E lie Wiesel, nato in Romania nel 1928 ed emigrato a New York all’età di ventisette anni, è stato il sopravvissuto più celebre del mondo. L’esperienza da adolescente nei campi di Auschwitz e Buchenwald, la perdita del padre e della fede in Dio, raccontate nel suo libro più famoso, La notte (1960), furono il motore rabbioso e tragico per decine di libri, centinaia di articoli, reportage e interventi pubblici.
Quando gli fu conferito il premio Nobel per la Pace, nel 1986, era già uno scrittore studiato nelle scuole d’America, dalla fama universale. Il 3 luglio scorso, quando si è spento nella sua casa di Manhattan, Wiesel ha ricevuto gli onori di un vero capo di Stato. E tuttavia, fin dai primi giorni successivi alla morte, intorno alla sua lezione non sono mancate voci dissonanti tra gli intellettuali americani. Specialmente di origine ebraica.
A dare il via al dibattito è stato Corey Robin, professore di Scienze Politiche al Brooklyn College, tra i primi sostenitori di Occupy, molto seguito sui social. Wiesel “ha contribuito a trasformare l’Olocausto” scrive su Jacobin “in un’industria di moralità conformista, di sentimentalismo manipolatorio”. Un’affermazione forte che stride col tono piuttosto omogeneo della grande stampa. Robin parte dalla messa in onda nel 1978 del serial televisivo Holocaust, grandissimo successo di pubblico della Nbc, scritto da un ebreo americano di sinistra, Gerald Green. È quello il momento rivelatorio in cui Wiesel accusò la serie di americanizzare, estetizzare la Shoah: «L’Olocausto trascende la storia […] I morti sono in possesso di un segreto che noi esseri viventi non possiamo e non siamo degni di conoscere», scrisse Wiesel.
Robin non ci sta. Holocaust era pessima televisione e pessima recitazione, dice, e oggi la serie risulta inguardabile. E tuttavia quello è stato un momento fondante nell’identità ebraica contemporanea per milioni di americani. Come la Guerra dei sei giorni, un passaggio cruciale nella formazione di un adolescente come lui, ebreo di Chappaqua, New York. Sia benvenuta la melassa, se serve a divulgare. Certo, rigettando la presa di posizione di Wiesel c’è un rischio, quello di ritrovarci col conforto al saccarosio stile Oprah Winfrey che all’uscita di Schindler’s List fece sapere: “Sono diventata una persona migliore dopo aver visto questo film”. (Tredici anni dopo, per rimediare alla figuraccia di aver promosso un memoir-truffa di James Frey tramite il suo potentissimo Book Club, la star televisiva decise di raccomandare proprio La notte, suscitando l’ironia caustica del giornalista veterano Alex Cockburn nel pezzo “Chi è più poseur, Frey o Wiesel?”.)
Wiesel ha contribuito a sacralizzare l’Olocausto in un’epoca in cui l’antisemitismo negli Stati Uniti era ancora rampante e la cultura di massa non attrezzata come ora.
Se Hollywood – fondata da un manipolo di imprenditori ebrei europei a inizio Novecento – è un’industria dal sentimentalismo portentoso, molta letteratura ebrea americana del secondo Dopoguerra sarà caratterizzata da uno spirito libero, ironico, iconoclasta. Uno dei commenti più cattivi su Spielberg e Schindler’s List arrivò dal fumettista Art Spiegelman, autore di Maus, una storia a fumetti dell’Olocausto, secondo il quale “ciò che il film evoca in me è l’immagine di sei milioni di statuette degli Oscar, che s’innalzano come angeli verso il cielo, emaciati, indossando uniformi a strisce”. Ma forse il commento definitivo ce lo regalò proprio il regista, che nel momento di ricevere l’Academy Award ringraziò i “sei milioni che stanotte non potranno guardarci”. Nel dibattito su Wiesel la questione centrale è, inevitabilmente, se si possa “fare” o meno arte con l’Olocausto, e con le diverse anime dell’ebraismo americano, con i limiti e i tabù che ciascuna si è imposta.
Adorno era volutamente provocatorio quando diceva che non si poteva più scrivere poesia dopo Auschwitz. Il critico del cinema Philip Lopate, ebreo newyorchese di sinistra, negli anni Ottanta gli rispose: “Perché no?”. Ciò che intendeva Adorno era che nessuna forma d’arte avrebbe avuto senso, se non avesse tenuto conto di Auschwitz. Lopate allora citò Paul Celan, Nelly Sachs, Tadeusz Kantor e molti altri, spiegando che l’arte è una vasta arena, che certe tonanti affermazioni finiscono col mettere lo stampino su ogni attività creativa, mentre l’individuo si ritrova solo coi suoi dubbi e i suoi grovigli. Wiesel un tempo dichiarò: “Arte e Auschwitz sono incompatibili”. Per Lopate il problema era proprio questa riserva, questa sorta di dominio che, secondo Wiesel e altri, andrebbe protetto dalle avide mani degli artisti. E ci andò giù duro: “A volte sembra che ‘l’Olocausto’ sia una multinazionale guidata da Elie Wiesel che ne difende i brevetti con articoli nella sezione Arts and Leisure del Sunday Times”.
Il dissenso in America è un campo variegato e variopinto. Ma è anche un campo in cui, arrivando dall’Europa, è facile inciampare goffamente, diventando insensibili sia alle rivendicazioni dei sopravvissuti, sia al modo in cui essi hanno scelto di rappresentarsi e rappresentare la propria esperienza. Sarà pure, come scrive Robin, che c’è una componente piuttosto rilevante della cultura ebraica estremamente razionalistica: ad esempio i maimonidi, che quasi stravolsero la Torah per infarcirla di Aristotele. Questa componente mal sopporta l’idea di un Olocausto al di fuori della Storia (“L’evento definitivo, il mistero definitivo”, come era solito dire Wiesel, in una ritualizzazione che secondo Lopate è “un prestito inconscio dalla teologia cristiana […] assai simile alla Passione di Cristo”).
Va detto però che Wiesel ha contribuito a sacralizzare l’Olocausto in un’epoca – gli anni Sessanta e Settanta – in cui l’antisemitismo negli Stati Uniti era ancora rampante e la cultura di massa non attrezzata come ora. Il problema, oggi come ieri, è capire se gli spazi di rappresentazione nell’arte, nella letteratura corrispondano a spazi reali di dissenso al di fuori di esse; nella discussione politica e sociale. Nel suo saggio A chi appartiene Auschwitz? Imre Kertész – anche lui un sopravvissuto, premio Nobel per la letteratura, morto pochi mesi prima di Wiesel – parlava di “un kitsch dell’Olocausto”:
Ritengo che sia kitsch quel tipo di rappresentazione che non vuole o non è in grado di comprendere la relazione fondamentale tra la nostra deforme vita civile e privata e la possibilità dell’Olocausto, che estrania una volta per tutte l’Olocausto dalla natura umana e si impegna a escluderlo dalla cerchia delle esperienze umane.
La posizione degli intellettuali americana di sinistra circa l’istituzionalizzazione della Shoah riflette, in larga parte, quella di Kertész. Ma c’è pure la viscerale insofferenza per le reazioni negative o censorie della stampa mainstream, di quella televisiva, dei “direttorissimi” nei confronti di qualunque critica a Wiesel. Leggere questa storia di Haaretz – in cui si spiega quanto poco avesse “attecchito” Wiesel nel suo Paese elettivo – può aiutare a capire meglio la famosa insularità americana. I libri di Wiesel, tuttora obbligatori in moltissimi licei degli Stati Uniti, non sono mai stati adottati dal sistema scolastico israeliano. La notte era un libro pressoché sconosciuto agli studenti di Gerusalemme o di Tel Aviv; né la destra né la sinistra vedevano Wiesel di buon occhio, per diverse ragioni. Il suo specifico modo di porsi – quello del sopravvissuto che avvolge la sua esperienza in un’aurea di religiosità fuori dalla Storia – non sembra aver funzionato da quelle parti.
Secondo Robin, l’articolo di Haaretz mostra implicitamente “il tono sottomesso che tutti siamo tenuti ad adottare qui negli Stati Uniti quando parliamo di Wiesel, non ha a che vedere tanto con l’Olocausto e neppure Israele, quanto con l’invadente sentimentalismo della cultura e del dibattito in America. L’idea che il trauma conferisca privilegio e precluda qualsiasi giudizio o discussione, e che in definitiva tutti debbano comportarsi come fossero in chiesa”. Primo Levi aveva una particolare avversione per le modalità con cui predicava Wiesel, di cui pure era amico; non ne sopportò il silenzio e il distacco durante la strage di Sabra e Chatila, nel 1982. E così il verdetto di Wiesel sul suicidio di Levi (“era morto ad Auschwitz quaranta anni fa”) risulta ancora più spietato. In un articolo comparso sul New Yorker del 2002, si legge (la traduzione è mia):
Come la maggior parte degli ebrei italiani, lui credeva nell’assimilazione. E non considerava gli ebrei degli eroi per il fatto che Hitler aveva tentato di sterminarli. Per come la vedeva, erano soltanto esseri umani – il crimine del fascismo era di averli privati di questa condizione – e l’umanità era quello che dovevamo capire, se nutrivamo qualche speranza per un mondo più giusto. […] Questo gli costò una fiumana di lettere che lo accusavano di dare sostegno al nemico. Levi – il ‘grande artista’, la ‘grande anima’ tra gli scrittori testimoni – non era utilizzabile nel modo in cui lo erano gli altri. E non a caso, non fu Levi ma il suo amico Elie Wiesel a ricevere il premio Nobel.
Ha detto Philip Wohlstetter, tra gli animatori del 1968 alla Columbia University: “C’era da scegliere il proprio campo: per Wiesel era ‘mai più a noi’; per Levi ‘mai più a nessuno’”. Una spaccatura che secondo il filosofo Carl Sachs corre da decenni attraverso il Giudaismo e le posizioni su Israele: i nazionalisti dell’Aipac contro i pacifisti del Jvp, eccetera. La tensione tra il volere abolire gli stivali e la paura che una persona debba o indossarli o starvici sotto. E Isaac Asimov, che era di Brooklyn, nonché un noto progressista, si divertiva a provocare Wiesel facendogli notare che l’unica volta in cui gli ebrei hanno potuto opprimere qualcuno lo hanno fatto (gli Edomiti, diceva).
E non ci vuole molto a immaginare che sulla questione palestinese Wiesel avesse più di un nemico a sinistra. Egli, che non aveva mai vissuto in Israele, nel 2010 comprò una paginata sul New York Times nella quale rigettava la pretesa di Obama verso il governo israeliano di bloccare la costruzione di nuove case nei quartieri orientali della città. Recitava così: “Per me, come ebreo quale sono, Gerusalemme è al di sopra della politica. È menzionata più di seicento volte nelle Scritture – e non una singola volta nel Corano”. Il che provocò, oltre al prevedibile scontro con Norman Finkelstein, un suo acerrimo nemico, anche un articolo di Christopher Hitchens su The Nation dal titolo Weasel Words (dove “weasel” in inglese sta per “subdolo”): “C’è un posatore più spregevole e parolaio di Wiesel? Suppongo di sì. Ma non c’è sicuramente un posatore e un parolaio che riceve […] una deferenza così grottesca sulle questioni morali”.
Ma criticare Wiesel vuol dire correre il rischio, grossissimo, sempre in agguato, di dare spazio e fiato a chi minimizza o delegittima per intero certi eventi. E in fondo che male ci sarebbe, si chiede lo scrittore Joshua Saltzman, se l’Olocausto fosse divenuto davvero un nuovo capitolo della Torah? Come tante altre, Wiesel era una vittima finita con l’essere idolatrata, ma prima d’ogni altra cosa era il suo trauma l’aspetto centrale della sua esperienza. Così come, c’è da dire, è centrale il concetto di trauma nel dibattito culturale contemporaneo in America; con le diverse risposte che al trauma (etnico, sessuale, religioso, eccetera) vengono date pur nello scorrere impetuoso del mondo, senza che vadano a contrastarsi a vicenda. Sia la risposta di Levi che quella di Wiesel sono valide. Entrambe sono meritevoli d’essere esplorate.
Gore Vidal era solito tirar fuori in occasioni del genere la parafrasi di William Cullen Bryant sul parlare di chi è morto da poco: De mortuis nil nisi verum – dei morti, nient’altro che la verità. Ma è pericoloso aggredire le modalità con cui un individuo, qualunque individuo, famoso o sconosciuto, sopravvive alla tortura e all’oppressione, senza prima riconoscere che, qualunque siano le ragioni, quello è il modo in cui egli è riuscito a sopravvivere. Forse c’è bisogno di riconoscere questo: talvolta le cattive teologie o le cattive filosofie sono servite, per chi scrive e per chi ascolta, come una risposta ad esperienze autenticamente e straordinariamente orrifiche.