N ell’estate del 1943 i soldati tedeschi – migliaia di uomini e centinaia di mezzi, tra veicoli e blindati – attraversarono lo Stretto di Messina ritirandosi dalla Sicilia ormai persa contro le forze alleate. “L’invasione di pericolose ombre di uomini non più uomini per noi ma mastini che hanno infestato il paese entrando nelle case e frugando in ogni angolo alla caccia degli uomini lucertole”, così una ragazza calabrese di diciannove anni raccontò il passaggio dei tedeschi in un villaggio calabrese.
Il mito del soldato tedesco spietato carnefice inumano è protagonista di una produzione memorialistica, cinematografica e letteraria sterminata, frutto di fatti tremendamente concreti: 15.000 civili italiani furono vittima di stragi naziste, a cui vanno sommati oltre 30.000 deportati, per tacere della cornice più grande, il conflitto mondiale. I «bravi» e i «cattivi» (Donzelli), una raccolta di cinque saggi curata da Massimo Castoldi, filologo, critico letterario e direttore della Fondazione Memoria della Deportazione di Milano, affianca allo stereotipo dell’efferatezza militare tedesca quello della presunta bontà italica, sviluppatasi di pari passo, e ne indaga motivi e limiti storico-culturali. (Una curiosità: digitando su Google “soldati tedeschi”, il primo suggerimento è “soldati tedeschi buoni”).
Il punto del libro, però, è un altro, e viene inglobato dalla sfera della memoria. Se i tedeschi hanno impresso sul continente il trauma culturale per eccellenza, l’Olocausto, è pur vero che ormai da tempo – lo racconta Thomas Altmeyer nel saggio che apre il libro – hanno mostrato di volerci fare i conti. Da quando il cancelliere Willy Brandt s’inginocchiò nel 1971 di fronte al monumento che a Varsavia ricorda la distruzione del ghetto, fino a oggi, con le decine di siti, centri documentali e iniziative che hanno l’intenzione di “portare a una migliore comprensione dei crimini di Stato del nazionalsocialismo e a quelle della deriva da uno Stato di diritto a un regime totalitario”. Non un percorso lineare e semplice, e il reale impatto di iniziative del genere sulla società tedesca, soprattutto verso i giovani, è periodicamente da valutare; eppure la volontà autocritica della nazione è chiara.
Se i tedeschi hanno impresso sul continente il trauma culturale per eccellenza, l’Olocausto, è pur vero che ormai da tempo hanno mostrato di volerci fare i conti.
“Il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana è punito con la reclusione da uno a cinque anni”. Lo sapevate? È una legge italiana del 1937, precedente di un anno le leggi antiebraiche. Eppure perdura la leggenda del buon fascismo italiano infettato dalla cattiveria nazista, dimenticando in un colpo solo i crimini dell’esercito italiano in Africa, i massacri compiuti nei Balcani e in Grecia, lo zelo mostrato nella deportazione degli ebrei, e così via. In realtà un monumento in memoria dell’epopea colonialista italiana è stato costruito, ad Affile, nel Lazio, e celebra il maresciallo Rodolfo Graziani, riconosciuto criminale di guerra. Filippo Focardi racconta come è stato alimentato il mito della bontà italiana, e perché: a conti fatti, conveniva a tutti distinguersi dall’ingombrante amico-poi-nemico tedesco.
Addentrandosi nelle nebbie del tempo e offrendo una prospettiva storica fondata su una visione matura dei fatti, i saggi di Raoul Pupo e Luigi Ganapini si soffermano sulle vicende del confine orientale – appiattito da anni sul tema delle foibe – e su quello sbandamento della coscienza nazionale che fu l’8 settembre. Il Re in fuga, soldati che mostrano fedeltà alla nazione, la guerra partigiana, i racconti di Beppe Fenoglio e Luigi Meneghello, ma anche Giovannino Guareschi e Salvatore Satta. Un italiano – scrive Ganapini di Meneghello – con “la coscienza di aver partecipato a quelle vicende e di non potersi dire estraneo alle responsabilità dell’intero paese”.
“Direi che la memoria, soprattutto, è una questione di responsabilità nei confronti di cui spesso non si è l’autore”: una frase del filosofo camerunense Achille Mbembe è posta in esergo al saggio di Paolo Jedlowski che chiude la raccolta; ed è lo stesso Jedlowski a scrivere parole decisive, “la memoria autocritica non si può imporre per decreto”.