P ermettetemi di iniziare così: le parole sono importanti. Le parole sono importanti quando sei candidato alla presidenza, e sono molto importanti quando sei il Presidente”. Chi parla è Hillary Clinton, da un lontano passato, la fine di settembre del 2016. Due mesi dopo, il mondo è cambiato – è un mondo in cui oggi si analizza la lingua di chi ha vinto.
Il linguaggio di Donald Trump è semplice: il linguaggio di Donald Trump è uno dei fattori principali che si nascondono dietro alla sua vittoria. Per quanto si tratti di un principio valido nei più diversi frangenti della vita di ogni persona, riuscire a comunicare in maniera efficace è una competenza non solo auspicabile, ma indispensabile per chiunque intenda governare una superpotenza. Banalmente, dai dibattiti televisivi ai tweet, giudichiamo chi andrà a modellare il nostro futuro basandoci sulle parole dettate dal suo centro del linguaggio.
In un articolo pubblicato da Scientific American il 25 marzo 2016 e dedicato alla lingua del candidato repubblicano, Jennifer Sclafani — linguista — conclude il suo articolo precisando che, nonostante il senso di autenticità e affidabilità riprodotto attraverso una serie di dispositivi trumpiani, a novembre gli elettori “probabilmente daranno attenzione ad altre cose, e potrebbero ricalibrare i valori e il linguaggio che reputano più presidenziale”. Non è andata esattamente così; o meglio, forse a dovere ricalibrare qualcosa non sono gli elettori. Rimangono insomma una lunga serie di previsioni fallaci e una strategia comunicativa da analizzare: senza scomodare il decalogo offerto dal Guardian (per ovvie ragioni linguistiche, in questo articolo verranno citate diverse testate anglo-sassoni), si può riassumere la cifra del Presidente Eletto in tre comode aree: retorica, sintattica e lessicale.
Dal punto di vista retorico, già il primo discorso in assoluto del candidato-Trump incapsula tutti i suoi tic linguistici, le sue idiosincrasie, le sue ossessioni formali. Quindi ecco la ripetizione enfatica, riscontrabile sia nell’uso dell’anafora che, più generalmente, in quella che definirei proprietà commutativa della lingua di Trump – una strana deriva dell’iperbato, l’inversione disinteressata degli addendi di un periodo spinto dalla certezza che, in qualche modo, conseguirà sempre lo stesso esito. Il primo esempio a venirmi in mente è un’intervista di — nientemeno — Maurizio Costanzo andata in onda l’11 settembre del 2002, intervista in cui il giornalista gli domanda “chi le ha insegnato, da ragazzo, la differenza tra il bene e il male, suo padre o sua madre?” e si sente rispondere “ho avuto due genitori spettacolari, entrambi mi hanno insegnato che c’è una bella differenza tra il bene e il male, e sono stati entrambi a insegnarmelo [sic]”. Anche l’interprete cade nella costruzione iterativa di Trump.
Un’altra caratteristica evidente della retorica trumpiana — anche se non esclusiva — è la insistita lettura dicotomica della realtà, in poche parole, il suo bisogno di polarizzare il discorso in “noi” e “loro”, qualsiasi contenuto venga riassunto da entrambe le etichette. Per quanto sia un sottoprodotto di quel linguaggio di polistirolo che infesta i manuali di auto-aiuto, la luce del pensiero positivo che filtra tra le righe dei suoi discorsi ci investe senza pietà (“vinceremo così tanto che sarete stufi di vincere”, un esempio tra i tanti), nonostante si tratti di una luce indirizzata esclusivamente a “noi”, quelli che andranno a vincere le elezioni contro di “loro”.
Leggendo la trascrizione della candidatura di Trump, emerge come il tycoon non abbia nemmeno avuto l’intenzione di stendere un canovaccio, una traccia da seguire: la sua arte retorica è tutto quello che ha — e quello che gli basta. The Donald è il profeta della vaghezza, è la Parola di salvezza in un’epoca in cui ogni giorno cresce l’impero (retorico) dell’inintelligibilità totale, della complessità entropica, un’epoca in cui, nelle parole del futuro Presidente, “non abbiamo protezioni, non abbiamo competenze, non sappiamo cosa stia succedendo”.
Il vigore del linguaggio di Trump risiede nel disinteresse totale riguardo qualsiasi iper-analisi del linguaggio stesso.
Per quanto riguarda la sintassi, torna utile uno studio del Boston Globe applicato ai discorsi di candidatura dei presidenti statunitensi. Esaminando i testi in questione attraverso la lente del Flesch-Kincaid Reading Test – un test nato nei laboratori dell’esercito USA negli anni Settanta – il discorso di Trump si accoda all’ultimo posto, presentando una complessità sintattica comprensibile da uno studente di quarta elementare. Come si vedrà in seguito, non è un risultato dovuto soltanto a una questione lessicale, al rifiuto di formulare sostantivi più lunghi di una sillaba: è un gioco in cui la costruzione delle frasi ricopre un ruolo fondamentale.
Quello che da chi non fa politica viene definito – con un affettuoso tocco plebeo – “politichese”, è un idioletto caratterizzato da un’infinita cascata di subordinate connesse da formule ultra generiche, una tecnica a cui ricorriamo quando temiamo di venire fraintesi o — più meschinamente — temiamo che le nostre parole ci vengano ritorte contro. Trump ha impugnato questa pratica e l’ha accartocciata, trasformando il suo linguaggio in una serie continua di punchline. I media anglosassoni si sono trovati di fronte a un’involuzione del dibattito politico che li ha, nell’ordine, stupiti/diverti/inorriditi, sottostimando forse il livello a cui ci si è abituati in democrazie più esotiche. Quello che doveva essere il faro morale dell’Occidente, il guardiano della democrazia, sembra avere scoperto l’acqua fredda.
Per certificare ulteriormente il suo talento di comunicatore, va sottolineato come Trump — nel momento in cui si accorge di costruire un periodo troppo complesso — si interrompa a metà della frase, riformulandola con l’obiettivo di concludere piazzando una parola aggressiva, pesante, asfissiante: inserendola alla fine di un periodo, assicura così una vita longeva a un concetto chiave. Una volta chiusi gli occhi queste parole sono scie fluorescenti nel buio. Una mitragliata di punchline, si è detto, dove tra un botto e l’altro rimane spazio per le cosiddette non-substantive words (o anche discourse markers): nient’altro che i classici so e you know, connettori che – per quanto scarso il loro valore informativo – “ricoprono un ruolo fondamentale nell’organizzazione del discorso”. Sono mattoncini apparentemente logici a cui ricorrono tutti gli americani, giorno per giorno, e intensificano l’intimità del rapporto, la fiducia tra lui e noi.
Anche per l’ultima delle tre aree affrontate, l’area lessicale, il discorso di candidatura offre degli spunti non trascurabili. L’ho sottoposto allo scan di uno strumento costruito – banalmente – per calcolare le ricorrenze in un testo, ed escluse le common words del vocabolario inglese (congiunzioni, pronomi, ausiliari eccetera), anzi, focalizzandomi esclusivamente su sostantivi e aggettivi, ho isolato i dieci risultati più frequenti. Eccoli: people, great, now, country, china, good, right, big, world, billion.
C’è già tutto: populismo, eccezionalismo, urgenza, paranoia. I primi risultati compaiono circa quaranta volte all’interno del discorso, gli ultimi intorno alle venti. Tra gli esclusi, una menzione d’onore va a “very”, usato come zerbino di qualsiasi lemma nel corso dell’anno, a “get”, adorato da Trump perché è un po’ come “puffare”, a “over”, che monitorato nel discorso riflette un impiego binario: vaghezza o dominazione. (Da quando il Merriam Webster è online, è possibile capire quali sono le voci più consultate: come raccontato qui, uno dei vocaboli più indagati lungo l’anno elettorale è stato “bigly”, un avverbio che, a quanto pare, Trump ha utilizzato senza parsimonia. O almeno, così pensavano milioni di americani: “bigly” in realtà si è rivelato essere “big league” che, nel lessico di Trump, è la versione italiana di “alla grande” o, abbassandosi, “di brutto”).
Sono andato poi a confrontare il monologo del 2015 con un altro discorso di candidatura, quello di Barack Obama a Springfield – Illinois di quasi dieci anni fa. I dieci risultati più frequenti sono: work, people, generation, here, today, time, America, together, war, believe. Nel discorso di Obama l’urgenza sembra colorarsi di una sfumatura quasi messianica (“here”, “today”), impressione rafforzata da “together” e “believe”. Certo, spunta “war”, ma è qualcosa che viene definita come “ill-conceived”, nata male e da terminare il più presto possibile, eccetera.
Ci sono altri indizi che suggeriscono come Trump non sarà mai campione mondiale di Taboo. In questo video si può vedere come, intervistato da Jimmy Kimmel, Trump frulla duecentoventi parole in sessanta secondi e di queste, 172 parole (! il 78%) sono monosillabi, 39 sono bisillabi, 4 sono trisillabi. Di questi, tre su quattro sono “tremendous”, l’esempio di un altro classico della retorica trumpiana: le iperboli. Iperboli e superlativi sono la malta del muro retorico del futuro Presidente degli Stati Uniti, ingredienti della mescola tanto quanto gli eufemismi degradanti: va da sé che un linguaggio drogato da anabolizzanti, sul lungo periodo, non può che atrofizzarsi, rimanere sterile.
Obama e Trump si sono parlati il giorno dopo le elezioni in un incontro che si è inserito immediatamente tra i momenti iconici di questo decennio, il confronto tra il primo Presidente afro-americano e un Presidente sostenuto (suo malgrado) dal KKK, il confronto tra un intellettuale professionista della politica e un imprenditore dalla carriera schizofrenica, il confronto tra due idee antitetiche di Stati Uniti. In questo video si può vedere un essere umano che inizia a concepire l’entità del peso che gli sta per essere passato sulle spalle, un peso che – timidamente – inizia già a curvargli la schiena, abbassare la voce, allungare il vocabolario.
Questo articolo, in ogni caso, si rivolge solo a una minuscola bolla di pubblico: il vigore del linguaggio di Trump risiede infatti nel disinteresse totale riguardo qualsiasi iper-analisi del linguaggio stesso. Più esageri, più si riduce il rischio; e si dice che Trump sia sprovvisto di consapevolezza. Si dice anche che i calabroni volino senza rispettare le leggi della fisica: è stato dimostrato che è falso.