I l 15 settembre 2016, durante un Q&A sul film ispirato alla propria vita, Edward Snowden pronunciò alcune frasi interessanti. Tre anni prima, Snowden aveva deciso di diffondere dei documenti con cui dimostrava l’eccesso di sorveglianza da parte del governo USA sui propri cittadini. Snowden difese il proprio gesto — che lo ha portato a cercare asilo in Russia — spiegando che a suo avviso la privacy è “la sorgente di ogni diritto”. E contro l’argomento per cui chi non ha nulla da nascondere non deve temere alcuna intrusione nel proprio spazio, replicò che è come “dire che non ci si interessa della libertà d’espressione perché non si ha nulla da dire”. In conclusione, “la privacy non c’entra con ciò che nascondiamo. La privacy c’entra con ciò che proteggiamo. Ciò che si è”. Ecco il punto. La difesa della privacy ha a che vedere con ciò che siamo. Ma cos’è esattamente la privacy?
La distinzione fra sfera pubblica e privata è antica almeno quanto Aristotele, ma percorre la riflessione politica occidentale in maniera carsica: di fronte ai grandi sistemi politici e teologici, lo spazio concettuale dedicato al singolo e alla proprietà delle sue informazioni è emerso molto lentamente. Il primo trattamento completo risale a un saggio di Warren e Brandeis del 1890 (The Right of Privacy); e solo con il XX secolo il tema assume un’identità abbastanza definita, fino a diventare di particolare attualità negli ultimi decenni. La ragione è scontata: a un aumento senza precedenti della produzione e diffusione di dati deve corrispondere una più profonda analisi del modo in cui questi dati sono organizzati e protetti.
Possiamo dunque definire la privacy come la possibilità di controllare liberamente quali delle nostre informazioni personali possono e devono rimanere nascoste all’occhio pubblico: secondo l’elegante formula di Introna e Pouloudi, è libertà dal giudizio altrui. C’è una fetta di noi stessi — di ciò che pensiamo, delle nostre parole, dei nostri atti — che decidiamo di tenere al riparo per ragioni che non siamo tenuti a rendere pubbliche. Certo, questo principio può essere usato per difendere scopi criminosi, o mascherare il ricorso all’omertà, o ancora per dissimulare la più odiosa delle ipocrisie. Ma piaccia o meno, senza tale diritto avremmo una società della trasparenza assoluta, e dunque — per forza di cose — di un conformismo assoluto: l’anticamera del totalitarismo.
Quindi tutti, a livello superficiale, intuiamo perché la difesa della privacy è importante nelle nostre vite, e quanti rischi comporta l’esposizione dei dati personali. (Uno dei ritornelli più frequenti con gli amici è: “Se mi hackerano la posta inviata di Gmail, sono finito”). Eppure c’è una questione più profonda: questo diritto — al di là dei pettegolezzi o delle piccole malignità che ci scambiamo su base quotidiana — deve essere considerato assolutamente fondamentale, o è soltanto derivativo rispetto ad altri? La domanda non è affatto scontata, e credo che la risposta più intelligente venga da un paper di Luciano Floridi pubblicato sull’ultimo numero di Philosophy&Technology (ma già anticipato al Wired Next Fest del settembre scorso).
Floridi, professore di Philosophy and Ethics of Information all’Università di Oxford e membro del Google Advisory Council, è uno dei teorici più attenti della società dell’informazione. Il suo articolo — dal titolo On Human Dignity as a Foundation for the Right to Privacy — procura una base filosofica, ma anche concretissima, al problema in questione. Floridi parte dal testo approvato dal Parlamento Europeo sulla Protezione dei Dati, del 14 aprile 2016. Nell’articolo 88 appare il termine “dignità umana” in relazione alla tutela dei dati personali dell’individuo. Benché lanciata di sfuggita, per Floridi questa intuizione è molto preziosa: è la dignità umana a fare da base per qualsiasi teoria della privacy.
Se è vero che i dati appartengono a una persona come un’estensione del suo corpo e non come una proprietà (“i miei occhi” invece de “i miei occhiali”), allora tali dati vanno difesi perché “hanno un ruolo fondamentale rispetto a chi sono e chi posso diventare”. Ma così il problema sembra solo rilanciato. Che cos’è la dignità umana? La dignità umana è il risultato di un’antropologia filosofica, a sua volta basata sull’idea che l’umanità sia un’eccezione — qualcosa di diverso da ogni altro essere. Nel corso della storia si sono avvicendate almeno quattro tesi volte a dare fondamento a tale eccezionalismo: il controllo su di sé (filosofia greca e romana), somiglianza di Dio (filosofia cristiana), autonomia razionale (Illuminismo), e riconoscimento del valore altrui (età contemporanea).
Floridi però contesta a queste immagini un antropocentrismo ormai inaccettabile. Se siamo così particolari, non è per ragioni di centralità del cosmo, bensì per un dettaglio opposto: una sorta di eccentricità. Siamo una specie che non vive nell’ora, ma “distaccata e in spazi semantici”: una specie naturale eppure anomala che desidera, dubita, fallisce, e si costruisce passo dopo passo. Il termine usato da Floridi per incapsulare questa lettura dell’umanità è polytropos — la parola che descrive Ulisse all’inizio dell’Odissea. Un essere multiforme, ma anche aperto a mille tragitti:
Come viaggiatori, siamo nelle mani di chi ci ospita: gli altri, la natura, il mondo fisico, ma anche la società, la cultura, il mondo che costruiamo, non solo il mondo che troviamo. Nessuno di noi è mai al centro: ogni individuo viaggia incessantemente da centro a centro. E quindi dovremmo godere del diritto alla protezione e all’ospitalità che accoglie gli ospiti. […] Ogni tecnologia o politica che tenda a chiudere o plasmare tale apertura, rischia di disumanizzarci, non diversamente dagli ospiti di Circe, a quali è vietato di lasciare la sua isola.
Questa visione “antropo-eccentrica” genera a sua volta una difesa quasi automatica della privacy. Dato che siamo esseri autonomi e in costante viaggio, abbiamo il diritto di proteggere ciò che ci rende tali, e il dovere di fare altrettanto con gli altri. Qualunque danno arrecato al “software aperto” che siamo, qualsiasi diminuzione della possibilità di lavorare privatamente su di sé, è un’offesa. E di più. Al centro del teatro filosofico di Floridi si pone così non il singolo individuo, bensì la relazione: il rispetto reciproco per la privacy dell’altro non conduce al solipsismo, ma a una società della cura. Oggi la tesi è ancora più corroborata. Ognuno di noi produce e custodisce sempre più dati: dalle innumerevoli fotografie di viaggi o cibi o tramonti alle email ai messaggi scritti e vocali. Il racconto di sé, in costante evoluzione, passa da questo accumulo e dalla sua tutela; del resto, per Floridi l’identità personale ha una natura strettamente informazionale. Nelle sue parole:
Acquisire, modificare, salvare, conservare, gestire i propri ricordi per il consumo personale e pubblico diventerà sempre più importante non solo in termini di tutela della privacy informativa, ma anche in termini di costruzione della propria identità personale. Lo stesso vale per le interazioni, in un mondo dove il divario tra online e offline si sta erodendo.
L’idea non è del tutto nuova: si può rintracciare in un articolo di Joseph Kupfer del 1987 — dove si sottolinea che le barriere individuali consentono di formare un concetto più profondo di sé — e probabilmente ancora prima. Ma poco importa. Floridi aggiorna e sistematizza con chiarezza questo gruppo di spunti, aggiornandolo all’età matura dell’informazione. La privacy è connessa in modo sostanziale e non secondario a un gruppo di altri concetti, tutti legati alla creazione di sé: l’autonomia e la libertà individuale innanzitutto.
E qui ho pensato a Isaiah Berlin. Nel celebre saggio Due concetti di libertà, Berlin distingue una libertà negativa (“libertà da” — costrizioni e vincoli) e una libertà positiva (“libertà di” — fare, governare). In effetti, posso pensare di non avere impedimenti di alcun tipo senza per questo dare un contenuto effettivo alle mie azioni. Secondo il filosofo americano, l’elemento negativo è prioritario al fine di garantire un pluralismo dei valori: non essendoci più una sola verità pubblica e sociale, ognuno deve essere libero di creare la propria vita seguendo gli ideali che desidera, purché non entrino in conflitto con quelli altrui. Solo così possiamo realmente diventare noi stessi — possiamo fiorire come esseri umani, nel senso aristotelico del termine.
La libertà negativa traccia insomma un “cerchio magico” attorno al singolo, per difenderlo dalle ingerenze esteriori. Un’idea che trova origine nelle tesi di John Stuart Mill, e che oggi potremmo rileggere alla luce del tema privacy: esattamente come nel caso della libertà d’azione, anche la libertà di salvaguardare le proprie informazioni dovrebbe essere protetta da un “cerchio magico”. Certo, la sua circonferenza ha un raggio variabile: è in certa misura relativa alle varie culture ed epoche, e continuamente rinegoziata con le esigenze della sfera pubblica. Ma non per questo possiamo liquidarla: è essenziale per la difesa della nostra dignità personale. E in tempi dove il baratto fra libertà e presunta maggiore sicurezza appare sempre più diffuso, le parole di Berlin andrebbero sempre ricordate:
non possiamo sacrificare né la libertà, né l’organizzazione che è necessaria alla sua difesa, né un livello minimo di benessere comune. La via d’uscita deve dunque trovarsi in una sorta di compromesso logicamente inelegante, flessibile, persino ambiguo. Ogni situazione richiede una sua propria politica specifica dal momento che come una volta osservò Kant, “da un legno storto, come è quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente dritto”. Ciò che la nostra epoca richiede non è (come spesso ci viene ripetuto) più fede, né una guida più forte, né un’organizzazione più scientifica, ma il contrario: meno ardore messianico, più scetticismo illuminato, più tolleranza delle eccentricità, più frequenti rimedi ad hoc volti a raggiungere qualche obiettivo in un futuro prevedibile, più spazio perché i singoli e le minoranze le cui inclinazioni e convinzioni trovano difficilmente risposta (se a torto o ragione, qui importa poco) entro la maggioranza possano raggiungere i propri obiettivi.
In copertina: vista aerea della National Security Agency. 28 gennaio 2016, Fort Meade (Maryland).