A che ora è la fine del lavoro? Nel bel mezzo della Grande Depressione, l’economista Keynes descrisse un’alba in cui l’uomo si sarebbe svegliato disoccupato, complice il progresso. Ci sarebbe stato tutto il tempo per dedicarsi alla coltivazione di piaceri e passioni, forse molto spazio per la noia e qualche turno di lavoro per tenersi occupati. La profezia tarda ad avverarsi – ne è prova il fatto che probabilmente starete leggendo queste righe in ufficio e non su un pedalò – e non è neppure chiara la relazione, “né lineare né scontata”, tra innovazione e occupazione. Difficile, in ogni caso, stabilire se ci sia andata meglio o peggio del previsto.
Il fardello dell’invisibilità
Il lavoro c’è ma non si vede. Si potrebbe tradurre così, pur se non proprio alla lettera, il titolo di un recente volume, scritto a più mani e volto ad indagare il “dietro le quinte” della manodopera contemporanea. I curatori Poster, Crain e Cherry alludono a quelle prestazioni, formali o informali, che finiscono per essere rimosse dall’immaginazione collettiva. Il testo offre inoltre una serie di considerazioni da esibire in ogni prossima conversazione sulla forza disruptive della tecnologia. L’analisi è spietata, ma lucida. In fin dei conti, precisano gli autori, la distopia di una workless society sarà pure buona per farci i titoli a nove colonne, ma fatica a descrivere uno scenario verosimile. L’invisibilità, viceversa, copre le diverse fasi di un processo, lento e forse definitivo, di commodificazione dei lavori: molte prestazioni lavorative sono associate o confuse con attività di svago, volontariato o consumo collaborativo. Di altre, invece, si ignora che siano a propulsione umana e non robotica. Invisibili sono i compiti routinari e atomizzati svolti dai precari digitali (e non dagli algoritmi, razza padrona a cui ormai si affidano ruoli manageriali). Invisibile è la relazione tra le piattaforme che consentono l’incontro tra chi ha bisogno di una forza lavoro mobile e chi affitta tempo e competenze, rispondendo con destrezza a una notifica sul cellulare. Scarsa è la visibilità nella giungla di formule contrattuali, disegnate in risposta ad esigenze contingenti e spesso “curvate” al fine di aggirare le previsioni lavoristiche a tutela del contraente debole.
Un investimento in capitale umano rappresenta l’unica via d’uscita dal labirinto della svalutazione del lavoro.
In tempi di deindustrializzazione e terziarizzazione dell’economia, si era creduto che la polarizzazione del lavoro andasse verso uno scenario duplice. Da un lato, mestieri cognitivi ben remunerati e, dall’altro, attività ripetitive per salari di poco conto. Oggi si può affermare che non esistono certezze, giacché persino molti lavori “di concetto” subiscono un processo di standardizzazione. Sembra la fine del mondo, ma è solo una transizione. A detta degli esperti, infatti, il guaio non è tanto che la tecnologia ci stia rubando il lavoro, ma che rischi di affidarci le mansioni più umili e noiose: un campo minato di crappy jobs, lavoretti schifosi, come li ha definiti una testata americana. È indubbio che un investimento in capitale umano rappresenti l’unica via d’uscita dal labirinto della svalutazione del lavoro. Peccato che l’intero corpus di norme a tutela dei lavoratori sia pensato per i soli lavoratori subordinati. Gli autonomi e, a maggior ragione, le forme ibride restano fuori dal raggio di azione delle più robuste politiche del lavoro, al netto di qualche recente aggiornamento legislativo. Di quante persone stiamo parlando? Krueger e Katz sostengono che i contratti di lavoro atipici rappresentino il 5% del mercato del lavoro statunitense. Altre stime indicano in una cifra inferiore al 14% il numero di lavoratori autonomi in Europa.
Old is the new new
Prima ancora del lavoro, però, a mutare pelle è l’impresa. Assistiamo così, da un lato, alla sua disintegrazione verticale in micro-entità “di scopo” e, dall’altro, a un tentativo di consolidamento del suo nucleo organizzativo, favorito dalle economie di scala, dall’effetto network e dall’uso intelligente dei dati. Conseguenza di questa trasformazione è la riconversione del concetto di “luogo di lavoro”, un tempo monolitico, oggi scomposto, poroso (“a portata di mano”) e pervasivo (con tanto di rivendicazione del “diritto alla disconnessione”). Pur di non soccombere, le imprese si attrezzano per gestire operazioni distribuite e raffinano la filiera in modo da reagire efficacemente alle fluttuazioni dei cicli di produzione.
Non è tanto che la tecnologia ci stia rubando il lavoro, ma che rischi di affidarci le mansioni più umili e noiose.
Si tratta di un processo che parte da lontano. Fin dagli anni Settanta, pratiche aziendali centrifughe hanno impresso una forte accelerazione alla complicazione delle relazioni industriali. David Weil, in un celebre testo, ha parlato di impresa “frammentata”, citando i casi degli addetti alle pulizie delle catene di alberghi o dei fattorini dei servizi di spedizione privata o ancora dei manutentori dei cavi delle società energetiche. Queste attività, un tempo svolte da dipendenti delle rispettive case madri, sono comunemente affidate a imprese appaltatrici. Gli esempi rappresentano un perfetto prototipo di uberizzazione. Per questa ragione, è il caso di ammettere che le app che ci riportano a casa dopo una festa o ci consegnano l’hamburger in ufficio hanno solo mutuato un paradigma affermato. Altro che futurologia, siamo semmai alle prese con questioni di archeologia industriale: è la prosecuzione del taylorismo con altri mezzi. E non è esagerato il ricorso all’etichetta di “irresponsabilità organizzata”, saccheggiando senza pietà il sociologo Mills.
All’indomani delle crisi petrolifere, l’aumento insolito del tasso di disoccupazione era coinciso con la comparsa dei primi microprocessori. È forse da allora che si studiano, con intensità crescente, gli effetti della computerizzazione sul lavoro. Col senno di poi, possiamo dire che molte ricerche avevano azzeccato le previsioni circa i rischi in campo industriale, ma avevano sottovalutato il salto quantico nel settore dei servizi. L’OCSE sostiene da tempo che la tecnologia modifichi la struttura dei rapporti di lavoro, più che il numero di occupati, dal momento che la distruzione di posti in certi settori è compensata da un effetto opposto in altri campi, a cui si accompagna una profonda disparità geografica.
Lavoratori alla spina
Ragionando di on-demand economy, Matthew W. Finkin ha ribadito come, in epoca pre-industriale, i capitani del settore tessile si siano serviti di lavoro a domicilio per accrescere la produttività e non farsi carico di lavoratori dipendenti, già allora ritenuti “costosi”. Occorrerebbe riconoscere, per l’ennesima volta, che non v’è nulla di rivoluzionario nel disintermediare lavoro, affidando a terzi le attività “periferiche”, per concentrarsi sul proprio core business, e avvalendosi di formule contrattuali che riducono costi e responsabilità in capo al datore di lavoro. Scommettere sugli elementi distintivi per accrescere la competitività è, in fin dei conti, una scelta aziendale tutt’altro che censurabile. Viceversa, classificare l’intera forza lavoro come autonoma contraddice la stessa nozione d’impresa e getta un’ombra sulla solidità del progetto imprenditoriale. Per questo motivo, è bene che la disfida nata intorno al carattere selvaggio delle pratiche messe in atto da società come Uber si giochi sul campo del diritto del lavoro, e non solo su quello del diritto della concorrenza.
Aumenta la flessibilità, sebbene si riduca, fino a dissolversi, l’autonomia.
Sgombrato il campo dal sospetto che i cambiamenti che viviamo siano inediti, è interessante indagare caratteristiche e condizioni del lavoro precario “immateriale”. Sono tante le forme contrattuali di nuova generazione che le istituzioni faticano a mappare e regolare: codatorialità, lavoro condiviso, a termine, management a progetto, supply chain, part-time, voucher, crowd-employment. Oggi, a voler realizzare un rudimentale tentativo di tassonomia del lavoro “virtuale”, si potrebbe partire dal crowdsourcing e dal lavoro via piattaforma. Sono entrambi fenomeni di mobilizzazione del lavoro con un’offerta rivolta a un’ampia platea, differiscono esclusivamente per il luogo di adempimento della prestazione: interazione remota anziché contatto concreto. Il lavoro “a chiamata” ha implicazioni non di poco conto: costi di transazione e coordinamento ridotti al minimo, asimmetrie informative pressoché annullate, applicazione rigida di standard di produzione, prestazioni di lavoro dipendente qualificate come rapporti autonomi. In barba alle garanzie: niente malattia né straordinario, nessuna contrattazione collettiva, compensi ben al di sotto del salario minimo, abbattimento dei costi legati alle tutele pensionistiche, rischi connessi all’attività di impresa che transitano in capo a soggetti terzi – talvolta sfuggenti – o che finiscono per gravare sugli stessi lavoratori. Il tutto in assenza di un sistema credibile di risoluzione delle controversie.
Aumenta la flessibilità – totem e tabù di ogni recente dibattito – sebbene si riduca, fino a dissolversi, l’autonomia. La grande trasformazione del lavoro, vista dalla prospettiva del pony-express, non trasforma poi molto. Al più reinventa ed eleva alla potenza digitale alcune prerogative dei datori di lavoro, primi fra tutti i poteri direttivo e di controllo. Ed ecco che i sistemi di geo-localizzazione delle app, così come le valutazioni “stellate” rese a fine servizio dall’utente, rappresentano un canale efficacissimo per guidare le condotte del fattorino. L’effetto va oltre il dato reputazionale, e consiste in una maggiore esposizione in caso di disciplinata osservanza degli ordini o in un declassamento (fino all’estromissione dal sistema) in caso contrario. Detta così, sai che novità. Eppure, il carattere istantaneo di certe pratiche rende la ventilata flessibilità un miraggio, per una serie di ragioni interconnesse. Innanzitutto, la quantità di ore di reperibilità è decisiva ai fini della posizione del lavoratore nel ranking interno, e dunque ha un impatto sulle sue chance di essere “reclutato” in futuro. In più, esiste un nesso di diretta proporzionalità tra le ore lavorate e gli incassi: più è off-line, meno guadagna. Flessibili a tempo pieno, in una battuta.
Non è un caso che i primi scioperi organizzati dai lavoratori delle piattaforme rivendichino, da un lato, un’organizzazione per turni contingentati (un ritorno alla tradizione, tutto sommato) e, dall’altro, maggiore trasparenza sui criteri con cui opera l’oscuro sistema che elabora le valutazioni, combinando elementi diversi (soddisfazione del cliente, tasso di risposta alle chiamate, tempo di permanenza online, tra gli altri). Alla luce di questi elementi critici, nei paesi anglosassoni, tiene banco ormai da tempo una diatriba tutt’altro che banale sulla corretta classificazione di questi “lavoratori contrattisti”: la previsione contrattuale che li definisce autonomi e non subordinati contrasta con il dato fattuale, e si inceppa nelle diverse interpretazioni delle norme. Una partita dagli esiti incerti, tutta giocata sulla linea di confine tra “monetizzazione del tempo libero” e “freelancizzazione selvaggia”. La battaglia legale, attorno a cui si agitano tifoserie scalmanate, minaccia di essere logorante. La soluzione potrebbe essere duplice: da un lato, applicare le categorie esistenti per riparare gli abusi di quanti approfittano dell’area grigia normativa, dall’altro, disegnare modelli contrattuali ampi e semplici, in grado di tenere in equilibrio stabilità e flessibilità.