U na scimmia bendata che lancia freccette alle pagine di finanza di un quotidiano potrebbe scegliere un portafoglio di azioni che va bene quanto un portafoglio attentamente scelto dagli esperti”, scriveva nel 1973 l’economista Burton Malkiel nel celebre libro A spasso per Wall Street. Il suo era un paradosso per spiegare che, nonostante la mole di informazioni a disposizione degli investitori, il mercato rimane fondamentalmente imprevedibile. Le scimmie bendate di Malkiel sono semplici strumenti del caso, insomma. Ma cosa succederebbe se togliessimo loro le bende? Le scimmie possono produrre scelte economiche sensate?
Sul finire dell’Ottocento alcuni grandi economisti della teoria classica (ovvero, in breve, delle scienze economiche per come le conosciamo oggi) iniziarono a usare il termine Homo oeconomicus – l’uomo economico – come modello astratto di comportamento di un uomo nei confronti del mercato. Homo oeconomicus (nome calcato da Homo sapiens) è fondamentalmente un attore economico che in base alle informazioni in suo possesso persegue in modo perfettamente razionale un interesse egoistico.
Parallelamente all’affermazione del concetto di Homo oeconomicus, ma in tutt’altro contesto scientifico, si andava formando una nuova disciplina nelle scienze naturali, l’etologia. Sebbene lo studio del comportamento animale è da sempre stato al centro della curiosità umana, dal dopoguerra questa curiosità fu incardinata all’interno di metodologie scientifiche da alcuni pionieri, tra tutti il Premio Nobel Konrad Lorenz. Sempre in quegli anni facevano la loro comparsa sulle riviste scientifiche i primi studi di psicologia comportamentale, incentrati sull’essere umano, l’unico animale che – fino a quel momento – si riteneva dotato di qualità straordinariamente superiori a quelle degli altri.
Sebbene lo studio del comportamento animale è da sempre stato al centro della curiosità umana, dal dopoguerra questa curiosità fu incardinata all’interno di metodologie scientifiche.
Economica classica, etologia e psicologia comportamentale non iniziarono però a dialogare da subito. Il problema alla base (che tuttora non è stato eliminato) è un discorso di tipo prettamente teorico. Ancora oggi molti ricercatori ritengono che gli altri animali non posseggano alcune qualità fondamentali per poterli scientificamente comparare agli esseri umani e al loro comportamento. Sembrerebbero mancare di empatia o di capacità di adottare scelte in modo razionale, utilizzando un ragionamento sulla base di informazioni.
Negli anni l’etologia ha dimostrato che gli altri animali hanno un’interiorità molto più ricca rispetto a quello che pensavamo fino al XIX secolo. Ma questo non è bastato. Per secoli gli studiosi hanno descritto gli altri animali come delle macchine semoventi con una scarsa o assente interiorità. Questo concetto, che oggi ci può sembrare datato, sopravvive nella maggior parte dei codici di diritto privato, in cui gli animali sono sostanzialmente equiparati a oggetti (sebbene anche qui, negli ultimi anni, qualcosa stia cambiando). Eppure gli animali – e i primati in particolare – potrebbero aiutarci a capire molte più cose su di noi. A partire da una caratteristica di Homo sapiens: l’irrazionalità.
Economia delle scimmie
Laurie Santos è una docente e ricercatrice in psicologia a Yale. Dal 2008 sta indagando quella che colloquialmente chiama monkeynomics, il senso economico delle scimmie. Per i suoi esperimenti non utilizza i primati più vicini all’uomo (come bonobo o scimpanzé), ma le scimmie cappuccine, un gruppo di piccoli primati del nuovo mondo. Noi e le cappuccine ci siamo evoluti separatamente circa 35 milioni di anni fa e questa distanza può farci capire quali aspetti sono più profondamente radicati nella nostra storia evolutiva. Una delle ricerche più celebri di Santos aveva come focus proprio l’irrazionalità. Cercava di capire, insomma, se, posti davanti a opzioni simili, scimmie e uomini applicano le stesse scelte e commettono gli stessi errori, se avevano la stessa propensione o avversione al rischio.
Riprendendo alcuni esperimenti economici classici sull’irrazionalità e applicandoli alle scimmie, Laurie Santos chiedeva alle cavie di scegliere tra un’opzione rischiosa (dominata dal caso) e un’opzione certa ma con un guadagno minore. Alle scimmie cappuccine veniva fornita una valuta finanziaria, un gettone senza valore in sé ma che poteva essere scambiato con degli acini di uva. Le cappuccine entravano in un ambiente controllato dove trovavano due ricercatori umani, ben differenziati e riconoscibili, differenziati da un abbigliamento con colori molto diversi. Il primo ricercatore offriva sempre un acino d’uva in cambio del gettone, il secondo offriva – a caso – talvolta due acini d’uva, talvolta niente.
Ripetendo l’esperimento per decine e decine di volte per renderlo statisticamente robusto, Santos fece una prima scoperta: le scelte delle cappuccine e degli uomini erano identiche. Scimmie e umani, in quel tipo di esperimento, avevano una spiccata avversione al rischio: tendevano a scegliere il ricercatore che dava un premio minore ma sicuro. I dati erano talmente aderenti che, sottoposti all’esame di alcuni economisti, nessuno riusciva a capire quali fossero quelli derivanti da esperimenti su umani e quali su scimmie.
Laurie Santos cercava di capire se, posti davanti a opzioni simili, scimmie e uomini applicano le stesse scelte e commettono gli stessi errori, se hanno la stessa propensione o avversione al rischio.
Riprendendo un altro test economico classico, Santos provò poi ad affrontare lo stesso problema (l’avversione al rischio) da una seconda prospettiva. La decisione non riguardava più quanti acini guadagnare, ma quanti le cappuccine erano disposte a perdere. Le opzioni offerte alle scimmie erano anche in questo caso le stesse dell’esperimento precedente, ma presentate in maniera differente: un ricercatore forniva una scelta ad alto rischio e casuale, offrendo alle scimmie o due acini o niente. L’altro ricercatore invece mostrava agli animali due acini ma toglieva ogni volta uno dei due acini che offriva: era l’opzione meno redditizia (un solo acino, invece dei due possibili del primo ricercatore) ma più sicura (l’offriva sempre). Anche qui i risultati furono identici a quelli umani, ma opposti al primo esperimento: la propensione al rischio era la scelta preferita, sia dalle scimmie che dagli uomini.
L’esperimento, come detto, dava risultati indistinguibili se condotto con umani o con le scimmie. Sembra dunque che, scimmie o uomini indistintamente, se parliamo in termini di perdite, siamo più disposti ad assumerci dei rischi. Questo meccanismo sembra tanto radicato nella nostra evoluzione da condividerlo con le cappuccine, con cui abbiamo avuto un antenato comune milioni di anni fa. Oggi questa propensione al rischio potrebbe essere uno dei meccanismi dietro il “successo” delle bolle speculative: una caratteristica istintiva che non ci porta a fare scelte realmente razionali nel lungo periodo.
Molti ricercatori – tra cui la stessa Santos – ritengono che ci sia un collegamento tra questa e altre caratteristiche primordiali che si sono rivelate utili nel corso della nostra evoluzione, ma ora sono deleterie. Prendiamo ad esempio la nostra passione per grassi e zuccheri, un altro tratto antico che condividiamo con le scimmie. In ambiente naturale e fortemente competitivo, si è più propensi ad assumere grandi quantità di grassi e zuccheri, le rare volte che capita di averli a disposizione. Ma in un ambiente artificiale e tecnologicamente avanzato (come, ad esempio, in presenza di un’industria alimentare avanzata) questo ha portato ad un enorme incremento dell’obesità o dell’abuso di alcol (le bevande alcoliche sono ricche di zuccheri). Similmente, in ambiente selvaggio può essere razionale assumersi il rischio sperando di ottenere il massimo profitto (due acini di uva), ma in un ambiente artificiale e complesso, ad esempio in presenza di una valuta finanziaria, questo può ritorcersi contro di noi, creando bolle speculative.
A proposito di ingiustizia
È il 17 settembre del 2011 e in un parco della zona sud di Manhattan iniziano ad ammassarsi centinaia di persone. Le proteste, che prenderanno il nome di Occupy Wall Street, andarono avanti per quasi tre mesi, denunciando gli abusi del capitalismo finanziario, che, dopo aver trascinato il mondo in una delle peggiori crisi mai viste, aveva di nuovo iniziato a elargire premi di produzione e bonus stellari. A ben vedere, ciò che scandalizzava non erano tanto i guadagni dei top manager di Wall Street, quanto che questi fossero totalmente scollegati dalle loro performance.
L’anno prima che Lehman Brothers fallisse, i cinquanta top manager della società finanziaria avevano guadagnato circa cinquanta volte di più di un impiegato medio della banca stessa. Venivano, insomma, pagati milioni di dollari per infarcire la società di titoli tossici, la cui pericolosità era nota. Il fallimento di Lehman Brothers fu l’evento iconico della crisi globale, non solo per l’imponenza del fallimento stesso, ma anche perché rese palese l’ingiustizia sociale dell’ipertrofia finanziaria. Alcuni anni prima Frans de Waal – un celebre primatologo olandese – e il suo team avevano condotto delle ricerche proprio sull’ingiustizia sociale. I ricercatori si erano chiesti: la nostra indignazione per l’ingiustizia è un fattore prettamente umano? Sarah Brosnan, allieva di De Waal, fece un esperimento molto semplice, i cui risultati però stupirono un po’ tutti: oltre alla valenza scientifica, erano anche estremamente buffi.
I ricercatori si chiedevano: la nostra indignazione per l’ingiustizia è un fattore prettamente umano?
Ad una coppia di scimmie cappuccine (ma l’esperimento fu poi ripetuto con scimpanzé e altri animali, dando risultati simili) veniva chiesto di dare un sasso ai ricercatori che a loro volta ricompensavano il lavoro con un pezzo di cetriolo. Stessa mansione (dare il sasso), stesso premio (il cetriolo). Ad un certo punto, senza preavviso e senza motivo, una scimmia veniva ricompensata con un succoso acino d’uva, mentre l’altra continuava a ricevere l’insipido cetriolo. Chi riceveva un trattamento sfavorevole (continuando a ricevere il cetriolo) immediatamente iniziava a protestare in maniera vistosa, battendo le mani a terra e gettando, sdegnata, il cetriolo al ricercatore. E non è che protestava, ma poi mangiava il cetriolo: lo rifiutava, e gridava e si dimenava perché voleva ciò che gli spettava: l’uva, non il cetriolo! Il fatto che la sua reazione fosse così immediata e vistosa suggeriva che le cappuccine (e molti altri animali) hanno un senso dell’ingiustizia molto simile al nostro, conclusero i ricercatori. Ulteriori ricerche hanno dimostrato che spesso gli animali cercano spontaneamente di rimediare alle ingiustizie: cooperando tra di loro, “scioperando” – alcuni scimpanzé si rifiutano di ottenere un guadagno maggiore non giustificato se il compagno non lo ottiene – o punendo chi ha troppo senza meritarselo.
Anche altri atteggiamenti tipici dell’uomo in economia sono emersi spontaneamente tra gli altri animali, in particolare la sensibilità al prezzo e la propensione al furto o all’inganno. In un esperimento in cui due elefanti dovevano collaborare per tirare una corda a cui era attaccato un carro carico di cibo, dopo qualche iniziale cooperazione, un elefante capì che poteva raggiungere il risultato semplicemente bloccando la corda con la zampa e facendo fare tutto il lavoro all’altro, ignaro. Tuttavia, alcuni elementi fondamentali per parlare di “senso economico” ancora mancano. Agli altri animali, ad esempio, sembra mancare del tutto la nozione di risparmio. Non avendo il senso del risparmio, le cappuccine di Santos spendevano l’intero budget che avevano in una sola volta. Manca anche un senso di mercato interno, che si crei in modo autonomo dagli input dei ricercatori, almeno all’interno di uno specifico gruppo di scimmie. Risparmio e assenza di mercato spontaneo portano anche alla totale incapacità di concepire un commercio strutturato tra gruppi.
Differenze e critiche
Avversione e propensione al rischio, senso di ingiustizia, sensibilità al prezzo ma assenza di nozioni fondamentali per instaurare una qualche forma di commercio: la monkeynomics appare abbastanza strana, come tipo di economia. Per questo, nonostante le recenti scoperte sul senso economico negli animali, molti interrogativi rimangono aperti o comunque fortemente discussi. A partire dalla metodologia. Gli studiosi di scienze sociali, e in particolare gli psicologi e gli economisti, solitamente utilizzano uno schema stimolo-risposta mediato da una specifica azione (se vedi questo, premi questo pulsante). L’azione, quindi, funziona come “amplificatore” nell’interazione stimolo-risposta. Per gli etologi, invece, l’azione viene considerata come “lavoro” e la ricompensa appunto come “pagamento del lavoro”. Gli economisti, quindi, si chiedono se si può considerare come lavoro una cappuccina che solleva una pietra e la dà al ricercatore. Molti pensano che questo non possa essere considerato come lavoro, e dunque gli studi sulla monkeynomics soffrano sostanzialmente di un errore metodologico di fondo.
Un’altra critica che viene fatta spesso a questo tipo di studi è l’antropomorfizzazione, ovvero la tentazione di dare agli animali una interiorità che in realtà è tipica solo degli esseri umani. De Waal, ad esempio, ormai da anni sta conducendo una battaglia accademica per far accettare il termine “empatia” in riferimento agli animali. È una critica classica all’etologia, che nel corso degli anni si è munita di strumenti metodologici molto stringenti per contrastarla. C’è infine un terzo fattore da considerare. Se la propensione/avversione al rischio e il senso di giustizia/ingiustizia sono caratteristiche proprie di un attore economico, non lo descrivono in toto. In altre parole, operare in modo economico non si risolve nell’assumersi un rischio o protestare contro un’ingiustizia: c’è molto di più. Gli studi sono abbastanza recenti e sono solo appendici di questioni più grandi, ma alcune tessere del puzzle sembrano mancare del tutto. La monkeynomics finora ci ha stupito, spesso divertito, ma è un campo ancora da scoprire e indagare a fondo, per capire quali meccanismi, scelte e errori commettiamo come animali e quali invece sono nostre in quanto Homo sapiens.