U n leader carismatico tanto ammirato quanto detestato. La sua ascesa, apparentemente irresistibile, seguita da una rovinosa caduta e da un passo indietro (o solo di lato?). Una fronda interna che ne chiede la testa, accusandolo di essere troppo accentratore e di promettere ciò che non può mantenere. Da una parte il rifiuto dell’uomo solo al comando, dall’altra le accuse di invidia e disfattismo rivolte a chi rema contro. Sullo sfondo, un’Europa che non si capisce se ci è o ci fa.
Vi ricorda qualcosa? Eppure no, non è la cronaca della direzione nazionale del Partito Democratico dopo il referendum del 4 dicembre. È un sunto dei primi quattro anni di una delle più grandi – finanziariamente, per lo meno – imprese in cui si sia mai imbarcata la scienza europea. Lo Human Brain Project, megaprogetto di ricerca sul cervello umano che nel gennaio 2013 si aggiudicava un sontuoso assegno (in parte scoperto, come vedremo) della Commissione Europea. Un miliardo di Euro con cui lavorare per dieci anni inseguendo tanti e diversi obiettivi, dalla creazione di database clinici sulle malattie neurodegenerative allo sviluppo di nuovi microchip ispirati al funzionamento del cervello umano. Ma un obiettivo su tutti catturava l’immaginazione, e aveva permesso a Human Brain Project di prevalere su altri progetti altrettanto visionari in corsa per quello stesso finanziamento: la promessa di simulare il funzionamento del cervello umano, neurone per neurone, su un supercomputer.
Fino a pochi mesi fa, raccontare la storia di Human Brain Project voleva dire raccontare la storia di Henry Markram, e del suo tentativo di imporsi come “uomo forte” delle neuroscienze continentali. Nato in Sud Africa quasi 55 anni fa, poi trasferitosi in Israele – di cui è cittadino – e infine approdato in Svizzera all’EPFL di Losanna, Markram è uno di quegli scienziati che, come si dice in televisione, “bucano”. Nel 2013 un articolo su Nature lo descriveva come “alto, suggestivo”, con una capacità “quasi ipnotica” di convincere delle proprie idee e di comunicarle con l’efficacia di un “Carl Sagan sudafricano”.
Da anni Markram inseguiva una visione: usare la potenza di calcolo dei supercomputer per ricomporre finalmente il puzzle del cervello, riunire i pezzettini contenuti nelle migliaia di studi pubblicati ogni anno dai neuroscienziati, lasciar alle macchine il proibitivo compito di capire come si collegano l’uno all’altro, e arrivare “dal basso” a un quadro complessivo del funzionamento del cervello. Per spiegare finalmente come dall’umile attività elettrica e chimica dei singoli neuroni si arrivi a memoria, percezione, ragionamento, emozione, coscienza. Come il cervello produca la mente, insomma.
Markram inseguiva una visione: spiegare come dall’attività elettrica e chimica dei singoli neuroni si possa arrivare a memoria, percezione, ragionamento, emozione, coscienza.
Une decina d’anni fa Markram aveva convinto l’EPFL a comprargli un Blue Gene, un supercomputer IBM con cui simulare il cervello del ratto, e attorno al 2010 era arrivato a simulare un centinaio di colonne corticali – sezioni verticali della corteccia del roditore. Ma per puntare al cervello umano serviva molto di più. E quando la Commissione Europea lanciò il bando FET-Flagship nel 2010, Markram capì di avere l’occasione della vita. Mettendo in palio due finanziamenti da un miliardo di euro ciascuno, la Commissione sperava di affrontare due problemi storici della scienza europea. Uno, la difficoltà di creare legami con il mondo dell’industria e di tradurre i breakthrough scientifici in innovazione tecnologica. Due, riportare un po’ di eccitazione in un pubblico sempre più freddino e restio ad appassionarsi alle grandi imprese scientifiche. All’Europa, pensano a Bruxelles, serve una scossa, un obiettivo affascinante e quasi folle, che aiuti l’economia ma faccia anche sognare. Un equivalente della corsa alla Luna per gli USA degli anni Sessanta, insomma.
Scienziati in varie discipline (robotica, medicina, scienze sociali, informatica) si diedero da fare per presentare idee visionarie, e convincere la Commissione di essere in grado di realizzarle. Forte della capacità persuasiva di cui sopra, Markram riuscì a riunire attorno a sé una rete di istituti al top delle neuroscienze europee, e a fare del suo Human Brain Project la proposta di punta in fatto di studi sul cervello.
Non ci voleva molto a capire, però, che tra i colleghi di Markram non regnava esattamente il consenso. Nature andò a tastarne il polso con un’inchiesta nel febbraio del 2012, e l’articolo si apriva con un virgolettato che più chiaro e sintetico non si poteva. “It’s crap”, era il commento di un anonimo ricercatore che aveva appena ascoltato Markram illustrare la sua visione all’Accademia Svizzera delle Scienze.
Non solo l’obiettivo di una simulazione completa del cervello entro dieci anni sembrava a molti fantascienza. Ma non piaceva nemmeno il linguaggio di Markram nelle conferenze pubbliche e nelle interviste, da rottamatore potremmo dire. Rimproverando ai colleghi la frammentazione eccessiva del settore, il fatto di concentrarsi ognuno sul proprio angolino di studi, proponeva di fatto di usare i fondi della Commissione e le simulazioni al computer per riportare le neuroscienze europee sotto un ombrello comune: il suo.
A Bruxelles, però, i suoi argomenti fecero breccia. Anche perché Markram aveva buttato là, in interviste e conferenze, un’altra mezza promessa che era musica per le orecchie dei funzionari europei: contribuire a superare gli esperimenti sugli animali, sostituendo il cervello di ratti, topi e scimmie con quello simulato al supercomputer. HBP vinse la corsa delle Flagship, assieme al progetto di nanotecnologie e scienza dei materiali Graphene.
Partito con il vento in poppa, il progetto rischiava però di arenarsi dopo meno di un anno. “La Commissione, una volta assegnata la vittoria a quel progetto, ha lasciato carta bianca a Markram, permettendogli di designare i singoli capi progetto e decidere tutto. Questo va contro tutte le regole che ci dovrebbero essere nella distribuzione di fondi pubblici” spiega Fiorenzo Conti, presidente della società europea di neuroscienze.
“Era inaccettabile affidare il management di un progetto così grande a una sola persona e che i fondi fossero gestiti da una struttura che non rispondeva a nessuno” sostiene Alessandro Treves della Scuola Superiore di Trieste.
Sugli scudi era in particolare la comunità delle neuroscienze cognitive, che a un certo punto Markram aveva cancellato dal progetto con un tratto di penna. Una autentica sollevazione dei neuroscienziati europei sfidava la ledearship di Markram con una lettera aperta alla Commissione, firmata da oltre 150 ricercatori. Tra cui diversi italiani come Alessandro Treves, professore alla Scuola Superiore di Studi Avanzati di Trieste, che spiega così le sue tre obiezioni principali:
“Era inaccettabile affidare il management di un progetto così grande a una sola persona. Era inaccettabile che i fondi fossero gestiti da una struttura piramidale che non rispondeva a nessuno, a cui la Commissione aveva praticamente subappaltato il finanziamento delle neuroscienze in Europa. Se anche il leader fosse stato un altro sarebbe stato sbagliato uguale. In più, era nulla e dannosa l’idea scientifica di fondo: che facendo una ricostruzione al computer dal basso, senza una teoria, si potesse capire qualcosa del cervello. Epistemologicamente non stava in piedi”.
Decine di ricercatori minacciavano di boicottare il progetto e, di fatto, bloccarlo. A quel punto la Commissione impose un radicale cambio di rotta e di management. Markram è stato sostituito da una gestione collegiale, e dalla scorsa primavera Markram è “solo” il leader di uno dei sottoprogetti in cui si suddivide HBP.
Il piano di lavoro è diventato più ecumenico, facendo spazio alle neuroscienze cognitive, alla componente biologica che prima era decisamente penalizzata rispetto a quella computazionale, persino riassorbendo parti dei progetti rivali (c’è per esempio il gruppo di robotica della Sant’Anna di Pisa, che aveva guidato il consorzio rivale Robot Companions).
Un nuovo inizio insomma. Chi è entrato nel progetto dopo il ribaltone, come il direttore scientifico dell’EBRI di Roma Enrico Cherubini, descrive una situazione più limpida nelle assegnazioni di fondi.
“Noi siamo entrati con un bando competitivo, e da ora in poi tutti i fondi saranno attribuiti così” spiega. “Le cose quindi stanno migliorando, il problema è che chi è arrivato per prima ha fatto da padroni sui budget. C’è diversità enorme, noi facciamo molta fatica a portare avanti i nostri task”. Cherubini si occupa in particolare di un progetto di mapping del cervello del topo, che combinando diverse tecnologie evidenzierà le sinapsi che si attivano di volta per volta quando l’animale esegue un certo compito. “Cominceremo dall’ippocampo, ma vorremmo farlo su tutto il cervello dell’animale”, spiega.
Lo Human Brain Project ha abbandonato l’immagine della simulazione completa del cervello per sostituirla con una più pragmatica: costruire un enorme centro di calcolo dedicato alle neuroscienze’.
Proprio in questi giorni, il nuovo management lancia un nuovo bando con cui distribuire circa 5 milioni di Euro a progetti satellite che dovranno svilupparsi sotto la sua ala. Tutto a posto quindi? Sì e no.
Questi anni burrascosi lasciano sul campo molti problemi. Per cominciare, i soldi rischiano di essere molto meno di quelli promessi inizialmente. La Commissione Europea non garantirà davvero al progetto 1 miliardo di Euro, ma circa la metà. Il resto dovrebbe arrivare dai singoli Stati, ma alcuni – a cominciare dall’Italia, tanto per cambiare – sono latitanti.
Non solo. Per chi fa neuroscienze ma non è dentro a HBP, come Treves, i canali di finanziamento scarseggiano. “Le neuroscienze, percepite come settore centrale dalla Commissione, non hanno un altro programma ad hoc. Nei programmi generali che finanziano ricerche di ogni tipo (come Horizon 2020, ndr) ci si sente dire: per le neuroscienze c’è già Human Brain”. Chi ha una buona idea, ma non trova il modo di agganciare al programma di lavoro di HBP, fatica molto.
E soprattutto, in tutto questo lo Human Brain Project è diventato qualcosa di molto diverso da quello che nel 2013 raccontavano i comunicati stampa della Commissione Europea. Oggi la comunicazione del progetto ha abbandonato del tutto l’immagine della simulazione completa del cervello, e l’ha sostituita con una molto più pragmatica: costruire un “CERN delle neuroscienze”, una struttura a disposizione di tutta la comunità europea, in sostanza un enorme centro di calcolo dedicato alle neuroscienze con piattaforme, database e software a disposizione di tutti. Per la cronaca i primi “computational tools” realizzati dal progetto sono stati resi pubblici nella primavera del 2016, ma non sembra che la comunità scientifica stia facendo la fila per usarli.
Un’idea meno visionaria insomma, funzionale all’obiettivo di creare una struttura permanente, che possa essere finanziata anche oltre i dieci anni previsti, ma che forse – messa così – non avrebbe vinto la corsa delle Flagship. “Intendiamoci, nessuno di noi ci credeva che in dieci anni si potesse simulare completamente nemmeno il cervello del topo”, dice Conti, “figuriamoci quello umano”. Per Treves quella promessa aveva la funzione che ha il Muro con il Messico per Donald Trump: propaganda elettorale. “Ma nella sua follia, il progetto originale aveva una lucidità” prosegue Conti. Con la sua enfasi sulla parte informatica e computazionale mirava a una maggiore relazione con tecnologia e industria, e poteva dare all’Europa un vantaggio competitivo. Ora è diventato un progetto un po’ omnicomprensivo sulle neuroscienze. È molto più simile al progetto USA (la “Brain Initiative” lanciata dalla Presidenza Obama, in sostanza una pioggia di soldi per tradurre in applicazioni pratiche la ricerca sul cervello ndr). E sul piano strategico è un errore, perché se l’Europa fa qualcosa di troppo simile agli USA ha già perso”.
Quanto a Markram, da un anno a questa parte è quasi sparito dalla scena pubblica (ma su quanto reale sia il suo passo di lato le opinioni sono discordanti, e c’è chi vede ancora la sua longa manus dietro la gestione del progetto). Lo scienziato sudafricano si è attirato livori e antipatie che nel mondo della scienza sono rari – o meglio, sono molto comuni ma raramente emergono in pubblico in modo così esplicito. “Ma lui ha fatto una proposta, giusta o sbagliata che fosse. Il grande errore in questa vicenda è della Commissione Europea”, chiarisce Conti. Che non ha controllato a dovere la prima fase di gestione, e che ha pure un po’ preso in giro i cittadini. Sbandierando l’inizio di un’impresa epocale (la simulazione completa del cervello umano) che la maggior parte degli studiosi nel campo ritenevano un’utopia, e che dopo pochi anni sembra già rimangiata. In tempi di antieuropeismo galoppante, non se ne sentiva il bisogno.