«Un grande presidente, ma un presidente dimezzato». Per Saskia Sassen, docente di Sociologia alla Columbia University di New York, tra le più autorevoli studiose dei processi di globalizzazione, Barack Obama lascia la Casa Bianca con un bilancio in chiaroscuro. Tradito dalla sua inesperienza e da un’epoca di transizione, paralizzato dalla dialettica con il Congresso e con gli avversari politici, incerto in politica estera e troppo prudente in politica interna, l’ex presidente degli Stati Uniti ha rischiato meno di quanto avrebbe potuto. E ottenuto meno di quanto promesso. E pur avendo salvato l’economia americana dal collasso si è fatto fagocitare dalla finanza, assecondando quella logica sistemica verso l’espulsione che per Saskia Sassen caratterizza l’economia capitalistica contemporanea. Di fronte al suo successore, Donald Trump, non basta gridare allo scandalo, mi spiega Saskia Sassen. Occorre invece capire le ragioni del suo successo elettorale, che sono riconducibili proprio alla grande trasformazione economica di cui siamo vittime. Da vittime occorre diventare cittadini attivi. Protagonisti di una graduale, progressiva riappropriazione degli spazi economici e sociali.
Professoressa Sassen, otto anni fa il mondo attendeva con speranza l’insediamento di Barak Obama, presidente nero, idealista e progressista. Oggi aspettiamo con un certo timore l’inizio di una nuova epoca incerta, segnata dalla presidenza di Donald Trump. Lei come vive il passaggio dalla speranza su Obama alla paura di Trump?
In primo luogo va ricordato che non c’è soltanto paura. Negli Stati Uniti molti elettori sono elettrizzati dal fatto che Trump sia il nuovo presidente. Lo sono ancora di più dopo che ha detto di voler impedire il trasferimento di alcune aziende verso Paesi con salari più bassi, e si aspettano altre decisioni simili. Non credo sia utile descrivere Trump, come molti fanno, semplicemente come ridicolo. È vero: è ridicolo, ed è sconcertante la sua volontà di risultare idiota. Non uno stolto shakespeariano, consapevole della sua idiozia, ma un idiota a tutto tondo. Nonostante questo, Trump ha colto una situazione reale. Parziale, certo, ma reale: negli Stati Uniti ci sono milioni di adulti che a partire dagli anni Ottanta hanno soltanto perso; a lungo hanno pensato che fosse tutta colpa loro, hanno sofferto in silenzio per due generazioni, poi è arrivato Trump, che gli ha permesso di vedere le cose diversamente: la colpa non era loro, ma del sistema. Può trattarsi di una minoranza della popolazione, ma sono persone reali, con sofferenze vere. Ora, considerato chi è veramente Trump, e considerate le sue nomine – gente che nella vita non ha voluto altro che arricchirsi a più non posso, i suoi elettori sono figure tragiche. È con questa consapevolezza che vivo questo passaggio. Un secondo elemento tragico è che Trump è così estremo, come uomo e come politico, che il partito Democratico può continuare a credere che stia facendo tutto il possibile, quanto di meglio possa fare, perché è l’elettorato che sbaglia, non il partito. La verità è che il Partito Democratico è un disastro, e l’elezione di Trump un pretesto per non ragionare sui tanti errori compiuti.
A seconda dei criteri con cui la si giudica, l’eredità di Obama appare diversa. Qualcuno sostiene che abbia tradito le ambiziose promesse iniziali, e che invece di un cambiamento radicale abbia offerto soltanto «capacità manageriali». Per altri, Obama è uno dei pochi presidenti che possa legittimamente rivendicare politiche che resteranno, a beneficio di tutti i cittadini statunitensi. Lei come giudica il lascito di Obama in politica interna?
Lo vedo come un presidente dimezzato. Metà del primo aspetto e metà del secondo. Ma oltre a questo è onesto, serio, un uomo integro al 100%. Il meglio che si possa desiderare sotto questo profilo. Il guaio è che è arrivato nel periodo storico sbagliato, un periodo nel quale un elemento fondamentale della democrazia liberale – la lealtà dell’opposizione – è venuto meno. Ora c’è solo la guerra politica, per uccidere l’avversario. Certo, la democrazia liberale non ha mai funzionato seguendo una norma ideale di reciproca lealtà, ma ci sono stati comunque dei periodi in cui una sorta di rispetto faceva parte del gioco. Tutto ciò è ormai perso. Giovane, idealista e privo di esperienza, Obama ha sprecato buona parte del primo mandato cercando di negoziare, guardando ai repubblicani come oppositori leali. Sbagliando. Ciò lo ha rallentato e innervosito. Ma sono d’accordo con gli storici della presidenza negli Usa per i quali Obama entra a pieno titolo negli annali come un grande presidente, anche solo per essere riuscito a dare vita al programma sanitario, il cosiddetto Obamacare. Prima di lui avevano provato a farlo molti presidenti (incluso Clinton, con la moglie Hillary che faceva il vero lavoro), fallendo. Lui ci è riuscito. E negli annali storici conta. Obama rimarrà, a differenza dei molti presidenti completamente dimenticati.
Per Barack Obama, il primo banco di prova è stato la crisi economica. L’esito del suo intervento è controverso: qualcuno sostiene che abbia salvato l’economia dal collasso, contrastato la disuguaglianza e riformato il settore finanziario; qualcun altro ritiene che non ci sia stato alcun cambiamento significativo, sistemico, nessuna redistribuzione di potere e risorse. Lei cosa ne pensa?
La mia opinione è che abbia veramente salvato l’economia dalla rovina e dal collasso, ma che non abbia combattuto la disuguaglianza di reddito e che non abbia riformato nel modo appropriato il settore finanziario. Ha creato milioni e milioni di posti di lavoro, favorendo questo processo in modi diversi. Ma a causa del sistema economico vigente la maggior parte di quei posti sono ad alto reddito o, al contrario, a basso reddito. Per il 60%, i posti di lavoro persi con la crisi erano lavori da classe media, mentre solo il 20% dei nuovi posti di lavoro sono dello stesso tipo. Sappiamo comunque che un presidente non può fare tutto.
Ci si aspettava comunque che facesse di più, che “approfittasse” della crisi per porre un argine alla finanza predatoria. Non è d’accordo?
Obama ha ereditato una fase finanziaria inedita. Il modo in cui l’ha gestita è uno degli aspetti più disastrosi della sua presidenza. La finanza non è mai stata il suo forte, ma la questione centrale è che la leadership governativa sui temi finanziari (la Federal Reserve – la nostra Banca centrale – e il Tesoro, il ministero delle Finanze) era nelle mani di gente che o veniva dal mondo dell’alta finanza o si affidava esclusivamente a quel che sostenevano gli esponenti dell’alta finanza. Di conseguenza, l’intera amministrazione Obama è finita nelle mani della finanza. Un disastro completo. L’unica nota positiva è che il ministro della Giustizia ha avuto il coraggio di citare in giudizio alcune aziende, ottenendo milioni di dollari in penali, anche se si tratta di “bruscolini” per quelle aziende. Al di là delle penali, però, nessuna azienda ha pagato veramente per la violazione delle leggi finanziarie, mentre milioni di persone venivano sbattute in prigione per reati minori. Il più grande difetto del sistema americano è questo. E Obama non se ne è occupato.
È bene ricordare inoltre che solo grazie ai giornalisti di Bloomberg News tutti noi – cittadini comuni e perfino lo stesso Obama, credo – abbiamo scoperto che la Federal Reserve ha trasferito segretamente 7 trilioni di dollari al sistema bancario globale, mentre il ramo legislativo del governo discuteva se trasferire o meno, come poi ha fatto, 325 miliardi di dollari. I cittadini pensavano che la cifra in gioco fosse quella. In realtà, alle nostre spalle venivano trasferiti 7 trilioni di dollari. Se aggiungiamo il quantitative easing – nuova moneta stampata – si tratta di altri 7 trilioni di dollari finiti alle banche. È un atto criminale, di una specie molto raffinata, ma comunque criminale. E Obama non ha fatto nulla.
E se dovesse indicare altri successi dell’amministrazione Obama, oltre alla riforma nel settore della sanità?
Una vittoria a cui la gente non ha prestato molta attenzione è quella sull’energia rinnovabile. Oggi negli Stati Uniti l’energia rinnovabile è più economica del carbone, un fatto che tra l’altro creerà problemi a Trump, che ha promesso tanto alle industrie del carbone. E le rinnovabili rappresentano una percentuale crescente nel consumo energetico. È un fatto importante. Obama ha poi ampliato in modo significativo la quantità di foreste e terreni protetti dallo sviluppo economico. Ha lavorato con attenzione sulle misure contro il cambiamento climatico, anche se sempre con molta prudenza, prendendo seriamente l’idea dell’opposizione leale, anche se l’opposizione non era affatto leale. Avrebbe potuto assumersi rischi maggiori. D’altronde, si è trattato di una vera e propria guerra. Più recentemente, è emerso anche un nuovo elemento. Obama ha concesso la clemenza a tantissime persone – soprattutto tra i poveri e i neri – che avevano ricevuto pesanti condanne, perfino a vita, per reati minori. Il sistema penale degli Stati Uniti ha la curiosa caratteristica per cui se non riesci a pagare la penale in soldi finisci in carcere. Obama dunque può vantare un record in termini della clemenza presidenziale. Finendo per concederla anche a Chelsea Manning.
In politica estera Obama ha oscillato tra droni e diplomazia. Consapevole dei limiti della potenza militare, ha portato a casa alcuni importanti successi diplomatici (Iran, Cuba, cambiamento climatico), ma ha fatto ampio ricorso, più dei suoi predecessori, a corpi di élite, droni, operazioni segrete. Come lo spiega? Dipende forse dalla natura diversa degli attuali conflitti?
Sulla scena internazionale Obama non si è mai trovato a suo agio. Tante promesse e pochi risultati. Il fatto è che le guerre di oggi sono complicate: cominci una guerra, come potere egemonico hai a che fare con combattenti irregolari, che continuano a dare battaglia a lungo, molto a lungo. Non c’è possibilità di arrivare a un armistizio. Un armistizio si può ottenere quando a combattersi a vicenda sono diversi poteri egemonici, che hanno anche il potere di dire “d’accordo, ora basta farci la guerra, torniamo alla vita normale”. Sia la prima che la seconda guerra mondiale sono durate 5 anni, e sono state concluse con un armistizio che non è piovuto dal cielo. Ma con i combattenti irregolari non c’è armistizio possibile. Le nuove guerre mostrano i limiti del potere e della superiorità militare convenzionali. Sono guerre asimmetriche, parziali, intermittenti e, appunto, senza fine.
Una delle tesi principali dei suoi libri è che i processi di globalizzazione abbiano riconfigurato gli equilibri delle democrazie liberali, producendo una concentrazione del potere nelle mani dell’esecutivo. Lo stesso Obama ha fatto ampio ricorso a questo tipo di potere, non solo in ambito militare. È lo stesso “sistema” ad aver facilitato l’affermazione di un candidato autoritario come Trump?
Il processo di concentrazione del potere decisionale nelle mani dell’esecutivo è cominciato negli anni Ottanta del Novecento, con l’introduzione degli strumenti per aprire le economie nazionali agli attori globali, la deregolamentazione e la privatizzazione. Ronald Reagan è stato il primo presidente ad assumere decisioni in modo unilaterale, prima che il Congresso potesse intromettersi. Ma quando deregolamenti e privatizzi non fai che indebolire il ramo legislativo, che perde molte funzioni di controllo e vigilanza. Ciò che prima faceva parte del settore pubblico, ed era regolato dal pubblico, oggi è privato, si muove fuori dalla sfera di controllo del pubblico. Il ramo legislativo può ancora legiferare, limitando, bloccando o impedendo alcune azioni, ma il quadro è cambiato. Obama ha ereditato una diversa configurazione del governo nazionale, e l’ha usata. Trump erediterà un quadro simile. È vero che i suoi poteri saranno “imbricati” all’interno di un sistema complesso, ma avrà comunque molte occasioni per combinare guai. Alcune sono esterne al sistema: le bugie a cui la gente comincia a credere. Altre sono interne: la sua totale ignoranza delle regole del gioco, un fatto di cui la leadership europea comincia a rendersi conto solo ora.