La condizione ordinaria
Una nuova architettura per questo mondo che non lascerà rovine.
Una nuova architettura per questo mondo che non lascerà rovine.
A prima vista, l’impianto è piuttosto semplice: due serre ortofrutticole giustapposte, una completamente trasparente e l’altra parzialmente rivestita di pannelli opachi. Il visitatore distratto non penserebbe mai che quei due edifici, così comuni nel paesaggio dell’odierna agricoltura industrializzata, siano un’abitazione privata. Certo, non si può dire che la “Maison Coutras” (2000), progettata dallo studio francese di architettura Lacaton & Vassal sia davvero bella: come l’Ospedale degli Innocenti di Filippo Brunelleschi a Firenze, o il Tempietto a San Pietro in Montorio di Bramante a Roma.
L’estetica di un edificio del genere è così strettamente legata al processo costruttivo che sembra naturale parlare di un ready-made architettonico. Se Marcel Duchamp imponeva un’anestesia completa da questioni di buono o cattivo gusto, così Lacaton & Vassal seguono un metodo progettuale in cui la riduzione all’essenziale conduce presto a interrogarsi sul senso stesso dell’oggetto architettonico. Ovvero: cosa rimane di architettonico in un’opera che a prima vista sembrerebbe limitarsi all’associazione di due oggetti così estranei?
Una prima risposta è nell’economia. Costruire un edificio con mezzi minimi, ovvero un prodotto economico al limite della non costruibilità, significa intraprendere una serie di processi logici consequenziali e indiscutibili: meno budget significa meno materia, significa un modo diretto di mettere in opera i materiali, significa associare gli oggetti seguendo le loro caratteristiche ottimali di assemblaggio. Infine, significa ottenere qualità estetica da scelte performative piuttosto che formali. L’opera è tanto più forte e radicale quanto essa sembra rinunciare a ciò che costituisce la classica prerogativa dell’architetto, ovvero la creazione della forma. Nel ridurre l’intervento all’assemblaggio di due serre, gli architetti alludono all’origine dell’architettura in quanto oggetto protettivo ed essenziale, uno stato (come la grotta, o la capanna primitiva di Marc-Antoine Laugier – si veda il suo Essai sur l’architecture del 1753) essenzialmente definito più dagli usi e dagli oggetti comuni dell’abitare che dalla sua forma.
La tensione interna prodotta dall’inserzione della vita quotidiana, con i suoi oggetti tipici e modesti: una lavatrice, un divano, un letto, un tavolo, in un contesto completamente alieno ma ancora ben leggibile come quello della serra, produce un effetto surreale che allude ad un’instabilità dell’interpretazione. È precisamente in questo atto di apparente rinuncia che gli architetti producono architettura, perché suscitano la qualità architettonica latente posseduta da edifici come le serre, senza obliterarne la bellezza poetica originaria e fondando l’approccio progettuale sulla qualità dell’abitare. Il lavoro di Lacaton & Vassal è emblematico dell’approccio alla progettazione e al pensiero architettonico di una generazione che, per quanto eterogenea nei riferimenti, nelle finalità e nell’estetica, non esita a definirsi “razionalista”, sebbene la loro razionalità debba oggi fare i conti con la cosiddetta “condizione ordinaria”: una scelta deliberatamente non moralista di sobrietà in uno stato permanente di crisi economica e di generale declino culturale dell’Europa.
Una condizione in cui la distinzione tra monumento e architettura ordinaria è ormai in crisi: da un lato perché i blocchi logistici, gli edifici residenziali, gli uffici sono per quantità e dimensioni più importanti di molti edifici censiti come monumenti, e dall’altro perché anche gli stessi monumenti contemporanei, le opera house, i musei, gli stadi o le mediateche pubbliche, sono spesso costruiti al loro interno con gli stessi mezzi e gli stessi materiali ordinari dell’edilizia a basso costo (come l’onnipresente cartongesso usato per le partizioni). Secondo Auguste Perret, “l’architettura è ciò che fa le belle rovine”: nel migliore dei casi, vista la deperibilità dei materiali con cui sono realizzati, di questi edifici non rimarranno nemmeno quelle. Eppure, tanto più la povertà dei mezzi e l’impossibilità tecnica di realizzare un’architettura puramente singolare ed eccezionale, impediscono di fatto il raggiungimento di uno status monumentale, tanto più l’architettura si ritrova vicino a se stessa, e la sua qualità torna a derivare dalla capacità del progettista di trarre vantaggio dalle limitazioni e condurre un discorso profondo attraverso la forma.
Eric Lapierre, fondatore dello studio parigino ELEX, si confronta con questa condizione tentando di creare degli strumenti concettuali e materiali mediante i quali l’architettura ordinaria possa innalzarsi a pratica colta, cercando i suoi riferimenti ideali non solo all’interno della disciplina, ma anche nel mondo della musica. In fondo, come sostiene lui stesso, il merito di Bob Dylan è quello di aver portato la canzone popolare al livello della poesia colta, e quello di Lou Reed e dei Velvet Underground, di aver integrato la sofisticazione formale e intellettuale del Free Jazz e della musica sperimentale all’interno del Rock and Roll. Punk e poesia, avanguardia e rumore, sono riferimenti estetici estremamente presenti nella pratica dell’architetto francese, tanto che egli si trova spesso a invitare dei musicisti a suonare nei suoi cantieri, come è successo recentemente nella sua Residenza studentesca in costruzione a Parigi, dedicata al regista – recentemente scomparso – Chris Marker.
A intessere una relazione tra il suono e lo spazio sono stati allora alcuni chitarristi e gruppi sperimentali come i Magik Markers, Jean-François Pauvros o Jean-Marc Montera. E anche Lee Ranaldo (ex chitarrista del gruppo noise rock newyorkese Sonic Youth), che durante la sua performance è arrivato a servirsi delle superfici ancora grezze dell’edificio come materiale sonoro, prima appendendo e facendo oscillare la sua chitarra elettrica per produrre feedback, e poi trascinandola lentamente sul pavimento e sui muri in cemento a vista, in un’azione delicata come una penna che traccia una linea su un foglio.
L’architettura di Lapierre nasce da una tale riduzione volontaria delle componenti materiali e concettuali, da produrre opere che lui considera allo “stato-limite”. Esattamente allo stesso modo in cui Lou Reed esegue iterativamente gli stessi accordi per tutta la durata di Sweet Jane, in cui Georges Perec riproduce sistematicamente la mossa a L del cavallo sulla scacchiera nell’esplorare gli appartamenti in Vita, Istruzioni per l’uso, o in cui Chris Marker, (appunto), sintetizza l’animazione cinematografica in una successione di immagini e voce fuori-campo in La Jetée, Lapierre sottopone di volta in volta il proprio vocabolario formale ad una volontaria auto-limitazione: costruire l’edificio con un solo materiale, utilizzare un solo tipo di finestre, declinare un principio formale in maniera sistematica, evitare l’utilizzo del silicone, o anche perseguire ossessivamente un’estetica dell’incompiutezza.
Il suo “Le Point du Jour” a Cherbourg (2006-08), un centro d’arte interamente dedicato alla fotografia, è esplicito in ognuna di queste direzioni: dall’esplorazione dell’economia dei mezzi, dello stato limite e dalla ricerca di un equilibrio instabile tra charme e cattivo gusto, tra un’ideale di non-finito e un’estetica del brutto, nasce un edificio tanto astratto e concettualmente denso, quanto, per paradosso, del tutto contestuale alla periferia ordinaria nel quale si iscrive, ovvero quella delle rotatorie, dei centri commerciali suburbani, dello sprawling, delle linee di trasporto logistico. Il “Point du Jour” è un volume parallepipedico in cui tre spigoli sembrano essere stati tagliati di netto fino a ottenere un tetto a due falde e un lato a 45° rispetto alla base quadrata. La forma finale è quella archetipica della casa unifamiliare, benché le dimensioni sproporzionate e l’uso dei materiali producano un effetto di straniamento analogo all’unheimlich freudiano.
L’assenza di soluzioni di continuità tra muri esterni e tetti è rimarcata dal rivestimento continuo in un materiale “povero” solitamente utilizzato per l’impermeabilizzazione delle terrazze: un manto in bitume protetto da un sottile strato in alluminio. Lasciato allo stato grezzo, senza ulteriori rivestimenti, il paxaluminium possiede una capacità riflettente quasi innaturale, in grado, secondo l’architetto, di “esplicitare il carattere misterioso della realtà più prosaica”: la luminosità accecante che ha l’edificio durante il giorno, permette di renderlo visibile dall’ambiente circostante senza dover far ricorso al vocabolario dei loghi in neon dei MacDonalds e delle costruzioni industriali vicine. Inoltre, il materiale argenteo cita sottilmente gli interni della Factory di Andy Warhol e “parla” della stessa origine della fotografia – a cui l’edificio è dedicato – , quando il processo chimico di sviluppo prevedeva l’utilizzo di minuscoli aggregati d’argento. Gli architetti di questa generazione non rinnegano l’ambiente in cui operano, né lo criticano al fine paternalistico di migliorarlo, ma se ne servono basando la loro pratica sul concetto di “as found”. Seguendo la lezione di Alison e Peter Smithson, importante coppia di architetti e teorici inglesi della seconda metà del Novecento, per cui lo “as found” è l’arte del raccogliere, del restaurare e del fare con-, gli architetti si sganciano dai modelli accademici per tornare a occuparsi senza complessi della materia concreta, ovvero dell’ordinario.
L’ipotesi di Jan de Vylder, Inge Vinck e Jo Taillieu, direttori dello studio belga architecten de vylder vinck taillieu, è che non esistano edifici minori, piuttosto dei materiali as found, sui quali essi possono esercitare una metamorfosi, in cui la farfalla finale è allo stesso tempo completamente diversa e ancora memore delle identità delle larve precedenti. Costruendo come un meccano, gli architetti belgi tagliano, rompono, aprono, compongono e scompongono gli edifici esistenti, al fine di creare nuovi insiemi unitari benché spazialmente complessi. Nella casa Rampelken a Ghent (2012) introducono delle nuove colonne, degli architravi e dei muri, lasciandoli grezzi e rugosi con dei materiali poveri a vista come le cortine in blocchi di cemento. L’astrazione dell’edificio si misura con l’equilibrio precario degli elementi eterogenei messi in gioco.
C’è chi avvicina il lavoro combinatorio di de Vylder, Vinck e Taillieu al surrealismo pittorico di René Magritte perché entrambi creano “un mondo dietro il reale, in cui realtà e illusione si confondono magicamente”. Ciò è particolarmente evidente nella ristrutturazione per la Twiggy fashion boutique a Ghent (2011). Per aumentare il volume interno, il solaio superiore del basamento dell’edificio originario è stato demolito, ma alcuni elementi come le porte e il caminetto del piano superiore sono stati conservati: il gioco di proporzioni e di straniamento ricorda da vicino La géante del pittore belga. Magritte è citato ancora nell’espediente figurativo dello “spazio dietro lo spazio”: allo stesso modo in cui nell’autonomia del quadro pittorico La Lunette d’approche (1963) una finestra si apre verso un buco nero, la finestra tangibile dell’edificio Baladin (2010) si apre verso l’oscurità di un cavedio.
Nel 1984 Morrissey e Johnny Marr, allora cantante e chitarrista del gruppo the Smiths, sono intervistati da un gruppo di giovanissimi studenti per il programma televisivo DataRun. Alla prima domanda: “Perché vi fate chiamare the Smiths?”, Morrissey risponde: “Perché è il nome più ordinario, ed è ora (puntando il dito verso se stesso e verso J.Marr, nda) che la gente ordinaria di questo mondo si faccia avanti”. Sono passati più di trent’anni, una crisi economica che non sembra avere battute d’arresto, e forse finalmente una generazione di architetti si è resa conto che il mondo ordinario, o meglio: la realtà collettiva, è sempre più profonda, surreale e misteriosa di quanto si possa immaginare.