D ai vecchi depositi della Glavna železnička stanica di Belgrado, la vecchia stazione ferroviaria centrale, escono silenziose nuvole cariche di grigio scuro. Dentro gli stanzoni enormi si sente odore di cenere e plastica bruciata, mentre decine di ragazzi, il volto distrutto dalla stanchezza, si abbracciano avvolti da una montagna di coperte, accartocciati intorno ai fuochi di fortuna della notte: alle 23:30 il termometro segna quattordici gradi sotto zero. È buio intorno, ma qui, fra vecchi schedari ammaccati e magliette troppo fine, stese fra pilastri di cemento in briciole, lo è più che da qualsiasi altra parte. Ogni centimetro odora di abbandono. Il fumo denso spacca gli occhi e riempie la pelle un pezzo dopo l’altro, insieme al sapore di ferro arrugginito e calce che prende alla gola.
Dentro questi capannoni malandati si ammassano 1200 profughi in fuga da guerra, povertà e persecuzioni etniche. Sono bloccati qui dalla scorsa primavera, quando Croazia e Ungheria, in accordo con gli altri paesi dell’Unione Europea, hanno deciso di sigillare definitivamente i confini, bloccando l’ondata che per mesi ha percorso la cosiddetta rotta balcanica con la speranza di arrivare in Germania. Il freddo schiaccia gli uni contro gli altri. Alcuni se ne stanno immobili, altri cercano invece di accendere l’ennesimo fuoco di fortuna, alimentato con gli ultimi rimasugli di immondizia rimasti. Le fiamme partono alte, ma è solo un’illusione che dura qualche secondo, il tempo che il cartone bruci ed è tutto finito. Resta un fumo forte e pesante, che odora di metallo e fango che rende l’aria irrespirabile. Le condizioni generali sono spaventose. I ragazzi vivono stipati fra i lunghi androni di questi vecchi depositi malmessi senza acqua, né corrente né potabile, senza elettricità, senza servizi igienici. Ci si lava tirandosi addosso pentole di pioggia e neve sciolta.
Un vecchio sgabuzzino pieno di pezzi di vetro e calcinacci viene utilizzato come bagno di fortuna per chi non riesce a uscire nel gelo della notte. Si mangia solo a pranzo, una volta al giorno: due ore in coda per un piatto di zuppa dentro una ciotola di plastica e due fette di pane scuro. I ragazzi bloccati a Belgrado arrivano, quasi tutti, da Pakistan e Afghanistan. Molti di loro sono minori non accompagnati, fra i dieci e i diciotto anni, rimasti letteralmente confinati nel limbo del territorio serbo: non possono tornare indietro, nei loro paesi d’origine, non vogliono e non possono restare in Serbia, dove non hanno alcuna prospettiva, non possono continuare ad andare avanti. “Vuoi davvero che ti racconti tutto il mio viaggio? Guarda che è lunghissimo – a parlare in un buon inglese è Usman, un ragazzino tredicenne di Awbeh, un villaggio rurale a un centinaio di chilometri da Herat, nel Nord-Ovest dell’Afghanistan. Intanto stiamo stretti intorno al fuoco. Sulla brace, dentro lattine di Sprite ripulite, sta bollendo l’acqua per il tè – “un tè buonissimo, che arriva direttamente dalle nostre parti” – ci tiene a precisare.
Abbiamo attraversato il confine con l’Iran dalle campagne intorno a Taybad e poi ci siamo messi in rotta verso la Turchia. L’inizio è stato il momento più duro. Io nella mia vita al massimo sono andato a Herat, che sta a due ore da casa mia e già mi sembrava di dover fare il giro del mondo per arrivarci. Non puoi immaginare quanto sia grande l’Iran. Ogni volta, dopo un giorno in cui avevamo fatto strada, pensavamo di essere ormai vicini alla frontiera turca, e invece no, ci fermavamo e ci dicevano che mancavano ancora mille chilometri. Incredibile. Una volta arrivati in Turchia è diventato più semplice, perché riuscivamo a prendere gli autobus più facilmente e non dovevamo camminare così tanto a piedi. Nel frattempo però avevo perso il conto dei giorni e mi mancavano i miei genitori e i miei fratelli. Il primo posto in cui ci siamo fermati per più di due giorni è stato Bodrum.Io non sapevo dove eravamo, anche adesso, non ho in testa una mappa, so soltanto che devo andare avanti, ma non ti saprei dire quanta strada manca o dove ci troviamo, se mi fai vedere una cartina geografica. A Bodrum ci siamo fermati perché abbiamo capito che da lì avremmo potuto prendere una barca verso la Grecia e anche se ci hanno spiegato che non era facile, in quel momento abbiamo pensato che sarebbe stata la maniera migliore per raggiungere le coste greche, visto che tutti dicevano che il confine di terra era bloccato. Dopo una settimana ci hanno detto che di notte si partiva, il passaggio costava millecinquecento euro. Io i soldi che mi ha dato mio padre li tengo dentro le scarpe, e per questo non me le tolgo mai: lo fanno in tanti qui. Ci hanno messo su un gommone, stretti stretti, e siamo partiti. Avevo sentito tante storie spaventose sulla traversata, ma a noi è andata bene, penso che sono le preghiere di mia madre che ci hanno aiutato. Siamo arrivati a Kos e allora ho cominciato a non capire più molto bene perché i miei compagni di viaggio erano tutti contenti, dicevano che eravamo arrivati in Europa e baciavano l’asfalto e l’ho baciato pure io.
Però poi sono cominciati i problemi. Prima ci hanno messo in un centro sull’isola, poi ci hanno portato via e siamo stati due mesi ad Atene. Ho aspettato un po’, ma dopo qualche giorno sono partito con altri ragazzi e a piedi abbiamo cominciato a camminare verso Nord. Prima abbiamo attraversato il confine con la Macedonia, poi quello con la Serbia e siamo arrivati sino all’Ungheria. Sempre a piedi, ci saranno voluti tre mesi almeno, sono milleduecento chilometri. E dopo tutto questo ci hanno detto che in Ungheria non si poteva entrare:. io allora ho pensato che tornavo a casa, perché non ce la facevo più. Ho pensato che in Europa non ci volevo andare più. Con calma mi sono messo a ragionare, e io lo so che mio padre e mia madre hanno fatto tutto quello che potevano per mandarmi qui, così ho deciso di rientrare verso Belgrado, dove girava voce che c’era questa grande comunità che si era stabilita in questi depositi che vedi tu adesso.
Nel paese balcanico, oltre ai 1.200 stipati nei depositi della stazione, ci sono in questo momento altri dodicimila migranti, ospitati nelle strutture temporanee del governo. La polizia serba, come chiarito anche da una nota ufficiale rilasciata dalle autorità macedoni lo scorso 16 novembre, starebbe ormai portando avanti da settimane, attraverso il posto di frontiera di Presevo (adiacente a uno dei centri di accoglienza) un piano sistematico di espulsioni non ufficiali verso la Macedonia, al ritmo di settanta profughi al giorno.
Anche per questo solo un numero minimo di migranti fa richiesta di asilo politico in Serbia, che anche volendo, una vera legge sull’asilo politico non ce l’ha. I funzionari dedicati alla valutazione della pratiche di asilo sono, per tutto il Paese, solo cinque, a fronte di circa undicimila richieste, e parlano esclusivamente serbo, senza potersi avvalere di traduttori. Anche per questo nel 2015 la Serbia è riuscita a valutare appena settantaquattro richieste di asilo politico, sulle oltre diecimila pervenute, cinquantasette delle quali sono peraltro state rifiutate.
Inoltre, secondo quanto confermato da Ivan Miskovic, responsabile comunicazione del Commissariato per i rifugiati e le migrazioni del governo serbo, l’UNHCR e i rappresentanti dell’Unione Europea hanno deciso, ormai da diversi mesi, di fornire delle indicazioni generiche ai funzionari di riferimento affinché tutti i profughi provenienti da Afghanistan e Pakistan vengano considerati come migranti economici, e non come rifugiati. È così che in pochi mesi Belgrado e le strade che si intrecciano intorno alla vecchia stazione sono diventate un crocevia di fughe spezzate, terra di conquista per trafficanti e criminali che sfruttando il desiderio dei ragazzi di continuare il loro viaggio, arrivano a chiedere fino a mille euro per dei percorsi in macchina da duecento chilometri che ne costerebbero venticinque e che, soprattutto, non serviranno a nulla, se non ad acuire la disperazione.
Non ho problemi con i serbi. Sono gentili e ci trattano bene. Se ci offrissero un posto nel centro di Krnjaca, qui a Belgrado, io andrei di corsa – racconta Shabir, un ragazzino afghano di appena quindici anni – ma quel campo ormai è pieno e loro ci vogliono far tornare a Presevo, oppure spostarci a Subotica, verso Nord. Io però a Presevo non ci torno. Ci sono stato due giorni e non lo consiglio a nessuno: si sta quasi peggio che qui. Adesso arrivano anche voci strane, si parla di ragazzi deportati di notte in territorio macedone, senza nessuna tutela legale. Sono in viaggio da febbraio, ho fatto così tanta strada per arrivare fino a qui: preferisco morire piuttosto che rientrare in Macedonia.
Nel buio della notte, i capannoni sono pieni di cenere e di occhi che si guardano fissi. L’acqua bollente viene travasata in piccoli bicchieri di latta. Lentamente ci si passa il filtro per il té. I ragazzi tirano fuori dei pezzi di pane duro, messo da parte giorno dopo giorno durante la distribuzione del pranzo. Si conversa del più e del meno, soprattutto di casa che è lontana e non sapresti più nemmeno come ritornarci. Si cerca di superare un’altra notte.