I l 23 giugno 2013 Edward Snowden atterra all’aeroporto Sheremetyevo di Mosca. Si è lasciato alle spalle Hong Kong dove, nelle settimane precedenti, aveva incontrato i giornalisti del Guardian Glenn Greenwald ed Ewen MacAskill e la regista Laura Poitras. Dall’11 dello stesso mese Edward Snowden è il nome connesso alle rivelazioni sulle attività di sorveglianza di massa perpetrate dalla statunitense National Security Agency (NSA) e dalle agenzie sue alleate. Quel giorno Snowden è comparso pubblicamente in un’intervista video registrata proprio a Hong Kong e pubblicata dal Guardian: “non voglio l’attenzione pubblica, perché non voglio che la storia riguardi me. Voglio che riguardi cosa sta facendo il governo americano” diceva Snowden rivelandosi al mondo e di fatto legando indissolubilmente la sua vita a quanto stava rivelando tramite i giornali.
Snowden, accompagnato dalla giornalista di WikiLeaks Sarah Harrison, è rimasto oltre un mese nel limbo rappresentato dall’area internazionale dello scalo di Mosca, impossibilitato a spostarsi in qualsiasi direzione. Apolide a causa della revoca del suo passaporto e formalmente accusato di spionaggio da parte del governo Usa, Snowden si è trovato bloccato in Russia senza mai avere mai desiderato di restarci e senza essere riuscito a raggiungere il Sud America, dove l’Ecuador – unico Paese a essersi esposto in questo senso tra gli altri venti interpellati – gli aveva concesso asilo politico, salvo poi revocarlo. Mosca era una tappa forzata e si è trasformata in assenza di alternative: dall’estate del 2013 Edward Snowden, il whistleblower, la fonte giornalistica, l’esempio di cittadinanza e disobbedienza civile, è sospeso in una situazione di limbo che, prima che politica o diplomatica, è soprattutto umana e simbolica.
A Mosca Snowden ha rinunciato alla sua fisicità, alla sua presenza materiale nel dibattito sui temi che le sue rivelazioni hanno scatenato. Snowden non può essere presente perché è altrove, trasformato per necessità in un’immagine virtuale, nella proiezione video della sua assenza, visibile in occasione degli eventi pubblici cui partecipa in absentia portando avanti il suo messaggio. O nei suoi tweet, l’altro strumento a dare una traccia alla sua assenza. La vita di Snowden è diventata isolamento, certamente, ma come ha scritto Andrew Rice sul New York Magazine lo scorso giugno, ha anche paradossalmente acquisito una nuova libertà, quella garantitagli dal BeamPro, lo “Snowbot”, uno schermo con delle ruote connesso a Internet e manovrato in remoto, che consente a Snowden di riacquisire una fisicità come robot quando interviene ad alcuni eventi. Per la stragrande maggioranza del tempo, invece, Snowden è solo un’immagine e una voce rimbalzata online dai proxy dalla rete iper-sorvegliata della Russia che lo ospita.
Ellsberg, l’uomo dei Pentagon Papers, è lo Snowden di due generazioni fa. La sua arma? Una fotocopiatrice Xerox.
La vita in esilio di Snowden è però fatta anche di visite. Non sono moltissime, ma diverse persone sono andate a Mosca al fine di incontrarlo o intervistarlo. Oliver Stone e Joseph Gordon-Levitt sono tra queste e il loro incontro con Snowden è alla base dell’ultimo film di Stone, Snowden, dedicato proprio al whistleblower e al suo percorso verso la scelta di rivelare al mondo la portata e i pericoli connessi alla sorveglianza di massa. Micah Lee, uno dei maggiori esperti di crittografia, lo ha invece incontrato per un’intervista, pubblicata da The Intercept, incentrata sulla necessità di proteggere la propria privacy sul web. John Oliver ha tratto dal suo incontro moscovita con Snowden uno dei prodotti mediatici – la famosa intervista delle “dick pics” – più efficaci per spiegare la sorveglianza in modo divulgativo e concreto. Persino Jean-Michel Jarre ha realizzato un brano, feat. Snowden, dopo averlo incontrato a Mosca.
Un altro di questi incontri è avvenuto nell’inverno del 2014, quando un gruppo di persone – piuttosto improbabile, sulla carta – ha raggiunto Snowden nella capitale russa. Membri di quello che i partecipanti stessi definiscono un “contro-summit informale” erano l’attore americano John Cusack, la scrittrice indiana Arundhati Roy e il whistleblower americano – classe 1931 – Daniel Ellsberg che, nel 1971, rivelò, tramite il New York Times e altre testate Usa, i “Pentagon Papers”, un corpus di documenti che raccontava la storia del coinvolgimento americano in Vietnam dal 1945 al 1967 dal punto di vista del Dipartimento della Difesa. Ellsberg, a sua volta un reduce, lavorava per l’intelligence Usa quando decise che il vero volto del conflitto dovesse arrivare all’attenzione dell’opinione pubblica. La sua arma? Una fotocopiatrice Xerox. Lo scoop uscì in prima pagina e spianò la strada al Watergate e alle dimissioni di Nixon. Ellsberg è lo Snowden di due generazioni precedenti.
Il viaggio di Cusack, Roy ed Ellsberg è raccontato in un libro, Cose che si possono e non si possono dire, che esce ora in Italia (Guanda). Il testo è una raccolta di scritti e conversazioni attorno a Edward Snowden e all’impatto sociale della sorveglianza di massa e sulla vita politica degli Stati Uniti. Roy ha affrontato spesso temi affini nella sua opera, mentre Cusack è molto attivo sul fronte delle ripercussioni della sorveglianza e da tempo collabora con la Freedom of the Press Foundation, una ONG che si occupa di finanziare diversi progetti giornalistici, inclusa WikiLeaks, e per cui ora lavora anche Snowden. Il libro, però, non è un saggio su questi temi, né li affronta direttamente. Si tratta piuttosto della riproposizione di una serie di dialoghi dove i partecipanti al “contro-summit” discutono di temi che gravitano attorno allo scandalo NSA. Roy e Cusack parlano di politica Usa e colonialismo, presunte “guerre giuste” da contrapporre alla corsa agli armamenti della Guerra Fredda e al Vietnam di Ellsberg che, invece, tratta del suo ruolo in quel conflitto e della sua reazione da whistleblower. I testi sembrano quasi sconnessi l’uno dall’altro se presi complessivamente, ma sono tenuti insieme dal ruolo di Cusack che, più che un narratore, è il testimone e collante dei dialoghi racchiusi nel testo.
Cusack, Ellsberg e Roy si sono incontrati tutti insieme a Stoccolma nel 2014 in occasione della cerimonia di assegnazione del Right Livelihood Award, il “Nobel alternativo”, vinto proprio da Snowden e ritirato da Ellsberg. Le ultime due sezioni del testo raccontano il viaggio conseguente verso Mosca e l’incontro dei tre con Snowden in una stanza dell’hotel Ritz-Carlton a pochi passi dalla Piazza Rossa. Snowden è presente nel libro ovviamente, ma senza essere davvero parte particolarmente attiva dei dialoghi raccolti e i suoi interventi espliciti sono minoritari rispetto a quanto detto dagli altri interlocutori. Ancora una volta, Snowden è visibile ma non fisicamente evidente: la sua assenza nel libro – Snowden è più presente nelle foto dell’incontro che nei dialoghi effettivi – è la stessa non-fisicità dei suoi collegamenti video. Scrive Arundhati Roy, ricordando i contenuti della conversazione: “Parlammo di guerra e avidità, di terrorismo e di come lo si potrebbe definire in maniera adeguata. Parlammo di Paesi, bandiere e del significato del patriottismo. Parlammo di pubblica opinione e del concetto di moralità pubblica, sottolineando quanto sia mutevole e facile da manipolare”.
L’assenza fisica Snowden è di fatto il suo rifugio.
Eppure si comprende e si misura davvero la portata delle rivelazioni del 2013 solo se le si contestualizzano nel contesto dei temi elencati da Arundhati Roy. Il caso Snowden ha infatti a che vedere direttamente con la guerra al terrorismo perché è quest’ultima a giustificare la sorveglianza di massa pur senza contribuire concretamente ad essa; ha a che vedere con i “Paesi” e con la geografia del pianeta perché se esiste un fenomeno davvero globale e transnazionale che tocca i diritti fondamentali di tutti, quello è proprio la sorveglianza di massa di Internet. Inoltre, riguardano direttamente anche l’opinione pubblica, perché il monitoraggio delle comunicazioni può influenzarla, fino a limitarla o a porla sotto controllo. Il caso NSA riguarda la moralità pubblica perché la sorveglianza mette in discussione i fondamenti democratici. Snowden tocca anche il concetto di patriottismo, infine, perché il suo atto è quello di un cittadino che, nell’esercizio del suo lavoro, ha osservato malfunzionamenti e falle nel sistema democratico e li ha denunciati, senza alcun beneficio personale, facendone la propria scelta cruciale e accettandone le conseguenze.
In uno dei dialoghi Roy si chiede se sia possibile definire Snowden un rifugiato. La storia di Snowden infatti è anche una storia di rifugiati e, in particolare, si intreccia con quella delle famiglie che lo hanno accolto nel poverissimo quartiere di Sham Shui Po, periferia di Hong Kong, nelle due settimane trascorse tra la sua fuga dall’Hotel Mira, dove avvenne l’incontro con i giornalisti, e la partenza dall’aeroporto di Hong Kong. Un periodo in cui la tensione attorno a Snowden era ai massimi livelli e serviva un posto, fisico questa volta, dove fargli trascorrere il tempo necessario a organizzare il viaggio. La soluzione degli avvocati di Snowden in loco furono le case di alcune famiglie di rifugiati e richiedenti asilo dello Sri Lanka, da loro seguite legalmente, che hanno accolto segretamente e protetto il whistleblower, in quel momento probabilmente l’uomo più ricercato al mondo. Il film di Oliver Stone e un’inchiesta del National Post hanno dato finalmente a queste persone credito del loro coraggio: parlando con il quotidiano canadese di perché abbia accolto Snowden nella sua abitazione, una di queste persone, Ajith, ha dichiarato che “questa persona famosa era un rifugiato, esattamente come me”.
L’assenza materiale di Snowden ne ha allo stesso tempo fatto il catalizzatore delle questioni che lo scandalo NSA ha portato in superficie. Come da lui auspicato, forse la sua persona non è diventata la storia, ma il comportamento dei governi è rimasto al centro dell’attenzione del dibattito. Nonostante quel dibattito e nonostante le riforme scaturite direttamente da esso, però, Snowden è ancora costretto al suo esilio privo di fisicità, alla fuga, alla sottrazione, all’assenza. E all’essere esposto a una possibile punizione draconiana, come accaduto a Chelsea Manning, fonte delle rivelazioni di WikiLeaks condannata a 35 anni di carcere. Per Arundhati Roy, Snowden è un rifugiato per via del fatto che non può tornare nel suo Paese ed è costretto a vivere “là dove si sente più a suo agio, su Internet”. La sua assenza fisica è di fatto il suo rifugio.