È avvenuto la mattina presto, di lunedì, quando le strade sono ancora vuote, quando i pochi e ancora assonnati passanti hanno tutt’altro per la testa, l’inizio della settimana – come cadenza regolare del ritmo frenetico che colpisce le società in transizione, come quella belgradese. È successo quando nessuno se ne sarebbe accorto, quando nessuno se ne sarebbe lamentato, eppure era lì da settant’anni. Alla fine è successo, grazie all’utilizzo di appositi macchinari e al dispiegamento di forze di sicurezza: il busto e i resti di Dimitrija Tucovic sono stati rimossi per sempre. Ennesimo caso di ridefinizione urbanistica a fini storici, o anti-storici, che ha colpito quella che una volta era la capitale della Jugoslavia.
Dimitrija Tucovic, che ora potrà essere dimenticato del tutto, andando ad occupare un posto d’onore nel cimitero di Belgrado, rappresentava un simbolo dell’eredità storica di un periodo che non c’è più, nonché di quella resistenza urbanistica incarnata da quelle strade e piazze che tutt’ora, ma forse non per molto, portano ancora il nome di personaggi e simboli di un periodo destinato appunto ad essere cancellato. In questo caso, quello socialista. Dimitrija Tucovic fu un esponente di spicco del pensiero socialista in Serbia agli inizi del Novecento. Non parteciperà mai alla costruzione del socialismo reale in quanto morirà nella Prima Guerra Mondiale – a dimostrazione delle beffe che la vita spesso gioca agli intellettuali incompresi dal proprio tempo – essendo stato infatti un convinto oppositore dell’alternativa militare.
Tuttavia, la nascita della Jugoslavia socialista gli riconoscerà il merito di essere stato un pioniere ideologico del regime appena nato, intitolandogli appunto la famosa piazza di Belgrado, caotico epicentro delle principali arterie urbane della capitale serba, che dopo la dissoluzione della Jugoslavia tornerà alla più anonima denominazione “Slavija”. Eppure, quello del dimenticato Dimitrija è un destino toccato a molti, vittime inconsapevoli di quel processo attraverso il quale le trasformazioni politiche ed economiche di un paese prevedono anche un tentativo di rivedere la storia, in nome di un rafforzamento della memoria collettiva, in questo caso nazionale e non trans-nazionale. Ciò comporta dunque uno sconvolgimento della toponomastica, per adeguarla ai nuovi trend ideologici.
L’architettura e la toponomastica sono infatti i portabandiera di un regime ideologico, o almeno i suoi caratteri socialmente più visibili e tangibili. Questi, nella ex Jugoslavia, sono per lo più rimasti intatti nella forma, per cambiare invece nella denominazione, il più delle volte affinché si eliminino riferimenti ideologici e del passato regime, o perché siano più compatibili all’obiettivo di riformulare la storia secondo i nuovi archetipi. Lo stesso è accaduto a diversi colossi dell’architettura. A titolo d’esempio, il vecchio edificio che ospitava il governo federale jugoslavo, conosciuto come “SIV” (Savezno Izvršno Veće), è ora diventato il “Palazzo della Serbia”. Si tratta solo di una parola, vero, ma questa ben dimostra il cambiamento in senso revisionista giocato dalle denominazioni degli spazi urbanistici, in quanto quello nasce come palazzo “federale” e quindi anche della Serbia.
Il revisionismo storico attraverso la toponomastica è un processo che a Belgrado va avanti dal 1992, quando la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia ha cessato ufficialmente di esistere.
Altro esempio è il grattacielo che ospitava il comitato centrale del partito comunista, che è diventato parte del complesso che include il centro commerciale “Ušće Shopping Center” e ospita diversi uffici a scopo commerciale. Una beffa da parte della storia per coloro che decenni fa concepirono quel monolito di vetro e metallo come punto di riferimento ideologico per lo sviluppo del pensiero marxista, per il raggiungimento del socialismo reale e per contrastare l’idea di una società capitalista.
Il revisionismo storico attraverso la toponomastica è un processo che a Belgrado va avanti dal 1992, quando la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia ha cessato ufficialmente di esistere. Erano gli anni delle guerre a sfondo “etnico” e in cui il nazionalismo era il nuovo dogma che si sostituiva al comunismo, ora avvertito come bugiardo e truffaldino o, comunque, irrispettoso della causa nazionale. L’obiettivo, in altre parole, è stato duplice: cancellare ogni riferimento al socialismo, così come alla Jugoslavia. La mitologia collettiva nazionale, funzionale per allargare il consenso intorno alle nuove elite nazionaliste, venne quindi rinvigorita come già accadde in tutta Europa nel secolo scorso: rivitalizzando le figure e i nomi che contribuirono esclusivamente alla causa nazionale e non a quella transnazionale. È il caso per esempio di via Tito, che inizia proprio da piazza Dimitrija Tucovic (ora “Slavija”) e che ha cambiato nome prima in “via dei regnanti serbi”, quindi nell’odierna “via Re Milan”.
Dagli anni Novanta, Belgrado si è dotata di una apposita commissione il cui compito è la rinominazione delle vie e delle piazze. Nei primi dieci anni dal collasso della federazione jugoslava, circa 200 vie hanno cambiato nome e sono poche quelle che tutt’ora mantengono la vecchia denominazione. Tra le “nobili decadute”, nel rimpasto toponomastico, tra le altre vie, ci sono: il “Bulevar dell’Armata Rossa”, oggi “Bulevar Meridionale”; il “Bulevar della Rivoluzione”, intitolato adesso a Re Alessandro; la via dedicata all’eroe partigiano montenegrino Sava Kovačević, che oggi si chiama “Mileševska”, in onore ad un monastero ortodosso; nonché via 29 novembre, data di nascita della Jugoslavia socialista, oggi intitolata al Despota Stefan.
La resistenza della cittadinanza al processo di riscrittura della storia è di tipo passivo: molte persone persistono nel chiamare le vie con il nome dell’epoca jugoslava, chi per pigrizia e chi, forse, per semplice nostalgia.
Il caso più curioso è però quello della via “krunska”, nel centro di Vračar, il principale quartiere residenziale di Belgrado. Questo era il nome che la via portò fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando venne intitolata alle “brigate proletarie”, per poi cambiare nome altre due volte negli anni novanta e tornare quindi alla vecchia denominazione – “krunska”, appunto. Questa via, infatti, rappresenta perfettamente non solo l’intenzione di cancellare la memoria attraverso la ridefinizione dell’urbanistica, ma anche le assurdità che tali casi hanno come conseguenze, dal momento in cui esistono famiglie che seppur non abbiano mai cambiato casa per settant’anni, hanno vissuto presso quattro diversi indirizzi.
Se da un lato può risultare comprensibile che l’elite nazionalista al potere negli anni novanta non trovasse accettabile che diverse vie portassero il nome degli eroi popolari della Seconda Guerra Mondiale, dall’altro, il lato multi-nazionale e multiculturale di Belgrado non può essere cancellato del tutto con misure volte al revisionismo storico. La resistenza della cittadinanza al processo di riscrittura della storia è di tipo passivo: molte persone persistono nel chiamare le vie con il nome dell’epoca jugoslava, chi per pigrizia e chi, forse, per semplice nostalgia. D’altronde, intitolare le vie agli “eroi della patria” o a quei momenti storici che resero grande la nazione è una prassi tutta europea che si è consolidata come risultato del Risorgimento. È un processo di matrice nazionalista che non può non avere duplici interpretazioni: mentre per alcuni paesi alcune figure storiche sono considerati eroi, secondo le storiografie di altri paesi non sono nient’altro che sabotatori se non addirittura terroristi, come è accaduto per Guglielmo Oberdan – patriota per l’Italia, terrorista per l’Impero Austro-Ungarico.
Ai personaggi della storia jugoslava è toccato invece il contrario. Questi hanno smesso di essere eroi. I loro nomi e le gesta che li resero famosi hanno smesso di avere alcuna valenza simbolica dopo la nascita degli stati indipendenti, come se le loro opere e le loro azioni, di fatto, non siano mai state realizzate. A Dimitrija Tucovic e i suoi “compagni” ora tocca la memoria di tutti i comuni mortali: non più le piazze e i viali alberati che animano la vita delle città, ma il grigio anonimato e l’oblio che contraddistingue ogni cimitero.