M atteo Garrone è uno dei registi italiani più apprezzati, sia qui che all’estero e, assieme a Paolo Sorrentino è un po’ il portabandiera di questa nuova generazione di cineasti. Forse il più dotato dal punto di vista autorale, con una grande sensibilità nel racconto che si esplicita anche nell’accurata costruzione dei personaggi. I personaggi, nel cinema d’autore, sono un po’ il crocevia delle tante creatività che servono a realizzare un film: scrittura, certo; regia, sicuramente; ma ovviamente e prima di tutto gli attori con le loro facce, le loro voci, i loro corpi. Da questo punto di vista Matteo Garrone ha sempre compiuto scelte nette e cariche di un grande potenziale evocativo e, in più di un’occasione, si è avvalso di attori che frequentano la scena teatrale contemporanea. Non è un caso. Per sua stessa ammissione il teatro, anche quello più sperimentale e fuori schema, è stato un elemento importante della sua formazione. Una galleria che comprende nomi come quelli di Leo De Berardinis, Carmelo Bene, Giorgio Barberio Corsetti, ma anche Simone Carella e Danio Manfredini. Nomi simbolo di più di una stagione teatrale ma che, con l’eccezione di Bene, non sono necessariamente conosciuti dal grande pubblico.
Il cinema, che è un’arte popolare, riesce ancora a essere di massa senza snaturare la sua carica poetica, cosa che oggi al teatro forse riesce con maggiore difficoltà. Il fascino che conserva la scena teatrale, tuttavia, sta forse proprio in questa sua natura “cantinara” – traduzione volutamente infedele di underground – da cui scaturisce una libertà compositiva irregolare. Se teatro e cinema non hanno mai smesso di essere in un rapporto osmotico, circostanza solo in parte oscurata dal fatto che oggi il teatro fa meno “notizia” di un tempo, Matteo Garrone è andato a pescare in una zona incandescente della scena, collaborando con attori del calibro di Toni Servillo e Michaela Cescon, ma anche Alfonso Santagata e Aniello Arena (attore feticcio di Armando Punzo e della sua Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra).
Il legame tra il regista romano e questo pezzo di mondo teatrale ruota attorno alla figura del padre. Nico Garrone, critico teatrale per il quotidiano La Repubblica, autore di documentari e grande animatore culturale, scomparso nel 2009, è stato parte integrante – dal punto di vista della scrittura critica – di quella piccola rivoluzione culturale, anarchica e forse un po’ “cialtrona”, che fu la stagione delle cosiddette cantine romane. Le raccontò anche in un documentario in tre puntate, oggi difficile da trovare ma considerato leggendario tra gli addetti ai lavori, prodotto dalla Rai di Angelo Guglielmi e intitolato L’Altro Teatro. Vi compaiono artisti come De Berardinis, Lisi Natoli, Memè Perlini e Rossella Or. Nico Garrone aveva una curiosità irrefrenabile, che lo portò nel tempo ad indagare diverse generazioni di teatranti: l’ultima, quella dei primi anni del Duemila, l’aveva ribattezzata “non-scuola romana”, e oggi alcuni di quegli artisti – come Lucia Calamaro, Daria Deflorian, Daniele Timpano, Andrea Cosentino – sono tra gli autori più interessanti del teatro di questi anni. Nella loro emersione dall’underground cantinaro ai palcoscenici ufficiali, sono in molti gli artisti che devono qualcosa alla penna e all’intelligenza di Nico Garrone.
Matteo Garrone ha conosciuto il teatro contemporaneo attraverso la passione e lo sguardo del padre, che seguiva nei teatri ufficiali e nella galassia dei teatri off che oggi non esistono nemmeno più. Una galassia disordinata ed effimera che era un po’ anche l’humus creativo di una città come Roma – oggi culturalmente più cupa – che proprio nei margini manifestava la sua effervescenza. La pellicola che meglio testimonia questo punto di contatto tra mondi e generazioni è Estate romana, del 2000. Un film cerniera nel percorso artistico di Garrone, ancora artigianale, realizzato poco prima del successo che lo avrebbe proiettato verso un cinema più “industriale”.
Lo scorso novembre abbiamo avuto l’occasione di mettere assieme questi due lavori, grazie ad uno spazio che Riccione Teatro ha dedicato ai due lavori in occasione del TTV (una rassegna dedicata al territorio di confine tra teatri, cinema e televisione). Grazie alla presenza di Maria Bosio, che ha curato la regia de L’Altro Teatro e ne è anche autrice assieme a Nico Garrone e a Beppe Bartolucci, abbiamo rievocato l’atmosfera in cui è stato realizzato il documentario, che traspare anche nel girato. Ad esempio nella scena in cui Rossella Or – protagonista, vent’anni dopo, di Estate romana – si lancia in delle spaccate senza mai spegnere la sigaretta; quella dove Piero Panza, mentre si fa il bagno, descrive i teatranti dell’epoca come degli Ugolino seppelliti dentro le loro cantine intenti a mangiarsi il cranio a vicenda; o infine quella dove Ulisse Benedetti, animatore di un luogo mitico come il Beat 72, si fa accompagnare da Nico a vendere prodotti ai parrucchieri perché col solo teatro non riesce a sbarcare il lunario.
Nella conversazione pubblica con Matteo Garrone, abbiamo parlato dei punti di contatto tra il suo mondo artistico e quello del padre, che sono anche un particolare ponte tra il cinema e il teatro d’autore.
Che rapporto hai con il documentario di tuo padre?
Come sei arrivato a pensare, anni dopo, di realizzare un film con alcuni dei protagonisti di quel lavoro?
Estate romana è legato in maniera strettissima a L’Altro teatro perché Rossella, la protagonista, è una delle protagoniste della stagione delle cantine romane, Rossella Or. Il film racconta di lei che torna, vent’anni dopo, e cerca di riallacciare i contatti con i suoi compagni che, come lei, sono quasi dei reduci di quel periodo, “reduci” di una guerra artistica. La Roma che fa da sfondo è la Roma che si avvicinava al Giubileo del 2000 – anno in cui è uscito il film, ma le riprese sono del 1999. È una Roma impacchettata, in un certo senso invisibile. Quell’anno mi ricordo che chi faceva cinema si lamentava dei lavori e delle impalcature, perché non sapeva come girare e come riprendere la città. Io, invece, andavo a cercare proprio le impalcature, che per me erano una scenografia naturale, che dava quel senso di precarietà che caratterizzava anche la protagonista della storia.
Quindi L’Altro teatro è centrale nell’ideazione di Estate romana. Ma c’è un altro punto di partenza altrettanto centrale, e nessuno lo sa perché è difficile capirlo guardando il film. Si tratta di Bartleby lo scrivano, il racconto di Melville. È un racconto meraviglioso e chiunque lo abbia letto sa che è un capolavoro assoluto.
È vero, si tratta di un racconto amato da molti, per la sua carica simbolica ma anche per la luce particolare che sprigiona il protagonista. In effetti in Estate Romana non si vede un collegamento esplicito con Melville. In che senso è stato un punto di partenza?
È anche per episodi come questo che considero Estate romana come un mio punto di riferimento. Perché si trattava di un film completamente libero, con una freschezza che poi è stato difficile mantenere nei film successivi – anche perché una cosa è girare con sei o sette amici e un’altra è coordinare cento persone di troupe, in un contesto lavorativo dove tutto è più strutturato. Riuscire a ritrovare oggi quella libertà che avevo allora è per me una sorta di riferimento, anche adesso. Per me si tratta di un film fondamentale, sia perché ha uno stretto legame con mio padre e col suo mondo (che è stato, a sua volta, parte della mia formazione); sia anche perché è un film con un andamento narrativo particolare. Mentre i film successivi hanno più una struttura da romanzo, Estate romana è un po’ come un poema. Magari un poemetto, persino sgrammaticato, che io considero un film della mia formazione, chiaramente, ma che possiede una grandissima libertà.
Ci sono facce particolari in questo film, oltre a Rossella. Simone Carella, che è scomparso da poco ed è stato uno degli spiriti più liberi e folli di quella stagione, e anche Victor Cavallo. Rispetto al documentario sono passati vent’anni, dal 1980 al 2000. Cos’è cambiato?
E poi c’è un altro aspetto che mi lega molto a Estate romana. Si tratta di un film che appartiene a un periodo in cui cercavo di mettere nei miei lavori degli elementi di commedia. Devo dire che, in realtà, ho sempre cercato di mettere elementi di commedia nel mio cinema, il problema è che non non m’è mai riuscito.