“Marc Camille Chaimowicz. Maybe Metafisica”, a cura di Eva Fabbris con la direzione artistica di Edoardo Bonaspetti, aprirà al pubblico presso La Triennale di Milano il 13 ottobre 2016. La mostra sarà visibile fino all’8 gennaio 2017. Oggi pubblichiamo un profilo di Chaimowicz di Giovanna Manzotti, che è assistente alla curatela della mostra.
M arc Camille Chaimowicz crea sculture, disegni, dipinti, fotografie; poi mescola questi elementi con le arti decorative: li ricombina in elementi di arredo, mobili, ceramiche, tappeti, mensole, carta da parati. Quest’ultima vive della sua propria tattilità visiva, come una scultura: non è solo un oggetto di design che demarca uno spazio ma parte integrante di un contesto di più ampio respiro – che sia una stanza o un’intera parete.
Chaimowicz prende le distanze dalle correnti Minimalista e Concettuale, a favore di una pratica che abbatte i confini tra performance e installazione, arte e design, spazio sociale e privato, intimo e formale, in risposta diretta al dogma politico e artistico del suo tempo. I suoi ambienti, carichi di tensione emotiva, hanno un richiamo glamour e una vena malinconica.
La sua formazione culturale, prima che artistica, è tesa tra il proprio paese natio – la Francia – e quello d’adozione – la Gran Bretagna. Nato a Parigi nel 1947, Chaimowicz si trasferisce con la famiglia a Stevenage, in Inghilterra. È il 1954. Il padre è un matematico polacco che emigra in Francia intorno agli anni trenta. La madre è un’ex apprendista nella couture Pacin, a Parigi: il settore della manifattura tessile dell’epoca è un’eccellenza viva, e sarà lei a trasmettere al figlio quella particolare sensibilità per il mondo dell’artigianato che nel tempo diventerà un nodo importante ed un tratto distintivo della sua produzione artistica. Formatosi a Londra presso l’Istituto d’Arte Ealing e successivamente al Camberwell College, dal 1968 al 1971 frequenta la Slade School of Fine Art. Porterà a termine il proprio percorso di studi con la distruzione di tutti i suoi dipinti. Ricorda di quel periodo, in una conversazione con Michael Bracewell su Mousse:
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] al Camberwell College of Arts, per il mio primo corso di pittura, ci hanno mandati alla National Gallery a copiare i Cézanne, in modo che – questo speravano – capissimo meglio la sua pittura. […] Ma questo ha solo ha rafforzato il mio istinto di ribellione! Ho sviluppato un disprezzo sempre più marcato per la tradizione nell’educazione artistica. Non mi pento di aver scelto di andare a una scuola conservatrice perché per lo meno c’erano valori contro cui reagire.
Chaimowicz è uno studente politicamente impegnato. Nel 1968 prende parte all’occupazione studentesca dell’Hornsey College of Art e nello stesso anno parte per un viaggio di alcune settimane in Francia: cerca riparo a Parigi dopo una rottura sentimentale, ma trova ad attenderlo il Maggio Francese. L’adesione al movimento di protesta è decisiva per la sua vita e il suo lavoro: “Can I digest the personal and public trauma of May-June 68?” è la frase che si scrive sul collo, prima di scattarsi una foto in una cabina automatica. Una domanda ambigua, che oscilla tra personale e politico, tra esperienza del singolo ed esperienza collettiva. La risposta campeggia sulla fronte: “Yes”<–>”No”. Rientra a Londra e, influenzato dalla produzione cinematografica di Jean-Luc Godard e dalle azioni ambientali di Claes Oldenburg – tra gli altri – compie un gesto anarchico, disperdendo sull’Albert Bridge di Londra un centinaio di scarpe spaiate, coperte di vernice spray color argento (Shoe Waste, 1971).
Nel 1972 la Gallery House di Londra presenta l’installazione Celebration? Realife, rivisitata e ripresentata gli anni successivi in diverse istituzioni e gallerie, tra le quali di recente le Serpentine Galleries di Londra. A un bric-à-brac a pavimento animato da strisce luminose colorate, spot teatrali, sfere specchianti, coriandoli, fiori, lingerie, candele consumate, cavi elettrici, copie di riviste underground, una piccola replica del Bacio di Rodin e tanto altro, fanno da sottofondo i dischi di David Bowie e dei The Who. Chaimowicz vive lì, nella galleria: di notte dorme in una stanza accanto allo spazio; di giorno offre tazze di tè e chiacchiere ai visitatori. Qualsiasi tipo di barriera e distinzione tra performance e installazione, arte e vita, tra low o high profile, tra il “ruolo” dell’artista e dello spettatore sono azzerate.
Dopo circa due anni, Chaimowicz rientra in una dimensione più intima e appartata. Ne è testimone la performance Table Tableau (1974). Appoggiato a un dressing table, l’artista mostra la schiena al pubblico. Intorno a lui, sullo stesso tavolo, un posacenere, un vaso di fiori, dei fili di perle, delle candele accese e uno specchio che riflette i lineamenti del suo viso: tornano gli stessi oggetti di Celebration? Realife, riproponendosi come elementi affidabili e imprescindibili. Il suo appartamento-studio al piano terra in Approach Road di Bethnal Green, a sud di Londra (nel quale risiede dal 1975 al 1979) diventa un terreno fecondo per vivere e lavorare, una sorta di Gesamkunstwerk dove convivono alla pari oggetti, sculture, arredi, mobili e fotografie. La prima azione artistica di Chaimowicz nella nuova casa è una riproposizione di Table Tableau, ma in completa solitudine, senza audience. È qui che inizia a dedicarsi con attenzione e cura maniacale alla realizzazione di tende, carta da parati e oggetti, utilizzando quasi esclusivamente colori pastello: il lilla, il verde menta, i toni del grigio. Sempre da una conversazione con Michael Bracewell su Mousse:
Non riuscivo a usare il nero, non nel modo in cui ci riusciva Matisse. In realtà, quando mi è capitato, quando, per esempio, ho dato di recente alcuni disegni a Dovecot Studios – che ha fatto un eccellente lavoro di interpretazione ricavandone un tappeto – ho sempre specificato, riguardo al colore più scuro possibile da usare per un lavoro: vai a comprare una barretta di cioccolato fondente al 90 per cento, e quello sarà il tuo riferimento di colore. Il nero, specialmente in un tappeto, è davvero troppo violento
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Chaimowicz si ritaglia in questo modo una zona di lavoro androgina, portando alla luce la questione del “gendering of the domestic”, sulla figura femminile e le mansioni che la nostra società le attribuisce. Il 1977 vede la pubblicazione del libro Dream, an Anecdote: una raccolta di fotografie in bianco e nero nelle quali, in pose solitarie e contemplative, si relaziona con gli interni delle stanze e gli arredi da lui creati. Completano la narrazione alcuni testi autobiografici scritti in terza persona: un flusso di coscienza tra ricordi d’infanzia e riflessioni sullo scorrere del tempo. “Il suo studio appartamento era davvero speciale per lui. Una casa da corteggiare, un posto dove inscenare una certa domesticità, forse in memoria dei suoi giorni d’infanzia, passati a giocare con le sorelle nel loro appartamento di Parigi”. (Marc Camille Chaimowicz, Dream, an Anecdote, Nigel Greenwood, 1977).
Queste immagini tornano l’anno successivo in Here and There, installazione presentata in una mostra collettiva alla Hayward Gallery, sempre a Londra. Chaimowicz è uno dei pochi artisti uomini invitati. Le fotografie in bianco e nero – appese su pannelli color pastello appoggiati al muro della galleria in posizione precaria – si sommano in un racconto aperto. Come giustamente ricorda Kirsty Bell su Parkett, Per Chaimowicz la casa non era propriamente un rifugio pratico per le attività quotidiane come il dormire e il mangiare, ma piuttosto un luogo per un lavoro di immaginazione, di inattività e di sogni ad occhi aperti. […] Creando una continuità tra la sfera privata e pubblica, l’artista suggerisce che lo spazio espositivo è venato dell’intimità dell’io, mentre l’ambiente domestico è influenzato dal comportamento pubblico.
Nel 1980 acquista un appartamento in Camberwell New Road, nella zona sudest di Londra, dove sistema gli oggetti, gli arredi e i decori seguendo la stessa disposizione di Approach Road. Come afferma Eva Fabbris, curatrice della mostra di Chaimowicz ospitata dalla Triennale di Milano:
L’attitudine tanto poetica quanto operativa a ripensare, rifare, riadattare è caratteristica dell’artista, il quale raramente cristallizza il proprio lavoro in oggetti fatti e finiti, interessandosi piuttosto alla preziosità dell’idea e della forma. Chaimowicz reinventa ogni volta a seconda dei contesti, seguendo un principio di ciclicità che informa profondamente il suo pensiero e la sua pratica.
Questo ambiente diventa, ancora una volta, il set per una serie di scatti che da lì a poco vanno a comporre la struttura di Partial Eclipse (1980), performance di quaranta minuti nella quale a immagini in movimento si sovrappongono suoni e presenze fisiche. La scena è scarna, ma emotivamente coinvolgente: una sedia di legno è posizionata di fronte a una proiezione in una stanza illuminata solo parzialmente con delle luci al neon. Immagini di interni domestici scorrono in loop, mostrando un uomo – accompagnato poi da una donna dai lineamenti androgini – mentre compie gesti comuni. Si intravedono parti di corpi distesi, che delineano un’atmosfera vagamente erotica. Non mancano close up di dettagli: superfici, oggetti, fiori, tavoli da caffè. Un uomo – inizialmente l’artista stesso e nelle successivamente riproposizioni un ragazzo dal portamento molto simile (“Per l’occasione Alex, il cantante dei Franz Ferdinand, interpretava me. Tutto ciò prima che avessero successo, altrimenti ci sarebbe stata la fila fuori dallo studio, ti immagini? … Ci serviva una figura di una certa fascia d’età che fosse un mio surrogato e che camminasse durante la performance, e Lucy ha detto: ‘Ho un amico che può farlo. Si interessa di arte. È un musicista. È magro, ha i capelli scuri e si muove bene’. Ed è stato molto bravo”) – interrompe il flusso di immagini, camminando avanti e indietro davanti alla proiezione. Alle sfumare del ritornello in loop di Discreet Music di Brian Eno, subentra la registrazione di una voice over femminile che in un monologo ellittico, affronta con voce distaccata luoghi e memorie passati.
L’ambiente domestico si configura quindi come una condizione primaria, necessaria per predisporre e sviluppare una ricerca e una pratica artistica che nel tempo si aprirà a collaborazioni con altri artisti e designer, invitati di frequente da Chaimowicz a prendere parte ai suoi progetti. Anche il confronto e il dialogo con artigiani specializzati non è lontano da quella forma di desiderio a cavallo tra intimità e incontro sociale, già espressa a suo modo in Celebration? Realife e approfondita in una recente conversazione con Eva Fabbris su Mousse:
[…] l’intimità non è un tema, è lo stato d’animo che caratterizza la produzione. Ed è da questo sviluppo che emerge la situazione sempre leggermente conturbante e tesa in cui si trova lo spettatore delle sue opere totali, sollecitato sensorialmente, fin quasi eroticamente, dalle superfici palpitanti e dalle penombre sobrie in cui si muove questo artista”.