N
on sappiamo di preciso quando gli esseri umani abbiano iniziato a creare arte. Le più antiche pitture rupestri trovate finora risalgono a 40.000 anni fa. Sono la prima testimonianza dell’abilità inventiva e della necessità di rappresentazione che oggi consideriamo bene o male parte integrante del nostro stare al mondo. Viviamo nella presunzione che il concetto di “creatività” sia una prerogativa umana.
Per corteggiare le femmine, i maschi di uccello giardiniere costruiscono architetture estremamente elaborate: capanni, corridoi e piccole pareti. Possono passare mesi interi raccogliendo e riutilizzando foglie, sassi, ossa, e poi bacche, plastiche e pezzi di vetro. Finito il lavoro, la femmina dovrà visitare i manufatti e in base al suo gusto estetico scegliere di riprodursi con il costruttore più abile. I pergolati degli uccelli giardinieri sono incredibilmente belli e armoniosi anche per un occhio umano, con tonalità di blu, bianco, rosso, verde o di altri colori, a seconda della specie e dell’esemplare che li ha costruiti. Possiamo dire che gli uccelli giardinieri producono arte?
Volare, La straordinaria vita degli uccelli (Codice Edizioni, traduzione di Monica Belmondo) è il primo libro dell’ornitologo Noah Strycker che viene pubblicato in Italia. The thing with feathers, il titolo originale, è preso in prestito da un verso di Emily Dickinson: “La speranza è quella cosa piumata che si posa sull’anima”. È una citazione azzeccata, che rivela subito il tentativo di Strycker di contaminare la scrittura scientifica con divagazioni liriche leggere, vagamente romantiche. Ma è un titolo che funziona bene anche perché si presta a esporre in maniera sintetica la tesi del saggio. Forzando un po’ le cose, e smontando prosaicamente la metafora, potremmo metterla giù così: la speranza ha quasi letteralmente le ali, nel senso che potrebbe essere uno dei tanti sentimenti umani che pensiamo esclusivi della nostra specie e che invece condividiamo con altri animali, compresi gli uccelli.
Strycker ha lavorato a decine di progetti di ricerca di ornitologia in giro per il mondo, ha osservato migliaia di specie di uccelli negli angoli più remoti del pianeta e si è reso conto che le differenze tra noi e loro sono più sfumate e sottili di quello che saremmo istintivamente portati a pensare. “Caratteristiche tipicamente umane come ballare a tempo di musica, riconoscere la propria immagine riflessa (…), creare opere d’arte, e persino l’amore e il romanticismo, si ritrovano anche negli uccelli”, scrive Strycker, chiudendo il paragrafo con una frase che suona perentoria e naïf, ma che restituisce la passione, lo stile, l’approccio del giornalista, e la totale identificazione tra autore e oggetto di studio: “Questo non è affatto antropomorfismo, e chiunque dica il contrario ignora cosa significa essere un uccello”.
Strycker è sinceramente convinto di sapere cosa significa essere un uccello e prova a farcelo capire ricordando i mesi di gelo passati in Antartide a studiare i pinguini di Adelia o le infinite settimane soffocanti trascorse nell’outback australiano per osservare il comportamento di alcuni scriccioli fatati. Volare è diviso in tre sezioni: “Corpo”, “Mente” e “Spirito”, ideate per mettere in chiaro quanto ci sia in comune tra uomini e uccelli anche negli aspetti più immateriali e inaspettati delle nostre vite. Ogni sezione del libro è a sua volta divisa in sottosezioni per un totale di tredici capitoli, ogni capitolo è dedicato a una specie diversa, una sorta di quaderno da birdwatcher arricchito con resoconti di studi scientifici, narrazioni in prima persona e un po’ di storia dell’etologia.
Strycker mette in chiaro quanto ci sia in comune tra uomini e uccelli anche negli aspetti più immateriali e inaspettati delle nostre vite.
“Bird journalism of the highest order” lo ha definito il Washington Post tre anni fa, all’uscita americana del libro. Giornalismo ornitologico del livello più alto è un’etichetta talmente specifica e settoriale che sembra quasi ridicola, uno sfottò. Eppure è vero che negli ultimi anni sono sempre di più i libri di successo che si possono considerare più o meno a tema, da A Feathered River Across the Sky, saggio di Joel Greenberg dedicato alla scomparsa del piccione viaggiatore, fino a Io e Mabel, ovvero l’arte della falconeria di Helen Macdonald, che tradotto per Einaudi ha fatto bene anche da noi. Molte delle analogie tra esseri umani e uccelli raccontate in Volare sono sorprendenti, altre si limitano a delle suggestioni un po’ vaghe. In ogni caso, secondo Strycker, analizzandole saremo sempre destinati a imparare di riflesso qualcosa su di noi, qualcosa di nuovo o inatteso.
Alcuni uccelli nascondono meccaniche che ci appaiono ancora aliene, che vale la pena studiare e capire meglio. Seguendo quali segnali, per esempio, i piccioni (anche quando bendati e sedati) portati in luoghi sconosciuti, a migliaia di chilometri da casa, riescono a ritrovare senza grandi turbamenti la via del ritorno in tempi oltretutto ragionevoli? E grazie a quali dinamiche gli storni riescono a creare in volo oggetti complessi e bellissimi come i loro caratteristici stormi? Il comportamento degli uccelli “è uno specchio nel quale possiamo riflettere sul comportamento umano. Lo specchio è intorno a noi, risplende dalle estremità alari di centinaia di miliardi di esemplari appartenenti alle 10.000 specie di uccelli che, con noi, abitano questo pianeta”.
Apsley Cherry-Garrard, avventuriero che giunse a Capo Crozier nel 1911 durante la spedizione al Polo Sud di Robert Scott scrisse dei pinguini che vedeva la prima volta: “Assomigliano straordinariamente ai bambini. I loro corpicini sono così pieni di curiosità che hanno poco spazio per la paura”. Strycker racconta con toni simili la sua esperienza in Antartide: “Si fermavano quando mi fermavo, camminavano quando camminavo e si immobilizzavano come una banda di ladri colpevoli ogni volta che mi giravo verso di loro all’improvviso”.
La curiosità e l’ingenuità che manifestano i pinguini quando si trovano davanti a Strycker ricordano, riflessi, il candore e l’interesse che lo stesso Strycker sembra aver provato davanti a praticamente ogni altra specie che ha incontrato nella sua vita. In un altro episodio presente nel libro, l’ornitologo racconta di quando da giovane caricò in macchina una carcassa di cervo per riuscire a fotografare da vicino gli avvoltoi collorosso, d’estate molto comuni in Oregon. Scaricò la carogna maleodorante nel giardino di casa e lasciò che i collorosso volteggiassero sul cielo sopra i tetti del suo isolato per giorni – con lo sgomento e l’orrore dei vicini – finché gli avvoltoi non presero finalmente confidenza e divorarono la carne in putrefazione fino all’osso. Strycker riuscì allora finalmente a scattare le sue foto. Il rivestimento dell’auto rimase impregnato dell’odore di morte per mesi, anche dopo che tutti quegli avvoltoi erano migrati a sud per l’inverno. “Ogni volta che prendevo la macchina, però”, scrive con nostalgia Strycker, “quell’odore mi ricordava che i miei raccapriccianti amici ben presto sarebbero tornati”. La speranza è quella cosa piumata che si posa sull’anima.