D a qualche anno, un amico che abita a Milano mi ripete che dovrei visitare il capoluogo lombardo perché, sostiene, finalmente è diventato “una città europea”. Intende dire che Milano è diventata negli ultimi anni una global city secondo la famosa formulazione che Saskia Sassen ne forniva nel suo libro del 1991: un luogo dove si concentrano potere decisionale, una borsa valori e le sedi di diverse compagnie multinazionali. Secondo questa definizione tuttavia Milano è una città globale da diversi decenni, dunque chiedo al mio amico cosa sia cambiato di recente. La sua risposta, sicura, arriva immediatamente: ora ci sono i grattacieli.
Qualcosa di simile era successo quindici anni prima a Londra, quando uno skyline che aveva smesso di svilupparsi in altezza dai primi anni Settanta aveva visto la comparsa di nove torri alte oltre 100 metri tra il 1999 e il 2004, tutte dislocate nei due centri della finanza della City e di Canary Wharf. Con un ritmo in costante accelerazione, altre diciassette sarebbero state erette dal 2012 in poi, con il tetto dei 300 metri finalmente rotto dallo Shard di Renzo Piano, oggi il grattacielo più alto dell’Europa occidentale. Le torri attualmente in costruzione nella capitale britannica sono trentotto, mentre i progetti già approvati per il prossimo decennio ma non ancora iniziati ammontano a sessantuno. Qualora tutti i progetti approvati a Londra venissero effettivamente costruiti si tratterebbe di un aumento del numero di grattacieli del 600% nel trentennio 1999-2029.
Per quel che riguarda gli edifici supertall e megatall, rispettivamente oltre i 300 e i 600 metri di altezza, l’Europa è ultima tra i continenti: lo Shard, unico esempio di supertall tower europea, si posizione al 107esimo posto di una classifica degli edifici più alti del mondo che vede trionfare il mastodontico Burj Khalifa di Dubai con i suoi 828 metri. Ancora per poco, tre anni per la precisione: fino al giorno del 2020 in cui sarà completata la Kingdom Tower di Gedda, il primo edificio a superare la soglia simbolica del chilometro di altezza. La vertiginosa proliferazione di torri nell’ultimo decennio è solo l’aspetto più evidente di una trasformazione dello spazio lungo un asse che la nostra rappresentazione massicciamente orizzontale della geografia non ci permette di cogliere: è questa la tesi centrale di Vertical: the City from Satellites to Bunkers di Stephen Graham, una delle pubblicazioni più interessanti del 2016 nel ricco catalogo di urbanistica e architettura dell’editore Verso.
Graham, professore di architettura all’università di Newcastle, si occupa da tempo del rapporto tra asse verticale e pianificazione urbana. La sua posizione è volta a “denaturalizzare ed esporre” il nostro approccio allo spazio come spazio orizzontale (rappresentato dalle mappe lungo linee bidimensionali) e le “metafore spesso invisibili e date per scontate della verticalità” (la connotazione positiva che associamo all’alto e quella negativa che associamo al basso, ad esempio nella dicotomia tra “alta” e “bassa” classe sociale). Per fare questo, nel suo libro affronta il problema delle città discutendo nell’ordine satelliti, aerei, droni, ascensori, grattacieli, città multilivello, condotti fognari, bunker e miniere. L’effetto di questa analisi che assomiglia a un volo in picchiata è una rappresentazione della città che ribalta le certezze consegnateci da secoli di geografia piana, trasformando lo spazio in un oggetto complesso e talvolta disorientante.
Google Earth ci restituisce uno sguardo sul mondo che pretende di essere oggettivo, fallendo: spaccia la mappa per il territorio.
Un buon punto di partenza per capire quest’opera di “denaturalizzazione” è uno strumento che usiamo tutti i giorni: Google Earth. Il servizio di Google, secondo Graham, è il trionfo su scala di massa di quella rappresentazione dello spazio dall’alto che oggettivizza l’intero pianeta come un sistema informativo piatto e completamente navigabile. Come i satelliti a cui si appoggia e come i droni, Google Earth ci restituisce uno sguardo sul mondo che pretende di essere oggettivo e che invece, come ogni rappresentazione, è il frutto dei pregiudizi dei suoi creatori: spaccia la mappa per il territorio, per usare una metafora borgesiana. Le implicazioni politiche di questo background diventano chiare quando si pensa che il programma alla base di Google Earth era originariamente proprietà della CIA (Mountain View l’aveva acquisito nel 2004) e che si basa su un sistema di navigazione satellitare, il GPS, creato e mantenuto dal governo degli Stati Uniti (che occasionalmente ne ha impedito l’accesso a determinate popolazioni, come nel caso della guerra del Kargil del 1999).
Al contempo, Google Earth e i sistemi di rappresentazione satellitare analoghi hanno contribuito a trasformare in maniere inedite quello che i paesaggisti chiamano brandscape, il luogo come brand da vendere sul mercato globale, come dimostra il caso delle Palm Islands e del complesso The World di Dubai: progetti che traggono la loro ragion d’essere dall’effetto che ottengono se fotografati dall’alto – ad esempio dalla NASA. Oppure hanno dato vita ad azioni politiche come la rivolta sciita in Bahrein del 2011, mostrando dall’alto le dimore faraoniche della minoranza sunnita che controllava il 95% del territorio del paese in un’opera di esposizione al pubblico sguardo dell’ingiustizia sociale.
Questi aspetti della verticalità introdotti da Google Earth (l’origine militare del sistema, il territorio come brand, la suddivisione non equa delle risorse di un paese) sarebbero stati trascurati dalle classiche mappe bidimensionali, oppure sarebbero stati facilmente occultabili dalle élite politiche, come nel caso del Bahrein. Ancora più radicalmente omessi dal discorso sono tutti quei casi, in forte aumento nell’epoca del capitalismo globalizzato, in cui soggetti privati o stati-nazione possiedono risorse al di sopra o al di sotto del suolo formalmente amministrato da un altro stato: è il caso dei droni statunitensi che pattugliano i cieli del Medio Oriente, ad esempio, ma anche delle compagnie minerarie finanziate dallo stato cinese che operano in Africa. Quello che per una mappa bidimensionale è territorio iracheno o del Madagascar è, nei fatti, controllato da soggetti che operano al di fuori dei confini rappresentabili in due dimensioni.
Processi analoghi si trovano nelle città in rapida trasformazione dell’America Latina. A Saõ Paulo, ad esempio, una dimostrazione dell’importanza della verticalità nell’amministrazione del potere cittadino viene fornita da Suketu Metha, che in un reportage per la New York Review of Books racconta come si sia sentito rifiutare dalla polizia la richiesta di sorvolare in elicottero la favela non pacificata di Ararà: poco tempo prima i traficantes avevano abbattuto un velivolo della polizia con armi antiaeree, in una potente negazione del potere governativo di osservare dall’alto e di rappresentare, per dirla con Graham, “il mondo di sotto come nient’altro che un infinito campo di obiettivi da identificare e distruggere”.
D’altra parte Ararà, dove è in atto una vera e propria guerra tra polizia e trafficanti, è solo l’altra faccia di una medaglia che vede le favelas come ultima frontiera della gentrificazione (anche sulla scia di mega-eventi come i mondiali di calcio o le Olimpiadi) a seguito di un altro processo di verticalizzazione: la crescente tendenza della classe dei super-ricchi a rifuggire il pericolo delle strade delle città sudamericane spostandosi in elicottero tra un attico e l’altro. Come in una versione mai realizzata del futuro immaginato nelle metropoli occidentali negli anni Cinquanta, città come Saõ Paulo contano oggi 420 eliporti privati – il 50% in più rispetto al totale del Regno Unito. Allo stesso modo, a Guatemala City i ricchi sono tornati a vivere nel centro delle città, ma non scendono mai nelle strade infestate di criminalità, spostandosi solo tra un grattacielo e l’altro. Nel documentario Um Lugar ao Sol di Gabriel Mascaro, in una scena ambientata a Recife si vede la moglie di un miliardario commentare le scie lasciate in cielo dai proiettili traccianti provenienti da uno slum vicino paragonandole a “fuochi d’artificio” e definendole “bellissime”.
Oppure l’accesso ai simboli del potere verticale può trasformarsi nel suo opposto, com’è successo nel celebre caso della Torre di David a Caracas, il secondo grattacielo più alto del paese e il centro finanziario della città la cui costruzione fu abbandonata nel 1994 in seguito al collasso del sistema bancario venezuelano. Tra il 2007 e il 2014, in una parabola a metà strada tra J.G. Ballard e il Paul Mason di Postcapitalismo, i 190 metri della torre sono stati occupati da 5000 squatters gettati sulla strada dalla crisi abitativa che il paese attraversava dall’inizio degli anni duemila. Gli occupanti sono infine stati sgomberati, ma la loro esperienza ha rappresentato un caso unico nella storia di comune autogestita lungo un asse verticale.
Il caso della Torre di David è ancora più emblematico se si pensa alle conseguenze sociali che la proliferazione di grattacieli pensati come dimore dei super-ricchi e attrazioni di lusso comportano per gli abitanti di una grande città. Con un rapido incremento delle torri adibite a scopo turistico o abitativo (alberghi, ristoranti e appartamenti di lusso) e una spietata competizione planetaria per attrarre gli investimenti delle élite dei multimilionari apolidi, la progettazione di uno skyline iconico e inconfondibile si tramuta nell’immagine da cartolina della crisi abitativa che ne consegue: privatizzazione di interi settori della città, aumento dei prezzi degli affitti nelle zone più vicine ai distretti finanziari o che possono godere di vedute sulla “foresta di grattacieli”, conseguente marginalizzazione delle classi più povere ai limiti (geografici e non) della vita cittadina.
Il motivo per cui i grattacieli tendono a finire nel mirino dei critici del capitalismo liberista, come anche l’11 settembre ci ha tragicamente insegnato, non ha soltanto radici freudiane ma anche motivazioni pratiche, e va ricercato in quello che Maria Kaika ha definito il carattere di “icone autistiche” delle torri costruite dagli architetti di grido: per la studiosa rappresentano i vertici di una rete avvolta intorno al mondo da coloro che controllano i processi della globalizzazione neoliberista e che operano in un network di città globali rifiutando le limitazioni e le responsabilità implicate da una cittadinanza permanente (come capitava ancora con i Rockefeller e i Guggenheim nel XX secolo). Per questo, secondo Graham, è ancora più importante mettere in luce le relazioni che intercorrono tra il segno più e il segno meno dell’asse verticale – le altezze sempre più vertiginose dei grattacieli e le profondità sempre più abissali del sottosuolo (ad esempio i sotterranei della New York post-11 settembre nelle fotografie di Julia Solis) e soprattutto dalle miniere dalle quali vengono estratte le materie prime utilizzate negli interni di lusso di grattacieli come il Burj Khalifa.
Questa è l’idea degli high-rise come inverted minescapes, “panorami minerari al contrario”, coniata dal geografo Gray Brechin: la rappresentazione su scala tridimensionale di come il potere economico delle élite sia fondato sul lavoro semi-schiavile (ad esempio dei migranti indiani e bengalesi impiegati nella costruzione degli impianti per Qatar 2022) e sullo sfruttamento delle risorse naturali – anche se questa connessione con il “basso” è proprio ciò che il capitalismo finanziario vuole farci dimenticare. Non stupisce quindi che la stessa tecnologia che ha reso possibile i grattacieli, l’ascensore (la cui prima applicazione data il 1857 nella città dei grattacieli per eccellenza, New York) è la stessa che ha reso possibile la pratica dell’ultra-deep mining, gli scavi minerari a una profondità di oltre 2.5 chilometri. Né stupisce che Forbes possa aprire un articolo del 2007 scrivendo che “se vuoi sapere dove sono le economie più calde del mondo (…) tutto quello che devi fare è rispondere a una domanda: dove sono gli ascensori più veloci?”
Nell’iperspazio postmoderno cooperano forze umane e non umane, come i satelliti e i droni, oggetti naturali e artificiali, laddove una linea di demarcazione ancora esiste.
Sempre per questo motivo il problema della verticalità si confonde con il problema del capitalismo tout court, e più nello specifico con l’uso che il capitalismo fa della natura profondamente antropizzata che fornisce il substrato materiale dei suoi successi finanziari. La classe dei super-ricchi che si sposta in elicottero tra i grattacieli di Guatemala City è la stessa che importa la sabbia australiana per estendere artificialmente la lunghezza delle spiagge di Dubai, una città che sorge come un miraggio nel centro del deserto, o che a Pechino edifica una cupola intorno al satellite dell’esclusivo Dulwich College di Londra per far sì che i figli dei facoltosi espatriati non vengano contaminati dallo smog che le aziende nelle quali i padri hanno interessi multimilionari hanno contribuito a creare nella metropoli cinese.
Le conclusioni a cui arriva Graham nel suo studio non sono rassicuranti, ma non mancano di fascino. La proposta è quella di abbandonare la semplificazione della geografia piana per immergersi pienamente in quello che Frederic Jameson aveva definito già nel 1984 un “iperspazio postmoderno”, uno spazio disorientante dove “viene meno la nozione di un orizzonte stabile e dotato di fondamento”. In questo spazio cooperano forze umane e non umane, come i satelliti e i droni, oggetti naturali e artificiali, laddove una linea di demarcazione ancora esiste (è naturale l’aria prodotta da circuiti di ventilazione completamente chiusi nelle città multi-livello come Hong Kong? È naturale la neve di Ski Dubai, conservata a -6 °C contro i picchi di 52 °C della temperatura esterna? Sono naturali le guerre per la sabbia in paesi pressoché completamente desertici?).
In un famoso passaggio di The Language of Post-Modern Architecture del 1977, il critico dell’architettura Charles Jencks scriveva che “fortunatamente è possibile datare con precisione la morte dell’architettura moderna (…). L’architettura moderna è morta a St. Louis, Missouri, il 15 luglio 1972 alle 15:32, quando al famigerato complesso di Pruitt-Igoe (…) era stato dato il colpo di grazia per mezzo della dinamite”. Pruitt-Igoe non era un grattacielo, ma un complesso di case popolari, e la sua demolizione in diretta televisiva è diventata la prima di una lunga serie – un genere che ha i suoi sottogeneri, i suoi canali YouTube dedicati e la sua schiera di entusiasti. Un’altra demolizione in diretta TV, questa volta di due grattacieli, ha chiuso l’epoca postmoderna l’11 settembre 2001.
A differenza del caso di Pruitt-Igoe, che ha messo anche la parola fine al trentennio di edilizia popolare negli Stati Uniti e in Europa, l’attacco al WTC ha però solo rafforzato la spinta alla costruzione di grattacieli nelle nostre metropoli – e tuttavia per la prima volta dal 1311, quando la cattedrale di Lincoln in Inghilterra ha superato in altezza la piramide di Giza in Egitto, oggi l’edificio più alto del mondo si trova fuori dai confini occidentali. Questo nuovo iperspazio veramente globale ha bisogno di nuove categorie per essere compreso, per non cadere nell’errore di attenerci a una mappa che non rappresenta più alcun territorio reale.