L a cittadina di Alta, quasi ventimila anime nel nord della Norvegia, è più vicina alla Siberia di quanto non lo sia alla Spagna. “La cartografia eurocentrica è una gran fregatura”, scrive Matteo Meschiari in Artico Nero, uscito a ridosso dell’inverno per ExOrma. Intorno a vaste distese di ghiaccio, nell’estremo settentrione della Terra, in regioni che sembrano essere confinate nel sogno di un biancore accecante si sono avvicendate popolazioni come Sami, Kalaalit, Ciucki, Inughuit, Ahiarmiut, Labradormiut, Alutiiq, Evenchi, Orok, Nenet: popolazioni scomparse, sopraffatte da invasori di ogni provenienza. A loro, e ai presagi che le loro storie contengono, è dedicato Artico nero. Meschiari, antropologo e scrittore (già pubblicato da Sellerio e Quodlibet) racconta sette storie che si sviluppano sulla corona del Polo Nord, sul contorno della geografia artica, sette vicende sospese tra saggio antropologico e racconto.
La circumnavigazione narrativa di Meschiari parte da Tarko-Sale, un municipio piantato nel cuore della Siberia, distretto Jamalia-Nenec. In Russia convivono quasi duecento etnie e qui, in questa terra di mezzo che si estende nella tundra, abitano i Nenet, uno dei popoli dei ghiacci che affiorano in Artico nero, “zone di risonanza tra Occidente e Oriente, non spettacoli esotici ma spettri-spettatori da cui forse veniamo osservati”. Si stima che i nenezi attualmente presenti in Russia siano poco più di quarantamila. Ai tempi dell’Unione Sovietica combatterono nella guerra d’Inverno e furono schierati contro la Finlandia, racconta Meschiari, con brigate da slitta. “Ma il punto è un altro. Anche cinquant’anni dopo quei fatti, i Nenet non avevano chiaro perché fossero andati in guerra. Ricordavano solo le tensioni con gli ufficiali, di cui non capivano la lingua, e i continui maltrattamenti di uomini e renne”.
Sul simbolo del distretto sono disegnati due orsi polari, una corona e una renna. Nell’estate del 2016, proprio dal cadavere di una renna morta settantacinque anni prima e seppellita nel permafrost (il suolo perennemente congelato a nord di ogni cosa) è riemersa l’antrace, il carbonchio. Effetti del surriscaldamento (luglio 2016: trenta gradi registrati nell’Artico russo). Altre renne hanno pascolato nel terreno infetto, poi sono state macellate, mangiate, e settantadue persone sono finite in ospedale. Un bambino è morto. Pandemia boreale, con duemila renne morte, inizialmente bruciate e dopo confinate in un cimitero che dovrà restare inviolato per decenni. Oltre alle conseguenze immediate, ci sono quelle economiche, il panico nel distretto di Jamalia che esporta carne di renna in Germania e nei paesi scandinavi.
Artico nero è una parabola ghiacciata attraverso le sofferenze del nostro pianeta e dei suoi abitanti più bistrattati dalla storia: è un libro che non manca di suggestioni apocalittiche
Artico nero procede per itinerari ragionati e stacchi improvvisi, salti dentro e fuori la geografia, una geografia aliena gonfiata da storie parzialmente occulte, seppellite sotto strati di neve e ghiaccio. Il 21 gennaio 1968, in seguito a un incidente, un aereo militare con quattro bombe nucleari si schianta sul ghiaccio di Thule, in Groenlandia. Nei mesi successivi parte l’opera di bonifica: vengono ritagliati due milioni di metri cubi di ghiaccio contaminato. Sull’ultimo cilindro radioattivo compare la scritta That’s All Folks. Con questo tocco di humour nero, sembra un racconto di Kurt Vonnegut. Morirono 450 operai danesi sui 1500 impiegati per ripulire l’area.
Altra longitudine, stesse altezze. Uno degli ultimi atti formalizzati da Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti, di concerto con il primo ministro canadese Justin Trudeau, è stato il divieto di continuare a trivellare al largo delle coste artiche, tra Alaska e mar di Beaufort. Nelle intenzioni, una tutela a garanzia di ecosistema e popolazioni locali. Le autorità canadesi non sono sempre state così graziose. Ecco un episodio ricordato da Meschiari. Nel 1953 un gruppo di famiglie Inuit, stanziate nel Nord del Quebec, vennero ricollocate duemila chilometri più su, a Corwallis Island e Ellesmere, la più settentrionale delle isole artiche canadesi. Nelle intenzioni del governo, un modo di salvare una cultura: più sottilmente, la comunità inuit sarebbe stata una bandierina da issare nel ghiaccio, tra terreni contesi nel pieno della Guerra Fredda. Gli inuit cacciavano caribou e si ritrovarono a cacciare beluga; non erano abituati al buio che da quelle parti si protrae per sei mesi. Gli dissero che se dopo due anni l’esperimento non fosse stato positivo, sarebbero stati riportati a casa. Promessa non mantenuta.
Proseguendo il suo itinerario, Meschiari arriva in Jacuzia e quindi a Uėlen, l’ultimo avamposto russo prima dello stretto di Bering, la terra dei ciukci. Artico nero è una parabola ghiacciata attraverso le sofferenze del nostro pianeta e dei suoi abitanti più bistrattati dalla storia (nella distinzione antropologico-culturale tra popoli nomadi e sedentari, laddove le società più rigidamente gerarchiche, strutturate, hanno la meglio) e non manca di suggestioni apocalittiche. Tuttavia, quello che è in qualche modo commovente, in Meschiari, è l’interesse per ogni singola unità umana in questo gigantesco scacchiere, mosaico, caos, oceano, scegliete la parola adatta, che è la Terra.