U na processione tra le stelle, krestny khod in russo, è quella che attende Serafino di Sarov, santo della Chiesa ortodossa, decollato il 17 ottobre scorso dal cosmodromo di Baikonur, base di lancio spaziale di epoca sovietica oggi amministrata dalla Federazione Russa. Serafino, nato a Kursk nel 1759, eremita che fece voto del silenzio, fu amico di un orso, e si dice che quando morì la sua anima saettò nel cielo tramutata in cometa. Oggi, dopo ottant’anni trascorsi nello sgabuzzino dell’Unione Sovietica, anche le sue ossa potranno ascendere alle sfere celesti. Ben impacchettate e legate al petto del comandante Sergei Ryzhikov, le sante reliquie di Serafino sono state lanciate a bordo del razzo Soyuz, per un tour di cinque mesi nello spazio infinito. Aleksy Pestretsov, portavoce della Chiesa ortodossa russa, ha dichiarato che “il santo, in processione attorno al globo, abbraccerà fisicamente e spiritualmente il mondo intero”. Una volta tornate sulla Terra, le reliquie verranno traslate nella Cattedrale di Città delle Stelle, Zvyozdny Gorodok, il centro di addestramento per cosmonauti situato alla periferia di Mosca.
Così, l’amico dell’orso, si trova morituro a essere protagonista di una delle più grandi operazioni di soft power mai realizzata da un ente confessionale. Operazione dietro cui si cela il rinnovato – e fondamentale – legame tra il Cremlino e la Chiesa ortodossa, oggi più che mai amica dell’orso russo.
Gagarin non vide Dio
Gagarin è andato nello spazio, e non ha visto Dio. Questo era uno degli slogan più in voga in Russia durante l’epoca sovietica e raccontava di un paese che aveva – o avrebbe dovuto, nell’intenzione dei suoi governanti – liberare sé stesso da “superstizione religiosa e dogmi”. Il primo uomo nello spazio, Jurij Gagarin, era dunque il simbolo dell’ateismo trionfante, del razionalismo scientifico e del progresso materiale dell’URSS. Per questo l’ingresso della Chiesa ortodossa nel tempio dell’esplorazione spaziale è stata vissuta da alcuni come un’intrusione. Esso è però la testimonianza del potere raggiunto dalle gerarchie ecclesiali nella società russa. Un potere sempre maggiore che si deve, in larga misura, all’operato di Vladimir Putin, presidente della Federazione Russa, attento a ricostruire nel paese un’identità nazionale legata al recupero dei valori religiosi che l’epoca sovietica cercò, invano, di obliterare. Come al tempo degli zar, Vladimir Putin ha fatto del patriarcato il braccio spirituale del Cremlino. L’alleanza tra trono e altare si è rafforzata notevolmente negli ultimi anni grazie al dinamismo del patriarca Kirill, a capo della Chiesa russa dal 2009.
L’alleanza tra trono e altare
Non si tratta però di un’alleanza tra uguali. La tutela del Cremlino sul patriarcato si può riassumere in quello che, a prima vista, può apparire un semplice atto simbolico, ovvero lo spostamento – nel 2011 – della residenza del patriarca proprio all’interno del Cremlino, sede del potere politico. Una tutela che, tuttavia, conviene a tutti per molte ragioni. Anzitutto, grazie alla protezione dello stato, il numero di russi che si dichiarano credenti è passato dal 31% degli anni Novanta al 73% nel 2014. In secondo luogo, la Chiesa ortodossa russa è tornata in possesso di tutte le proprietà confiscate dai bolscevichi. Infine, grazie ad alcuni speciali “privilegi”, che includevano l’importazione di tabacco e alcolici esentasse, il patriarcato ha potuto mettere insieme un discreto gruzzolo di rubli, pari a quattro miliardi di dollari secondo il Moscow Times. Così il rapporto tra Chiesa e stato è cresciuto nel nome di quella che Kirill chiama “symphonia”, termine che in epoca giustinianea descriveva la comunanza armonica del potere spirituale con quello secolare.
La Chiesa e il “mondo russo”
Il Cremlino ha sapientemente usato la religione come strumento di coesione sociale, inserendola in quel complesso processo di (ri)costruzione dell’identità nazionale culminato nel russkij mir, vera impalcatura ideologica dello stato emerso dalle ceneri sovietiche. Uno stato che, non potendo più attingere all’ideologia comunista, necessitava di reinventarsi ritagliando per sé un destino, una missione, nei confronti del mondo. L’esito fu appunto il russkij mir, “mondo russo”, dottrina elaborata a partire dalla metà degli anni Novanta, e perfezionata nell’ultima decade, secondo cui la nuova Russia deve porsi come alternativa al modello occidentale, quale diversa forma di “civilizzazione”, inserendosi in un ordine mondiale che Mosca vuole multipolare. La dottrina del “mondo russo” assume in sé caratteri propri del nazionalismo e dell’imperialismo – quali la difesa e l’integrazione dei russi “etnici” –, dell’antioccidentalismo, del conservatorismo religioso. La Chiesa ortodossa russa diventa quindi un elemento fondamentale poiché, mentre da un lato garantisce unità interna al paese, dall’altro diventa strumento di politica estera.
Mentre da un lato la Chiesa ortodossa garantisce unità interna al paese, dall’altro è un utile strumento di politica estera.
La Chiesa ortodossa russa, strumento di politica estera
Dopo la dissoluzione dell’URSS, la Chiesa ortodossa russa ha dovuto anzitutto ricostruire una propria struttura ma nel farlo non ha dimenticato i milioni di fedeli sparsi nel mondo. Fin dal 1993 l’attuale patriarca Kirill, all’epoca a capo del Dipartimento delle relazioni esterne del patriarcato di Mosca, ha cercato di connettere i russi della diaspora con la madrepatria, rivolgendosi a tutti gli ortodossi che, pur non facendo riferimento al patriarcato russo, ne riconoscono il ruolo di guida. Sono state gettate così le basi per quella che oggi è una vera e propria politica estera che il patriarcato esercita per conto del Cremlino.
Il caso più eclatante è senz’altro quello greco. In piena crisi economica, nel 2012, la Russia di Putin offrì al governo di Atene un prestito di 25 miliardi di dollari e, soprattutto, relazioni economiche privilegiate tra i due paesi, allo scopo di togliere la Grecia dall’influenza di Bruxelles. Quelle relazioni passarono attraverso una serie di contatti tra gli sherpa di Kirill e sua Beatitudine Hyeronimus, primate della Chiesa greca. Seguirono incontri ufficiali e la visita di Vladimir Putin ad Atene. Se l’accordo politico non andò in porto, esso aprì la strada a nuove relazioni diplomatiche culminate nel 2015 con l’accordo per la costruzione del gasdotto Turkish Stream.
Il più grande successo diplomatico ottenuto dal Cremlino attraverso il patriarcato è però la rottura dell’isolamento diplomatico dovuto all’annessione della Crimea. L’incontro del giugno 2015 tra papa Bergoglio e Putin è stato il risultato dell’intenso lavoro di riavvicinamento tra Vaticano e Chiesa ortodossa russa. Un intreccio di relazioni, quello tra Kirill, Bergoglio e Putin, dalle importanti ricadute internazionali: pochi mesi dopo l’incontro in Vaticano, Putin rispondeva all’appello del Papa per “la pace in Siria” intervenendo direttamente nel conflitto a fianco di Assad. In quell’occasione Kirill definì Putin “l’ultimo difensore dell’Occidente”. Un giudizio certo esagerato, ma condiviso nella sostanza dalla Santa Sede che già nel 2013, in occasione del vertice dei G-20 di San Pietroburgo, si rivolse a Putin con una lettera nella quale ci si appellava alla Russia affinché si facesse garante della pace in Siria. A seguito di quella lettera, Putin incontrò Bergoglio portandogli in dono l’icona della Madonna di Vladimir, dal potente significato simbolico, poiché fu quella che Stalin fece volare su Mosca durante l’avanzata nazista. E un altro ‘male assoluto’ accomuna Cremlino e Vaticano: il fondamentalismo islamico. Una minaccia che allarma la Chiesa cattolica, la quale ha criticato Washington per la sua intenzione di abbattere Assad attraverso l’utilizzo di milizie fondamentaliste. Così l’asse tra Vaticano e patriarcato, in nome del superamento dello scisma e dell’unità contro le derive fondamentaliste, porta con sé rilevanti conseguenze per la politica estera russa. Il recente – e storico – incontro dell’Havana tra Kirill e Bergoglio è solo l’ultimo tassello di un grande gioco diplomatico che riguarda da vicino il Cremlino.
Conclusioni
La processione spaziale delle reliquie di Serafino di Sarov è il segno dell’influenza della Chiesa nella nuova Russia putiniana. L’operazione, dal costo di circa 150 milioni di dollari, è molto di più di una bizzaria religiosa. Si tratta di una esibizione di potere, una proiezione del soft power del Cremlino sul mondo ortodosso, una riaffermazione del “mondo russo” che va – possiamo dire – oltre i confini del mondo: se Gagarin non ha incontrato Dio nello spazio, Putin in un certo senso ce lo ha portato.