A manda Knox, il documentario di Netflix che è considerato il miglior racconto finora dei noti fatti di Perugia, mi ha ricordato The Jinx, The Imposter e Gone Girl: nell’ordine un documentario che racconta una storia troppo incredibile per essere vera, un’opera che ibrida realtà e finzione con risultati disturbanti e un film su come la fiction in cui siamo tutti immersi alteri profondamente la percezione della realtà, posto che siamo troppo narcisisti per non fare di noi stessi l’oggetto di un racconto continuo.
Il motivo di queste associazioni è fin troppo chiaro: Amanda, nel documentario a lei intitolato, recita, e con lei tutti gli altri attori di quel grande thriller in otto stagioni della mia generazione che è stato l’omicidio di Meredith Kercher. Tutto normale, eccetto che Amanda, in teoria, non dovrebbe essere un’attrice. Ma il setting in cui viene intervistata, seduta su uno sgabello davanti a uno sfondo grigio astratto, suggerisce che non ci sia nulla di strano nel fatto che questo stereotipo della ragazza qualunque sia tanto brava a enfatizzare le pause e i momenti di tensione con la voce e i movimenti del corpo. Il racconto si sovrappone alla realtà diventandone una versione insieme aumentata e stilizzata – cioè non si sostituisce alla realtà ma fa della realtà stessa una fiction.
Se vivessimo in un mondo ancora capace di distinguere il vero dal falso, la profondità dei sentimenti dalla superficie della loro messa in scena, allora dovremmo pensare per forza che Amanda è colpevole: non servono nemmeno prove circostanziali, il processo si tiene sul volto dell’imputato che, in quanto specchio dell’anima, ne rivela i segreti. Come dice il povero procuratore Mignini, qui vittima consenziente nel trasformare sé stesso in una versione imbevuta di criminologia da talk show di Maigret, che ragione avrebbe Amanda di mentire se non fosse colpevole? Ma il volto post-postmoderno è lo specchio di qualcos’altro (altri volti, esterni, riflessi dai media) oppure è uno specchio vuoto. Alla fine di The Jinx Bob Durst digerisce vistosamente quando viene smascherato in diretta, ma quella è la cosa che meno ti aspetti che faccia, il vero coup de theatre; Rosamund Pike è straordinaria nel guardare in camera per le due ore e trenta del film di Fincher con l’aria di non essere mai davvero lì, una performance magistrale dell’atto di scomparire.
A rendere questi film perturbanti è quella che non saprei definire se non una assenza dei soggetti in quanto tali, un tema che è proprio l’argomento di cui parla The Imposter, la storia del ladro di identità Frederic Bourdin: la tesi del film è che ciò che presupponiamo costituire l’essenza di una persona (le preferenze in termini di cibo, le espressioni facciali, i ricordi, i tic nervosi) sia qualcosa che si può sottrarre a un livello più profondo di un appropriamento dei dati oggettivi e di un’imitazione del non quantificabile. Amanda recita frasi da Keyser Söze (“either I’m a psychopath in sheep’s clothing or I am you”, “o sono una psicopatica travestita da pecora o sono te”) nella scena d’apertura di quella che dovrebbe essere la prova della propria innocenza; Bob Durst riesce a raccontare davanti a una giuria di come ha smembrato il corpo di un uomo dopo aver vissuto per mesi in incognito travestito da donna come se parlasse di qualcosa che non lo riguarda – anzi, qualcosa che, per un qualche misterioso stravolgimento della morale, non riguarda nessuno di noi.
La verità, quella dei fatti e quella processuale, alla fine non scagiona nessuno.
Bob ha ragione: a commettere quel delitto non è stato lui. E Amanda è tanto estranea al proprio racconto da lasciare allo spettatore la sensazione sgradevole che la verità non verrà mai a galla non per vizi procedurali o perchè, come dice John Turturro all’inizio di The Night Of, un bel crime movie dall’impianto classico, l’unica verità che conta è quella processuale; la verità non verrà mai a galla perché non ci sono colpevoli né testimoni ma solo un delitto. Come in un’opera surrealista, le cose sono date in un vuoto metafisico. La sensazione che mi trasmette Amanda che parla è la stessa di Mulholland Drive quando Rebekah Del Rio collassa sul palco e la sua voce continua: no hay banda, no hay orchestra.
Sarebbe un errore a credere che la spasmodica ricerca della verità a cui si è votata molta fiction nell’ultimo decennio si trovi al polo opposto di quel processo che ha reso la verità irrilevante man mano che il mondo reale somigliava sempre di più a un’opera di fiction: il vero punto della questione sta proprio nel fatto che i due opposti coincidono. Non si tratta più di buttare in faccia al lettore o allo spettatore che la verità ha smesso di esistere nella frammentazione dei punti di vista postmoderna, dalla verità postmoderna (assente) siamo infatti passati a quella postumana (irrilevante), radicalmente inaccessibile perché a venire meno è proprio il soggetto. E com’è noto un albero che cade lontano da ogni orecchio non fa rumore.
Il film di Rod Blackhurst e Brian McGinn gioca bene con questo sentimento di instabilità vertiginosa: dispone tutti gli elementi in campo per dimostrarci che Amanda non può che essere colpevole per poi dimostrare con un colpo di coda improvviso che Amanda non può essere colpevole e che l’abbiamo creduta tale perché il racconto mediatico (triplice: quello della stampa che ha seguito l’evento, quello di Mignini infarcito di cliché da romanzo di genere e quello dello stesso documentario con la sua attorialità pronunciata) ci ha portati a credere nella sua colpevolezza.
Ovviamente l’effetto è che la verità, quella dei fatti e quella processuale, alla fine non scagiona nessuno: Amanda può volare per gli States a presentare il film facendone una bandiera della propria versione dei fatti e il pubblico può continuare a crederla colpevole per amore di una storia migliore. Entrambi agiscono secondo una logica inattaccabile, se non fosse che Amanda ormai è come il gatto di Schrödinger: né viva né morta, o entrambe le cose, e non c’è nessun modo per decidersi per un’opzione o per l’altra.