U na delle frasi-chiave del discorso di insediamento di Donald Trump, quella che più di tutte le altre gli è valsa il paragone con Bane, il cattivo della saga di Batman, è questa: “Toglieremo il potere a Washington e lo restituiremo a voi, la gente.” A pochi giorni dal suo insediamento, Trump ha già firmato un ordine esecutivo che impedisce l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di diversi paesi a maggioranza musulmana, bloccato tutti i fondi che finanziano le organizzazioni internazionali che si occupano di fornire alle donne un accesso sicuro all’aborto, intende far riprendere i lavori per la Dakota Access pipeline, l’oleodotto che i nativi americani delle tribù di Standing Rock hanno ostacolato con ogni mezzo, accampandosi sul terreno destinato alla costruzione nel gelo assoluto del North Dakota, e nel momento in cui scrivo si mormora che voglia abolire i provvedimenti anti-discriminatori nei confronti delle persone LGBTQ. Pochi giorni per capire chi non sono le persone a cui Trump vuole restituire il potere: nativi americani e donne, per cominciare, ma a giudicare dai cambiamenti apportati al sito della Casa Bianca il dubbio “privilegio” si estenderà anche ad ambientalisti, attivisti di Black Lives Matter e persone non etero o cisgender. Con il tempo si chiarirà che le uniche persone a cui Trump intende restituire il potere sono quelle che di potere ne avevano già molto.
Il concetto è già abbastanza chiaro nella mente di chi ha organizzato la Women’s March on Washington del 21 gennaio 2017, che da Washington si è estesa a tutto il territorio degli Stati Uniti, con marce in città grandi e piccole. In tutto, secondo il meticoloso conteggio compiuto da Jeremy Pressmann dell’Università del Connecticut ed Erica Chenoweth dell’Università di Denver, il numero di persone che è sceso in strada oscilla fra i 3,3 e i 4,6 milioni, contando anche le centinaia di marce “sorelle” in tutto il mondo. Chi non poteva essere a Washington quel giorno ma ha voluto far sentire la sua voce ha manifestato a New York, Chicago, Londra, Toronto, e anche in Antartide. Anche solo contando i manifestanti negli Stati Uniti, tuttavia, la marcia del 21 gennaio è già la più grande protesta di piazza della storia del paese.
A pochi giorni dall’insediamento si capisce chi non sono le persone a cui Trump vuole restituire il potere: nativi americani e donne, ma anche ambientalisti, attivisti di Black Lives Matter e persone non etero.
Sarebbe facile inquadrare il tutto in una protesta “Donne contro Trump”, che sappiamo benissimo come andrà a finire, almeno nel breve periodo. Assistito dal suo vicepresidente, l’antiabortista Mike Pence, Trump taglierà i fondi alle associazioni come Planned Parenthood, che in un paese dove la sanità pubblica non esiste forniscono alle donne le cure sanitarie di base per la salute riproduttiva e non. La cancellazione dell’Affordable Care Act (comunemente noto come Obamacare) lascerà milioni di persone senza copertura sanitaria. Al momento, l’amministrazione Trump non ha ancora chiarito con cosa rimpiazzerà il provvedimento del suo predecessore, ma la salute delle donne non sembra essere un punto rilevante nell’agenda del neopresidente, che in campagna elettorale si era spinto fino a paventare punizioni per quelle che abortiscono; e tra i nuovi giudici di cui si è fatto il nome per la Corte Suprema ce n’è almeno uno che si oppone a Roe vs Wade, la sentenza che autorizza l’interruzione di gravidanza negli Stati Uniti. I singoli Stati, oltretutto, sono liberi di imporre leggi restrittive di questo diritto; e Trump si è dichiarato favorevole al decentramento e al non-interventismo del governo federale su questioni di competenza degli Stati. In soldoni, essere donna, omosessuale o trans in California potrebbe essere molto più facile che in Texas o Wyoming.
Trump però è solo parte del problema. Già nel 2016 le marce femministe per la rivendicazione dei diritti essenziali si sono moltiplicate in tutto il mondo. Repeal The 8th in Irlanda, contro l’emendamento costituzionale che protegge la vita del feto anche a scapito di quella della madre, e che proibisce l’aborto in ogni sua forma; la Czarny Protest delle donne polacche, contro una legge che mira a ottenere lo stesso effetto; lo sciopero generale delle donne islandesi contro la disparità salariale; Ni una menos in Argentina, Cile, Messico e Perù contro la violenza sulle donne (e la manifestazione-specchio a Roma, quasi ignorata dai media nazionali nonostante le circa 200.000 presenze attirate). Sarebbe facile inquadrare anche le proteste delle americane in uno scontro frontale di genere. La realtà, a guardare con più attenzione le proteste degli ultimi tempi, ci racconta un’altra storia. La Women’s March, organizzata dalle donne – per lo più donne bianche, per lo più di area democratica – ha portato per le strade interi nuclei familiari, moltissimi uomini di ogni età, ragazzi e ragazze. I diritti delle donne sono solo parte del suo manifesto: chi è sceso in piazza lo ha fatto anche contro la politica protezionista di Trump, il famoso muro per dividere gli Stati Uniti dal Messico, la discriminazione contro i cittadini di religione musulmana e gli stranieri in generale, contro le persone trans e genderqueer. Lo ha fatto perché dentro la vittoria di Trump c’è molto più che la misoginia evidente, esibita e al contempo negata di un uomo che si è vantato di aver molestato diverse donne, pur continuando a sostenere – anche attraverso la moglie e la figlia – di essere un grande sostenitore della causa femminile.
Dentro il femminismo contemporaneo trovano casa donne non bianche, donne e uomini di fede musulmana, persone LGBTQI, disabili, nativi, tutti i non conformi.
La Women’s March segna un cambiamento epocale nella storia dei movimenti per i diritti civili, non solo americani, perché segnala il momento in cui le donne smettono di marciare solo per se stesse, ma assumono la guida della protesta accorpando le proprie istanze ad altre, più generali. Una delle parole che si sono incontrate con più frequenza nei giorni successivi alla marcia è intersectional, “intersezionale”: il femminismo come lo conosciamo, basato sull’esperienza e sulle rivendicazioni delle donne bianche occidentali, non è più sufficiente né adatto a fare la rivoluzione. Dentro il femminismo contemporaneo, abituato a mutare con rapidità nel corso dei decenni e anche a convivere con correnti di pensiero diverse, trovano casa le donne non bianche, delle donne e uomini di fede musulmana, delle persone LGBTQI, dei disabili, dei nativi, di tutti i non conformi. L’obiettivo finale, la parità di diritti e di scelta per tutti e per tutte nel rispetto delle diversità individuali, è mutato: non riguarda più solo le ragazze borghesi che si vedevano impedito l’accesso agli studi superiori, scippate le idee e le scoperte, penalizzato il percorso di carriera. Riguarda tutti coloro che sono perdenti in faccia alla norma sociale, che è maschio, cisgender, eterosessuale o comunque disponibile a collaborare. Perché l’ultimo scoglio rimangono sempre gli alleati del sistema, e in particolare le donne che si mettono al suo servizio: la loro acquiescenza o fattiva collaborazione acquisisce un peso diverso. Se va bene a lei, che è donna, va bene a tutte: ma la misoginia è una cultura, ed è una cultura introiettata anche e soprattutto dalle donne.
La società italiana è tenuta in piedi da una forma molto aggressiva di sessismo benevolo, quello che identifica le donne come la parte migliore e più sana della società, a patto che si prestino a essere sempre e soltanto comprimarie, angeli del focolare o grandi donne dietro grandi uomini: la perpetuazione di questa rigida divisione di ruoli di genere è alla base del nostro welfare. Finché le donne continueranno a trovare normale rinunciare al lavoro per la maternità e si faranno carico della cura dei parenti anziani, non sarà necessario implementare serie politiche di promozione delle pari opportunità, sostegno sociale e assistenza alle famiglie.
Quello che sta cambiando è la disponibilità e la capacità delle donne di assumere il comando, farsi portavoci, parlare per tutti e non solo per sé.
In questo contesto culturale le donne esistono in un mondo a parte, in cui il loro contributo intellettuale è rivolto esclusivamente al dialogo con altre donne. È forse per questo che la più grande manifestazione di piazza della storia degli Stati Uniti d’America (lo ripetiamo, in caso fosse sfuggito) è stata solo la terza o quarta notizia dei TG nazionali, è scivolata in taglio basso sui siti delle testate online ed è stata trattata con sufficienza anche da intellettuali e giornalisti di rilievo. Enrico Mentana, durante un intervento al programma del pomeriggio di Rai 3 TV Talk, ha parlato della Women’s March come della marcia di chi non si rassegna ad aver perso elezioni democratiche. Lo stesso giorno, durante Le parole della settimana (condotto da Massimo Gramellini), Enrico Bertolino e Massimo Giannini hanno commentato la situazione americana deplorando la mancanza di proteste di piazza. A nulla è valsa la puntualizzazione di Geppy Cucciari che in effetti qualcuno era sceso in piazza: erano le donne. “Gli uomini avevano Pilates” ha chiosato Bertolino. Una manifestazione senza uomini – che poi c’erano; ma non erano, per una volta, l’anima del corteo – non vale come protesta di piazza.
Eppure è indiscutibile: le donne stanno uscendo dal loro recinto e stanno assumendo posizioni di leadership per cause che trascendono e superano la questione femminile. Le proteste di Standing Rock sono state organizzate e guidate dalle donne native: secondo quanto raccontano i manifestanti, una leggenda dei Lakota predice l’avvento di un “serpente nero” che divorerà la terra dall’interno. L’accampamento di Sacred Stones nasce da un gruppo di preghiera delle donne native, che si erano radunate per proteggere la purezza dell’acqua, e ha raccolto migliaia di adesioni in pochissimo tempo (fra cui quella di Shailene Woodley, protagonista di The Descendants insieme a George Clooney, che è stata arrestata sul sito della protesta). Qui il femminismo moderno non c’entra: la protesta ha le sue radici nella tradizione più profonda delle tribù native, quella che lega le donne alla terra e alla natura. Quello che sta cambiando è la disponibilità e la capacità delle donne di assumere il comando, farsi portavoci, parlare per tutti e non solo per sé, e finalmente coinvolgere anche gli uomini in un discorso che non può più essere limitato a un solo problema di giustizia sociale, ma che punta a mettere da parte le differenze per stabilire dei punti fermi. “The Future Is Female”, diceva una maglietta femminista degli anni ‘70: sono passati quarant’anni, il futuro è diventato presente. Ed è più femmina che mai.