È il 19 dicembre, sono le otto e un quarto di sera. Più di cinquanta persone vengono investite da un camion mentre passeggiano lungo le bancarelle natalizie allestite nella Breitscheidplatz. Le vittime sono dodici, quarantotto i feriti – alcuni gravi. Poco dopo nel vicino Tiergarten, grazie a un testimone oculare, viene arrestato il presunto autista del mezzo; partendo dal cadavere rinvenuto sul sedile, si inizia a parlare di dirottamento. La mattina seguente, in conferenza stampa, la cancelliera tedesca Angela Merkel afferma: “Dobbiamo desumere che sia stato un attacco terroristico”. Il 2016 della Germania, anticamera delle elezioni del prossimo anno, si avvia a conclusione nel peggiore dei modi.
L’attacco ai media
Qualunque omicidio è terribile. Quello di Friburgo lo è particolarmente, perché ha spezzato una giovane vita. Le redattrici e i redattori del Telegiornale non sono privi di sentimenti. Ma ci occupiamo raramente di singoli casi criminali”. È il 4 dicembre 2016 e le parole sono di Knai Gniffke, Caporedattore del Tagesschau, il telegiornale della prima rete pubblica tedesca. L’omicidio a cui Gniffke si riferisce è quello di Maria L., 19 anni, studentessa di Friburgo, uccisa dopo una violenza sessuale. Ma perché il Caporedattore del maggiore telegiornale nazionale si sente in dovere di giustificare la propria linea editoriale? Perché i social media sono in quel momento infiammati da un’accusa precisa: il notiziario vorrebbe solo evitare di parlare dell’arresto del presunto assassino di Maria, Hussein K., un giovane rifugiato.
In un paese in cui una minoranza rumorosa intona nelle strade “Lügenpresse, halt die Fresse!” (“Stampa bugiarda, tappati la bocca!”), il tema della narrazione della cosiddetta crisi dei migranti è diventato centrale nelle recriminazioni contro i media. E se, un anno fa, i media sembravano compatti nell’appoggiare la Willkommenspolitik (la politica di accoglienza dei rifugiati di Merkel), ora alcuni grandi organi d’informazione si sono riallineati con lo scontento di una parte della società tedesca. Un esempio è Bild.de, la versione digitale dello storico quotidiano nazionalpopolare tedesco, vero e proprio bollettino della pancia del Paese. Il sito conta 16,7 milioni di visitatori unici al mese e sulla morte di Maria ha fatto scelte diametralmente opposte a quelle della tv pubblica, dando ampiamente spazio alla notizia. Julian Reichelt, Caporedattore di Bild.de, dichiara: “Questa ragazza sarebbe ancora in vita se non ci fosse stata la politica dell’immigrazione che si è avuta in Germania? Questo punto, secondo noi, ha una rilevanza politica enorme.” Anche in Germania è arrivato il tempo delle emozioni.
Nuovi avversari e nuovi problemi
Berlino, 20 novembre 2016, Angela Merkel, Cancelliera tedesca dal 2005, fa il suo atteso annuncio: correrà anche per le elezioni politiche del 2017. Sono passati solo 12 giorni dal terremoto Trump negli USA, un risultato accolto con rara freddezza da parte del Governo tedesco. Forse proprio per questo Merkel dichiara di ricandidarsi per “difendere i valori democratici”. La Cancelliera ha probabilmente vissuto l’anno più difficile della sua carriera politica: la guerra in Ucraina, la Brexit, e, soprattutto, una Germania che è cambiata come non mai, dopo anni di stabilità politica e sociale. Guardando indietro, sembra passato un decennio da quando, nel dicembre 2015, il TIME Magazine aveva eletto “Person of the Year” la “Cancelliera del mondo libero”, per aver aperto le porte del Paese a quasi un milione di profughi in fuga dal Medio Oriente.
Nell’agosto 2015 Merkel aveva esclamato “Wir schaffen das! – Ce la facciamo!”, sperando forse di entrare definitivamente nella Storia, quella con la “S” maiuscola. Oggi, però, è innegabile che sia stato proprio la cosiddetta crisi dei migranti a compattare e nutrire un nuovo fronte populista, sostanzialmente esterno al tradizionale arco costituzionale della Bundesrepublik. La notte di San Silvestro, il 2016 tedesco inizia nel peggiore dei modi: nelle strade e nelle piazze di diverse città si verificano molestie e aggressioni sessuali di gruppo ai danni di centinaia di donne. I casi peggiori avvengono a Colonia, dove la situazione sfugge al controllo delle forze dell’ordine. Dopo qualche giorno la Polizei rende noto che le violenze sono state perpetuate da una folla di uomini di “origine nord-africana o araba”. E così, da tanti tedeschi, quegli uomini vengono identificati con i rifugiati della Merkel.
I populisti tedeschi sono un partito nuovo: si muovono bene sul tema della sicurezza, agitando lo spauracchio dell’islamismo radicale.
Una parte del Paese minoritaria, certo, ma che nel 2016 trova definitivamente una forza politica che la rappresenti: AfD, Alternative für Deutschland, la nuova destra identitaria tedesca. Il 13 marzo 2016 ci sono le elezioni regionali nella Sassonia-Anhalt, ex DDR, l’AfD si presenta per la prima volta e raccoglie un incredibile 24,21% dei voti. Lo stesso giorno riesce a posizionarsi tra il 12 e il 15% anche in due land occidentali: Baden-Württemberg e Renania-Palatinato. Sei mesi dopo arriva il 20,81% nel profondo est del Meclemburgo-Pomerania Anteriore e, poi, un inaspettato 14,15% nella città-stato di Berlino. “A destra della CDU-CSU non deve esserci niente”, diceva il celebre leader cristiano-democratico Franz-Josef Strauss, intendendo che la tragica storia della Germania richieda che sia solo il centro-destra conservatore a raccogliere e integrare qualsiasi deriva nazionalista del paese. Ora, però, a destra della CDU-CSU è arrivato qualcuno, l’AFD, che pubblica un manifesto che, senza troppi giri di parole, recita: “L’Islam non fa parte della Germania”.
La sera di Monaco e l’ascesa di Frauke
Berlino, 23 maggio 2016, Hotel Regent, i fotografi si assemblano attorno Frauke Petry, imprenditrice quarantenne e leader telegenica di Alternative für Deutschland. Petry e i suoi collaboratori stanno per incontrare Aiman Mazyek, presidente del Consiglio Centrale dei Musulmani in Germania, un’associazione che non rappresenta la maggioranza della comunità islamica tedesca, ma che è tra le più abili a posizionarsi mediaticamente. Le due delegazioni entrano in una sala dell’hotel, con lo scopo di aprire un dialogo. Dopo nemmeno un’ora, però, l’incontro è già finito, e nel peggiore dei modi. “Loro sono anticostituzionali” accusano quelli dell’associazione islamica, “ci chiamano nazisti e non lo accettiamo”, replica AfD. È tutto l’anno che la destra populista continua a rimandare al mittente le accuse di essere un partito legato al nazionalsocialismo, ricordando che, se così fosse, la Corte Costituzionale li avrebbe già messi fuori legge.
Una precisazione ineccepibile. Al tempo stesso, però, a fine maggio 2016 tutti sentono le parole di Alexander Gauland, noto politico AfD, che poco prima degli Europei di calcio dichiara che i tedeschi “non vorrebbero come vicino di casa Jérôme Boateng”, difensore di padre ghanese della Nazionale tedesca. Qualche giorno dopo, al termine della partita vinta di misura contro l’Ucraina, l’allenatore Campione del Mondo Joachim Löw loda i suoi e aggiunge che “in difesa, è sempre bene avere un vicino come Boateng”. I populisti tedeschi, però, fanno anche figure meno imbarazzanti. Sono un partito nuovo, senza responsabilità amministrative, si muovono meglio di altri sul tema della sicurezza e sfruttano al massimo la questione dell’islamismo radicale.
È nel luglio 2016 che la Germania assiste a una breve escalation di violenza terroristica, con un sanguinoso attacco ai passeggeri di un treno da parte di un diciassettenne afgano e con un attacco suicida ad Ansbach, in Baviera, da parte di un richiedente asilo siriano. In entrambi i casi muoiono solo gli attentatori, e di entrambi gli attacchi si appropria l’onnipresente propaganda dell’ISIS. Sempre a luglio, però, è un diciottenne tedesco di origini iraniane a compiere una strage solitaria in un centro commerciale di Monaco di Baviera: i morti sono 9 e tra i modelli del giovane stragista non c’è lo Stato Islamico, ma il terrorista neonazista norvegese Anders Breivik.
Leggendo i più recenti rapporti dei servizi di sicurezza tedeschi, sembra che islamismo e neonazismo stiano diventando sempre più opposti estremismi che si nutrono a vicenda.
Tra estrema destra e radicalismo
Il 2016, del resto, è anche l’anno in cui in Germania si riaffaccia prepotentemente la violenza di estrema destra. Nel settembre del 2016 la Polizei registra che le aggressioni di matrice xenofoba sono già state più di 500, il doppio dell’anno prima: si va da attacchi verbali ad assalti esplosivi e incendiari contro moschee o centri di accoglienza per rifugiati. Le cose, anche qui, stanno cambiando: la galassia neo o post-nazista è più viva che mai, si riorganizza, non si sente più messa all’angolo, trova nuovi spazi di legittimazione sociale, ad esempio infiltrandosi nelle proteste cittadine o presentandosi come forza in opposizione al fondamentalismo islamista.
Non è un caso. Leggendo i più recenti rapporti dei servizi di sicurezza tedeschi, sembra che quella tra islamismo e neonazismo stia diventando sempre più una dialettica tra opposti estremismi che si nutrono a vicenda. Le due ideologie sono tragicamente simili e fanno presa soprattutto sui più giovani. Nel 2016, sul fronte della lotta all’islamismo radicale, le autorità hanno deciso di dare un giro di vite, ad esempio iniziando il processo ai danni di Sven Lau, tedesco convertito, volto mediatico conosciuto da tutto il Paese e rappresentante di quel salafismo-pop che predica via youtube e social media. Lau è accusato di favoreggiamento del terrorismo e il suo processo entrerà presto nel vivo.
Quella dei gruppi salafiti più estremisti, che contano circa diecimila militanti in Germania, è una questione che va molto al di là di semplici espressioni pseudo-religiose del disagio delle comunità immigrate. Pochi giorni fa, il 12 dicembre, il quotidiano nazionale Süddeutscher Zeitung fa filtrare le preoccupazioni dei servizi d’intelligence tedeschi per il crescente ruolo delle monarchie del Golfo, Arabia Saudita e Qatar in testa, nel sostegno economico dei gruppi salafiti radicali presenti sul territorio tedesco.
Il fronte turco
Intanto, però, nel 2016 sono stati i rapporti di forza con un altro paese, la Turchia, a interessare pesantemente la politica estera tedesca. È il 31 marzo 2016 quando, sulla televisione pubblica ZDF Neo, il presentatore satirico Jan Böhmermann legge una poesia a dir poco offensiva, dedicata al Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. In meno di due minuti, il comico definisce Erdoğan un uomo che fa sesso con le capre, un pedofilo, un picchiatore di donne, un aguzzino delle minoranze e molto altro ancora. Scopo della performance è provocare il Presidente in risposta alle sue crescenti mire autoritarie e neo-ottomane. E la provocazione riesce, anche troppo. La Turchia reagisce alla trasmissione televisiva con lo scontro diplomatico e con le vie legali. Dopo uno dei suoi più classici tentennamenti, Merkel autorizza un processo contro Böhmermann, non solo per la calunnia ai danni della persona privata di Erdoğan, ma anche per l’antico e quasi dimenticato reato di “offesa di Capo di Stato estero”.
La preoccupazione di Merkel, e arriva da destra, perché nessuno si fida più della stabilità delle percentuali elettorali: il 2016 ha insegnato che le cose possono cambiare in fretta.
Il caso Böhmermann è una scintilla, che apre un gioco di ricatti e recriminazioni tra i due paesi. Lo scenario diventa presto chiaro: Merkel dipende troppo da Erdoğan per l’accordo sul contenimento dei flussi migratori, un’operazione cinica, alla quale ha però legato gran parte del proprio consenso in Germania. La Cancelliera è abile nel prendere tempo, ma l’alleato turco è in cerca di riscosse e di vendette simboliche per compattare il proprio potere in patria. Il Governo di Ankara protesta quindi anche con impressionante veemenza contro il riconoscimento del genocidio degli armeni da parte del Parlamento tedesco, poi accusa la Germania di proteggere i curdi del PKK e, intanto, chiede altri soldi per la questione dei migranti.
Infine, poco dopo l’anomalo fallito golpe del 15 luglio 2016, Erdoğan porta in piazza a Colonia quarantamila dei suoi sostenitori turco-tedeschi. Il Presidente mette così in atto una vera e propria dimostrazione di forza contro-coloniale, nel cuore del più importante Paese europeo. Non solo: le bandiere rosse con la mezzaluna che sventolano davanti alla Cattedrale di Colonia, inneggiando anche al ripristino della pena di morte in Turchia, segnano l’emergere di una comunità di oltre 2 milioni di persone che afferma con forza e orgoglio un’identità spesso molto turca e poco tedesca.
Dirottamento a destra
Essen, 6 dicembre 2016, Congresso nazionale dei cristiano democratici. Angela Merkel si prepara a essere rieletta con l’89,5% dei voti, confermandosi anche Segretario del partito, un ruolo che ricopre ininterrottamente dal 2000. Al pubblico dei suoi, la Cancelliera si rivolge con un intervento di oltre un’ora, e lo fa con un’energia e un’inquietudine mai viste. Talvolta l’energia si trasforma in sofferenza, se non direttamente in stanchezza. Merkel parla dei risultati economici che, malgrado quello che significano per il resto d’Europa, piacciono a gran parte dell’opinione pubblica tedesca: la disoccupazione dimezzata negli ultimi anni, la resistenza alla crisi, la tenuta delle esportazioni. Davanti al pubblico di Essen, Merkel non si fa alcun problema a tessere le lodi di uno degli uomini più criticati d’Europa, l’algido sacerdote dell’austerità, il Ministro tedesco delle Finanze Wolfgang Schäuble. Lo ripete di nuovo, la Cancelliera: “Undici anni fa eravamo il malato d’Europa, ora siamo l’ancora di stabilità”. Quello che molti rinfacciano ai tedeschi, l’essere rimasti in piedi negli anni della crisi, per gli stessi tedeschi, invece, è la prova che l’austerità funzioni davvero.
Ma la preoccupazione di Merkel resta una, e arriva da destra, perché nessuno si fida più della stabilità delle percentuali elettorali: il 2016 ha insegnato che le cose possono cambiare in fretta. Così, verso la metà del proprio intervento, la Cancelliera inizia a parlare del rifiuto di società parallele o del diffondersi di legislazioni alternative come la sharia in Germania, e poi esclama: “Al nostro vivere comune appartiene anche il vederci vicendevolmente in viso. Per questo il velo integrale non è da noi opportuno e va vietato tramite la legge, perché non ci appartiene”. Una frase che conquista uno degli applausi più calorosi e prolungati di tutta la platea cristiano-democratica. Quello della rieletta Segretaria è un passo simbolico per riconquistare consensi a destra, un passo che non avrebbe mai fatto l’anno scorso, ma che fa ora, a pieni polmoni, dopo aver annunciato che il 2017 sarà ancora più difficile e che le prossime elezioni saranno le più dure della storia della Germania riunificata. E dopo ieri sera lo saranno ancora di più.
Articolo rivisto alle ore 11:20 del 20 dicembre 2016.