S e non leggi i giornali non sei informato, se li leggi sei male informato (misinformed)”. In una battuta c’è tutto: la diagnosi e la critica, lo smarrimento e il paradosso del cittadino contemporaneo di fronte al dibattito globale che – per comodità – passa oggi sotto il nome di “post-verità” e di “fake news”. A pronunciarla è stato Denzel Washington in un’intervista in cui, pochi giorni dopo l’elezione di Trump, mette a fuoco le principali questioni che hanno afflitto il giornalismo nei mesi precedenti e successivi alla vittoria la sorpresa di “The Donald”.
Si tratta di questioni complesse, opache, contraddittorie, dove la zona grigia è molto più ampia del bianco e del nero che vorremmo. Ricette sicure non sembrano ancora esistere, altrimenti non si spiegherebbero le centinaia di riflessioni uscite in poche settimane. Quand’è che l’imprecisione diviene bufala, il pettegolezzo diviene notizia, o la fake news è strumento di propaganda? O volàno per un business on line molto remunerativo?
“Il dibattito sulla “post verità” è importante e particolare, ma è stato fuorviato e banalizzato. Ora va molto sostenere che la parola sia stupida, pretestuosa, e sia un inutile sinonimo di “bugia”: ma è perché non la si è capita, e non si è capito di cosa si parlasse, quando si è cominciato a parlarne”. Ha ragione Luca Sofri a scrivere così , provando a cambiare tavolo rispetto alla disfida tra “relativizzatori” (“le bufale ci sono sempre state, non c’è nulla di nuovo”) e i “catastrofisti” (“tutta colpa di Facebook! Limitiamo il suffragio universale!”).
Tra i molti dubbi, un punto è ormai chiaro: non c’è soluzione di continuità sull’asse che va dall’informazione alla comunicazione politica al marketing e alla propaganda. La nostra coperta di concetti sembra essere decisamente troppo corta per coprire tutti gli aspetti di una questione che è per molti versi antica e per altri ha nuove, inaspettate, versioni. È cambiato lo scenario dei media, i ruoli sono meno definiti e le responsabilità spesso evaporate.
A cosa servono le fake news?
Per esempio, proviamo a prendere la questione delle fake news (in fondo le potremmo chiamare anche “fattoidi”, ) da una prospettiva diversa rispetto a quella adottata in questi giorni in Italia ovvero – per dirla semplice semplice – se siano una novità o meno e se siano colpa di Facebook e Twitter. Francamente, risponderemmo che no, non sono una novità e che quindi, no non sono “colpa” dei social media (che hanno un ruolo nella possibilità di pubblicazione e distribuzione, certo). “Fake news” significa qualcosa in più di “notizie false”. L’aggettivo “fake” mette in luce l’operazione di costruzione del falso, l’opera del falsificatore.
Proviamo a indagarne la natura dal punto di vista della loro funzione. A che servono le fake news che rimbalzano quotidianamente da un media all’altro, dalla tv ai giornali al web in un frullatore molto complicato da fermare?
Fake news significa qualcosa in più di notizie false. L’aggettivo ‘fake’ mette in luce l’operazione di costruzione del falso, l’opera del falsificatore.
Quando un quotidiano, di quelli di carta, titola in prima pagina “Terremotati a -20, immigrati al caldo” che cosa sta facendo? E quando Matteo Renzi sventola in tv una pseudo-scheda elettorale affermando che con quella si voterà la prossima volta? Informazione, disinformazione o propaganda?
Per andare avanti proviamo a farci aiutare da una definizione.
“La propaganda è il tentativo intenzionale e sistematico di modellare le percezioni, manipolare le conoscenze e i comportamenti diretti a ottenere una reazione che promuove l’intento desiderato dal propagandista”. Nel 1999 Garth Jowett e Victoria O’Donnell – nel libro Propaganda and Persuasion – definiscono “propaganda” in questi termini, ovvero un messaggio intenzionale che prova a influenzare l’opinione pubblica con la disinformazione. Ma non è proprio questo lo scopo delle fake news? Promuovere una qualche idea sia essa sui vaccini, sulla democrazia oppure sul numero di immigrati? O per dirla ancora con Denzel Washington: “ai media non importa se sia vero, basta che lo vendano”. Certo è una generalizzazione, eppure quel verbo “to sell” coglie il punto. Le fake news vendono moltissimo se ben confezionate e, in fondo, tra propaganda e pubblicità non c’è così tanta distanza, in fondo “Quel politico si comporta come un venditore di pentole” non è una novità. Ma c’è di più. Prendiamo la confusione di piani – tra quello propagandistico politico e quello economico – dei siti legati alla galassia Casaleggio dove al mercato dei clic si sovrappongono il consenso politico e le views per i banner pubblicitari.
E ancora, chi sono gli spin doctor che sono alle spalle dei politici più in vista se non degli abili venditori che “truccano”le informazioni per ottenere l’effetto desiderato? La comunicazione politica ha come obiettivo quello di “vendere” la politica e opera proprio tra retorica e propaganda.
Il fact checking è la cura?
In molti in queste settimane hanno ipotizzato che per curare la malattia delle fake news servano debunking e fact checking, ossia la confutazione con strumenti e fonti attendibili delle bufale che circolano ovunque, in rete, sui giornali o in tv. Esistono anche da noi valenti e meritevoli cacciatori di fuffa, ma – chiediamoci – questi mezzi funzionano per combattere alla radice il meccanismo della propaganda?
Prendiamo la finta dichiarazione attribuita a Gentiloni , campione di condivisioni sui social all’indomani dell’arrivo a Palazzo Chigi dell’ex ministro degli Esteri: “Gli italiani imparino a fare dei sacrifici e la smettano di lamentarsi”. Prodotto da un sito farlocco, tal “Libero Giornale”, che per grafica e contenuti trae in inganno, confondendosi con le testate esistenti a cui il nome richiama esplicitamente.
Il neo presidente del Consiglio non ha mai pronunciato queste parole, eppure sono verosimili: qualche politico italiano può averle pronunciate in passato e in molti sono ben disposti a prenderle come vere a prescindere da chi le abbia pronunciate. Questa è la loro forza. La forza delle fake news come strumento di propaganda è il loro non essere risibilmente false, ma piuttosto verosimili se inserite in un contesto di credenze diffuse e realissime. “Un’idea non vince solo perché è buona. Per vincere deve essere anche presentata bene” diceva Joseph Goebbels, ministro della propaganda per il Reich nazista. Il quid del successo sta nella confezione che riusciamo a fare di un messaggio e la confezione è funzionale al pubblico.
La forza delle fake news come strumento di propaganda è il loro essere verosimili se inserite in un contesto di credenze diffuse.
Facciamo un altro esempio. Quando Beppe Grillo il 3 gennaio dichiara: “I giornali e i tg sono i primi fabbricatori di notizie false nel Paese con lo scopo di far mantenere il potere a chi lo detiene”, scrive qualcosa che ha la forma dell’affermazione e del dato di fatto, non dell’opinione personale. Non c’è un “penso che”, “credo che”, “sono sicuro che”. No, frase principale e subordinata descrivono uno stato di cose. O almeno lo descrivono per chi crede già a quell’affermazione, ovvero che i giornali e i tg fabbrichino bufale. Addirittura ipotizza “giurie popolari” per valutare la qualità della stampa. Tutto vero, come fosse normale, per poi tornarci il giorno dopo e dire che era una provocazione. E come è noto le provocazioni non debbono rispettare le leggi della razionalità e neanche della ragionevolezza. Giocano in un campionato diverso da quello del vero e del falso.
Quella di Grillo è una frase che può essere confutata con la verifica? No, la sua è un’arringa che ha la forma di notizia ma che va collocata in quel luogo grigio e ambiguo in cui molte delle fake news trovano spazio.
La cultura della post-verità
Il problema del fact checking è dunque che lavora sul significato letterale delle news, non tanto sullo sfondo su cui quelle notizie si collocano. D’accordo il debunking, ma da parte di chi ascolta ci dev’essere la disponibilità a lasciarsi informare e a credere nelle smentite. Questo è il punto, il tema centrale dell’epoca “post-truth”: non tanto l’aumento delle balle e della propaganda, ma il fatto che siano tali ora non conta poi molto. “Con “post verità” si intende non la bugia ma una condizione culturale nuova per cui la distinzione tra bugia e verità non è più rilevante, non è più un valore, non pone la verità in una condizione di forza rispetto alla bugia” scrive ancora Sofri.
Nel bel libro How Propaganda Works il filosofo Jason Stanley lavora su questo aspetto. Esiste un contenuto letterale – spiega il professore di Yale – e un contenuto che rimanda in senso ampio al contesto culturale nel quale una parola si inserisce. Ed è proprio su quello sfondo di pregiudizi, di stereotipi, di luoghi comuni non discussi, che si inserisce con successo la propaganda, anche nella veste di bufale.
“L’indifferenza alla verità di Trump si è rivelata curiosamente un vantaggio per lui” ha detto Tony Schwartz, il ghost writer del neo-presidente americano, sintetizzando le ragioni della sua vittoria. È l’“indifferenza alla verità” il punto, è in questo che consiste l’epoca della “post-verità” (sembra una citazione di Friedrich Nietzsche e alcuni credono che lo possa essere). Oggi siamo più o meno indifferenti alla verità rispetto al passato? Difficile a dirsi. Certo è che siamo più esposti e quindi, potenzialmente, bersagli più facili da colpire.
È su quello sfondo di pregiudizi, di stereotipi, di luoghi comuni non discussi, che si inserisce con successo la propaganda, anche nella veste di bufale.
Per il termine “propaganda” esiste una data di nascita ben precisa: 1622. Risale alla fondazione, da parte di papa Gregorio XV, della Congregatio de Propaganda Fide, ovvero lo strumento per la diffusione del cattolicesimo nel mondo e di contrasto alla Riforma protestante. Da allora la propaganda – va da sé – è cambiata, ma ha mantenuto una sua struttura centralizzata: un propagandista con un messaggio e degli obiettivi e un bersaglio da colpire. Il primo dei dieci comandamenti del teorico della propaganda Brian Anse Patrick recita: “Controlla il flusso delle informazioni”. Spesso è sufficiente per vincere. E questo avviene in due modi fondamentali: 1) divenire fonte e distributore di informazioni 2) combattere e nascondere informazioni contrarie. In fondo non è molto diverso dal modello uno-a-molti dei mass media, così come li conosciamo da almeno un paio di secoli.
Negli ultimi quindici anni, tuttavia, con l’avvento del web e dei social media le cose sono cambiate, portando a una perdita di quella centralizzazione sia per quanto riguarda le news che le fake news. Nel nuovo ambiente mediale la propaganda non è più solo quella del Potere con la P maiuscola. Ci sono piccoli e grandi imprenditori del business della propaganda. Alla ripetizione incessante nel tempo di un messaggio – che è da sempre un tratto essenziale della retorica del potere (ma quanto si ritrova ancora nei “gufi” di Matteo Renzi?) – si è aggiunta la riproduzione simultanea in rete della dichiarazione inventata, della notizia farlocca, del dato fantasioso.
Oggi distinguere in linea di principio informazione, propaganda e pubblicità è divenuto molto difficile. L’universo della comunicazione è un mondo nel quale tutto si mescola e si sovrappone e nel quale è arduo separare il contenuto di verità dei messaggi dalle intenzioni più o meno pulite di chi lo invia. Non abbiamo trovato il paradigma adeguato per comprenderlo.