appieno quanto la Russia, dopo aver stravolto le sorti del conflitto intervenendo a fianco di Assad, sia ora disposta a indossare i panni del mediatore, se non si mette in luce quella che forse è la maggiore novità che accompagna la nuova costituzione e l’atteggiamento di Mosca nelle ultime settimane. Il decentramento amministrativo proposto dal Cremlino si appoggia infatti a quei Consigli locali che sono l’espressione più dimenticata e al contempo tradita delle manifestazioni pacifiche del 2011. Fin da allora in centinaia di città siriane sono sorti questi organi di autogoverno, che seguono procedure democratiche, indicono elezioni locali e hanno sempre tentato, anche sotto le bombe, di rappresentare un’alternativa concreta al regime di Assad diventando punto di riferimento per parte della popolazione. Con la militarizzazione della rivolta e l’affermarsi di gruppi jihadisti, i Consigli locali sono stati indeboliti ma non cancellati. E dopo averli bombardati per più di un anno, ora la Russia li ha formalmente riconosciuti come interlocutori (al contrario del regime). Di più, ipotizza di trasformarli nelle unità minime a partire dalle quali imbastire un assetto decentrato. C’è pragmatismo, ma anche una buona dose di cinismo in questa mossa: i Consigli locali non siedono al tavolo della diplomazia a Ginevra.