S ul fronte italiano della narrativa francese, quella di quest’anno ha tutta l’aria di una rentrée, come in Francia viene chiamato il periodo di massima attività editoriale dopo le ferie estive e subito prima dei maggiori premi letterari. Alcuni libri importanti usciti in traduzione a distanza di pochi giorni suggeriscono la vitalità di un paesaggio letterario che noi lettori italiani non siamo più abituati a frequentare – con l’eccezione dei casi macroscopici come Houellebecq e Carrère. Si potrebbe persino parlare di una “nuova scena francese”, se non fosse che la maggior parte degli autori in questione sono tutt’altro che nuovi, giovani o esordienti.
In Dopo il primato (Laterza 2011), esauriente perlustrazione della letteratura francese dal 1968 a oggi, Paolo Zanotti, nel capitolo dedicato all’incensato (in Francia) Pierre Michon, introduce lo scrittore in questo modo: “La mancanza di una traduzione di Vies minuscules, dopo quella di La place di Annie Ernaux, è il secondo grosso indizio che incontriamo di un inceppamento nei rapporti letterari italo-francesi, almeno dal punto di vista della ricezione editoriale”. Il libro di Zanotti sviluppa l’idea, difficilmente confutabile, di una progressiva diminuzione a partire dagli anni Settanta/Ottanta – e in concomitanza con la morte degli ultimi grandi maître à penser francesi (Sartre, Barthes, Lacan, Foucault, ecc.) – del ruolo centrale svolto in Italia e altrove da quella cultura e da quella letteratura, le due cose essendo in Francia strettamente connesse.
È forse un giudizio affrettato, ma sembra di assistere oggi, qui da noi, a una piccola inversione di tendenza: La place di Ernaux, uscito in patria nel 1983 e opera più conosciuta di quella che è considerata una delle – o forse la – più importante scrittrice francese della generazione nata tra gli anni quaranta e cinquanta, è stato infine tradotto e pubblicato nel 2014 da un editore (L’orma) nato due anni prima con l’obiettivo deliberato di rilanciare la letteratura francese e tedesca al di qua delle Alpi.
L’anno scorso ancora L’orma ha tradotto un altro libro fortunato di Ernaux, Gli anni (del 2008) che si è rivelato un caso editoriale, ottenendo un ampio successo di critica e pubblico. Prima dell’estate, ha dato alle stampe l’ultimo libro di Ernaux, L’altra figlia, e tutto lascia pensare che continuerà a coprire la produzione futura di questa scrittrice che in Italia si è ormai ritagliata una larga fetta di pubblico. Quello di Ernaux è uno stile che rappresenta bene una buona parte della letteratura francese “alta” degli ultimi trent’anni, caratterizzata da un gusto marcato per il frammento, l’elisione, la scrittura ostentatamente scarna, allusiva, “piatta” (è l’aggettivo che usa l’autrice per descrivere il proprio stile).
Lo stile di Ernaux rappresenta bene la letteratura francese “alta” degli ultimi trent’anni: un gusto marcato per il frammento, l’elisione, la scrittura ostentatamente scarna.
In Francia Ernaux è pubblicata da Gallimard, ma principale promotore di questo modello di reticenza e rarefazione stilistica è l’attuale portabandiera della narrativa più letteraria e “chic” tra gli editori francesi, ovvero Minuit éditions: alcuni dei suoi autori di punta, come Echenoz, Gailly, Toussaint, sono stati tradotti negli anni passati senza grandi riscontri ma contribuendo forse a creare in Italia la reputazione più o meno giustificata di quella francese come una letteratura astratta, intellettualistica, stilizzata fino all’esasperazione. In questo senso il già citato Pierre Michon costituisce una parziale eccezione.
Il suo Vite minuscole è stato finalmente pubblicato da Adelphi a inizio settembre, e anche in questo caso stiamo parlando dell’opera più nota di uno degli autori più celebrati degli ultimi decenni francesi. A differenza dei molti cultori dello spazio bianco e dello stile oracolare, la scrittura di Michon è quanto di più denso e barocco si possa immaginare e sarebbe più facile associarne le lunghe frasi sinuose a quelle di un Faulkner o a riferimenti francesi più distanti (il Rimbaud dei poemi in prosa è uno dei modelli dichiarati, nonché il soggetto del libro di Michon precedentemente tradotto in italiano da Passigli: Rimbaud il figlio). In comune con Ernaux tuttavia, Michon ha la componente autobiografica, tratto peculiare della letteratura non solo colta francese, vuoi per tradizione (Montaigne, Rousseau, Proust e via dicendo), vuoi per effetto di quel ripiegamento intimistico e soggettivo che ha caratterizzato la “fine delle grandi narrazioni” denunciata da filosofi e pensatori dello stesso paese (soggettività che a ben vedere la barthesiana-foucaultiana “morte dell’autore” più che inficiare sembra avere sofisticato, reso più “obliqua” e sperimentale).
Le Vite minuscole di Michon sono un punto di raccordo tra l’autobiografia e un altro genere diventato egemonico in terra francese tra gli scrittori delle ultime generazioni, ovvero la biofinzione: biografie poco filologiche e oggettive, più che romanzate apertamente manipolate dal narratore il quale spesso, come nel caso di Michon (che di biofinzioni ne ha scritte diverse) utilizza le “vite che non sono la sua” per parlare anche o soprattutto di se stesso. La precedente allusione è chiaramente riferita al Vite che non sono la mia di Emmanuel Carrère, che ha edificato il proprio successo su un’interpretazione particolarmente accattivante della biografia finzionale, ma tra i numerosi adepti del genere andrà almeno citato il premio Nobel Patrick Modiano, altro campione di reticenza e stile piatto, e il suo splendido Dora Bruder (del 1997, in Italia pubblicato da Guanda). Le vite di cui parla Michon sono quelle di personaggi appartenenti al passato famigliare e paesano da cui proviene l’autore: in un gioco di specchi e proiezioni il narratore si confronta con le dimenticate storie rurali del sud della Francia da cui vede emergere, generazione dopo generazione, la propria vocazione letteraria. Omaggio a un mondo perduto all’altezza degli anni Ottanta, quindi, ma anche romanzo d’artista e riflessione sul rapporto tra quel mondo e l’ambizione letteraria.
I libri di Michon e Ernaux sono perlopiù brevi e concentrati come molta della literary fiction francese degli ultimi decenni. Anche Antoine Volodine, che dagli anni ottanta a oggi ha scritto una quarantina di libri sotto diversi pseudonimi e non è quindi certamente un autore nuovo, ha prediletto misure non troppo esose almeno fino all’ultimo Terminus radioso (2014), pubblicato alla fine dell’estate da 66th and 2nd. Apprezzata, studiata e in molti casi riverita tra addetti ai lavori e lettori eccentrici, l’opera di Volodine ha certamente subito una svolta fortunata con questo ultimo, ponderoso romanzo, che segna un parziale distacco dai suoi precedenti lavori – più ermetici, più contorti – senza rinunciare ai capisaldi di una poetica fissata per sommi capi nel 1998 in un geniale pseudo-pamphlet a metà strada tra saggio e invenzione narrativa, Le Post-exotisme en dix leçons, leçon onze (anche questo di prossima pubblicazione da 66th and 2nd).
Énard usa la storia come materiale di lunghe divagazioni narrative attraverso il tempo, lo spazio, e la storia politica e culturale dell’Europa nell’accezione più vasta del termine.
Terminus radioso è la summa dei temi e delle ossessioni di uno scrittore a suo modo eccezionale, uno dei casi più interessanti di immaginazione letteraria portata all’estremo che sia possibile reperire in questo momento, e non solo in Francia. Scenari distopici, postapocalittici e concentrazionari ambientati tra le steppe centro-asiatiche, un assurdo e caricaturale immaginario geopolitico improntato all’apologia di un comunismo postumo collocato in futuri prossimi e remoti, una cronologia fluttuante, la onnipresente componente onirico-magica, nonché una forte dimensione di “soperchieria letteraria” (come la chiamava Charles Nodier) per cui toponimi inventati e strampalati, eteronomi altrettanto bizzarri di autori inesistenti (i quali spesso firmano le opere di Volodine, a sua volta nom de plume di uno scrittore dalla biografia pressoché ignota), finte traduzioni, e tutta una panoplia di artifici borgesiani contribuiscono a costruire un universo immaginario compatto, coerente nella sua incoerenza, abbagliante nella sua visionarietà, di libro in libro, di finzione in finzione.
L’idea di Volodine è quella di realizzare una sorta di “xenoletteratura”, una letteratura aliena, “straniera” e straniata, ed è effettivamente difficile collocarlo entro precise coordinate culturali, sebbene sia altrettanto difficile sostenere (come pure lui ama fare) che la radicalità della sua proposta letteraria non debba nulla alla teoria e all’avanguardia francese del secondo Novecento. Volodine è stato portato in Italia solo di recente da piccoli editori: prima di 66th and 2nd ci hanno pensato Barbès nel 2013 (poi diventato Clichy e come L’orma prevalentemente impegnato nella traduzione di narrativa francese), quindi L’orma stesso (che la primavera scorsa ha pubblicato uno dei suoi libri più noti, Angeli minori, del 1999).
Altro autore emerso di recente è Mathias Énard, unico tra tutti a poter essere definito relativamente giovane (è nato nel 1972 e ha esordito nel 2003) e quindi effettivamente “nuovo”. I suoi libri sono stati tradotti in italiano con una certa tempestività, compreso l’ultimo Bussola, uscito a inizio settembre per E/O. Si tratta, almeno per quanto riguarda i suoi romanzi maggiori, di libri ambiziosi, caratterizzati da un grande spiegamento di erudizione e da uno stile fluviale ben evidenziato in Zona – il romanzo che l’ha consacrato in Francia e nel mondo – da una punteggiatura pressoché inesistente: poche virgole e nessun punto fermo per quasi 500 pagine.
Énard usa la storia come materiale di lunghe divagazioni narrative attraverso il tempo, lo spazio, e la storia politica e culturale dell’Europa nell’accezione più vasta del termine: da quella continentale a quella mediterranea, dai Balcani al Levante, dal Maghreb all’Islam ottomano, passando per il colonialismo e i tessuti connettivi tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud. L’intenzione sembra quella di offrire un’immagine di questa parte del mondo come un enorme crocevia ribollente di culture in continuo contatto e conflitto, luogo emblematico (la Zona) di violenze ma anche di ibridazioni e attraversamenti. Giocando sulle stratificazioni e le coincidenze temporali sulla scia di autori come Sebald e Magris, quelli di Énard sono libri che guardano al presente, alla costruzione di una memoria comune, per quanto movimentata e traumatica, in antitesi diretta al montare dei neo-nazionalismi europei. In questo senso Enard è il più esplicitamente politico tra gli autori qui citati e per questo – oltre che per le sue indubbie qualità letterarie – i suoi libri sono diventati oggetto dell’interesse e dell’attenzione della critica a livello internazionale.
Questi autori sembrano semplicemente osare di più, sperimentare di più, affidarsi più rischiosamente all’elaborazione formale e all’estro creativo.
È forse solo una coincidenza quella che ha visto questi notevoli romanzi francesi uscire in Italia nel giro di pochi giorni o settimane: d’altronde sia Bussola che Terminus radioso hanno vinto premi importanti (nell’ordine, Goncourt e Médicis), ed era quindi fisiologica una loro traduzione anche dalle nostre parti. Più significative sono forse le operazioni di ripescaggio di opere già semi-canonizzate in patria. Esistono editori, come quelli già citati (ma anche i vari Del Vecchio, Keller, Nottetempo, Voland…) dediti a importare e rivitalizzare la letteratura d’oltralpe, e sicuramente una strategia editoriale oculata può decidere il successo di un libro laddove i meccanismi rigidi dell’editoria manistream tendono a una promozione generalista, poco mirata e perciò penalizzante per prodotti non profilati sul gusto comune (penso ad esempio a Ernaux, di cui Rizzoli aveva già pubblicato Una passione semplice senza sollevare il polverone che è succeduto alla pubblicazione della stessa autrice per L’Orma).
Ma non è una regola: esistono altri casi di autori ben conosciuti in Francia e proposti da piccoli o grandi editori, ad esempio Philippe Forest, che hanno riscosso da noi quantomeno una grande attenzione critica e altri ancora passati abbastanza in sordina (Orsenna, Ferrari, Djian, ecc.). Alcuni hanno vinto premi in Francia altri no. Persino i recenti premi Nobel Modiano e Le Clézio non sembrano avere fatto breccia nei gusti del lettore italiano, e questo di nuovo indipendentemente dal fatto che i loro libri siano stati pubblicati da piccoli e da grandi editori. È difficile stabilire un criterio: i soliti Houellebecq e Carrère continuano ad accumulare crediti e fungere da apripista per la letteratura francese all’estero, spesso riuscendoci grazie a un’accondiscendenza formale che non va a discapito della qualità, avvicinandoli invece a standard più globali e a dispositivi narrativi tendenzialmente meno idiosincratici. È dunque probabilmente più un mio auspicio che un rilievo critico oggettivo quello di una crescente attenzione verso la letteratura francese contemporanea che, pur avendo perso terreno in termini di egemonia, continua a insistere su specificità che altrove vanno stemperandosi, sia per effetto dell’influenza incontrollata di modelli angloamericani che per la tendenza degli editori (soprattutto dei grandi) ad assecondare questo corso.
La Francia è un paese che ha sempre tenuto a mantenere una forte autonomia politica e puntato moltissimo, in questo senso, sulla produzione culturale, non esitando ad adottare scelte protezionistiche (finanziamenti mirati a favorire prodotti culturali francesi dentro e fuori i confini nazionali, controllo e limitazione dell’importazione culturale). Se tutto ciò ha significato in certi casi un’eccessiva “istituzionalizzazione” della cultura, è anche all’origine di una resistenza alla globalizzazione-normalizzazione dei prodotti artistici che è difficile stigmatizzare. La Francia “dopo il primato”, ha pagato il prezzo di una relativa impermeabilità favorendo un mercato letterario interno ricco ma un po’ autoreferenziale (“franco-francese” come si dice), comunque più immune di altri all’omologazione.
In questo contesto, certe forme si sono sclerotizzate fino a diventare indigeste e poco attraenti per gli stranieri: ma la specificità locale, per così dire, è anche la ragione di libri ancora capaci di sorprendere, apparire eretici, eterodossi, ambiziosi e “nuovi”. Se certi temi esibiscono quasi naturalmente una vitalità molto più flebile sul lato opposto dell’Atlantico (penso ad esempio alla capacità di confrontarsi con la storia, anche in chiave apertamente fantastica come fa Volodine, o alla vasta galassia delle “scritture dell’io”), a uno sguardo smaliziato i libri di cui ho parlato sembrano semplicemente osare di più, sperimentare di più, affidarsi più rischiosamente all’elaborazione formale e all’estro dell’autore, e questo sia rispetto all’ultimo americano di cui si esaltano grandezza e virtù (che poi spesso, alla lettura, si faticano a trovare), sia rispetto ai tanti narratori non americani che quelle virtù, vere o presunte, cercano di replicare producendo copie di copie in un circolo mimetico destinato, se non all’usura, all’eterno provincialismo dei secondi arrivati.