E ra circa metà pomeriggio, mi trovavo nel salotto di mia nonna. Due lame di luce attraversavano la penombra della stanza. Non succedeva niente, probabilmente mi annoiavo. Avevo quattro anni e mezzo, forse cinque. Questo è quello che identifico come il mio primo ricordo. Cosa mi è successo prima di quel momento? Perché non riesco ad andare più indietro con la memoria? Il fenomeno che Sigmund Freud chiamò amnesia infantile è uno dei grandi misteri delle neuroscienze tuttora irrisolti, e ha appassionato neurologi, psichiatri e linguisti.
Proviamo a fare un salto a Los Angeles, il 4 novembre 1970. Una donna quasi completamente cieca per le cataratte entra in un ufficio della contea. Pensa di entrare alla visita di controllo per l’assegno di invalidità, ma per sbaglio si infila nell’ufficio per i servizi sociali (che si trova nella porta accanto). Ha con sé una bambina di sette anni con evidenti segni di autismo. Nel momento in cui la madre entra in quell’ufficio il mondo scopre uno dei più estremi casi di abuso di minori mai registrato, ma anche un’opportunità unica di ricerca scientifica. Quella bambina, che verrà ricordata con il nome di Genie, non aveva sette ma ben tredici anni, pesava solo ventisei chili, non riusciva a camminare né a controllare le funzioni intestinali. Per muoversi “saltellava come un coniglio”. Ma soprattutto, come presto si scoprì, Genie, pur non avendo alcun trauma o malattia cerebrale e pur essendo ormai alle soglie dell’adolescenza, non aveva mai sviluppato alcuna capacità di linguaggio.
Genie proveniva da una famiglia altamente problematica. Il padre, Clark Wiley, un operaio dell’industria aerea, aveva subito traumi psicologici fin da bambino. Figlio di una prostituta, gli era stato imposto un nome femminile (più tardi riuscì a farselo cambiare), ed ebbe con la madre un rapporto morboso e contrastante. Visse un’esistenza paranoica, aggravatasi dopo il suo matrimonio con Irene, figlia della profonda America contadina delle grandi praterie. Irene aveva subito un trauma cranico in seguito al quale aveva quasi totalmente perso la vista da un occhio, e soffriva di cataratte. Quasi totalmente cieca, dipendeva interamente dal marito, di venti anni più grande di lei. I due ebbero quattro figli, due morti a pochi giorni dalla nascita. Genie era l’ultimogenita. Fisicamente sana, Genie soffriva solo di una leggera displasia congenita dell’anca. Questo fu sufficiente a convincere il padre che la bambina fosse mentalmente ritardata. A partire dall’età di venti mesi Genie visse rinchiusa nella sua stanza, costretta dentro una cintura di forza prodotta dal padre utilizzando vestiti per neonati e corde. Venne impedito a chiunque nella famiglia di parlarle o di incontrare la bambina. La madre poteva vederla, in rigoroso silenzio, due volte al giorno, ma solo per darle il pasto – rigorosamente in forma liquida (una delle prime cose che insegnarono a Genie appena salvata fu la masticazione).
La finestra migliore per imparare le basi grammaticali sembra essere quella tra i quattro e i dieci anni.
Il padre impose a Genie di non emettere nessun rumore, a suon di pugni e bastonate. La stanza di Genie era completamente vuota, senza alcun tipo di giocattolo o di possibile stimolo. Genie non aveva deficit di intelligenza, ma la tortura impostale dal padre la rendeva probabilmente il primo caso di “bambino selvaggio” cresciuto nella provincia americana. Appena si resero conto della situazione, le autorità della contea si presero carico di Genie, che fu internata in un ospedale psichiatrico infantile e affidata ad un team di ricercatori. Genie, all’età di tredici anni, era ancora in grado di apprendere il linguaggio? Sarebbe riuscita a prendere contatto con il mondo, a imparare alcune funzioni sociali di base? Tristemente, gli abusi familiari avevano reso la mente di Genie un motivo di fortissimo interesse per gli studi sul linguaggio. Genie iniziò a fare notevoli progressi, soprattutto in termini di socializzazione. Appena arrivata in ospedale sapeva borbottare solo quattro parole (“blu”, “arancione”, “mamma”, “andare”), ma probabilmente non riusciva a comprenderne del tutto il significato. Già dopo pochi mesi iniziò però a sviluppare un ricco linguaggio non verbale: attraverso i disegni (e l’accostamento di disegni diversi tra loro) riusciva a comunicare ciò che gli era impedito dalla parola. Tuttavia non riuscì mai a parlare: se a memoria recitava alcuni termini, non assorbì mai le strutture grammaticali.
Dagli esperimenti condotti su di lei, gli scienziati trassero la conclusione che oltre i dieci anni di età non siamo più in grado di sviluppare capacità grammaticali. La finestra migliore per imparare le basi grammaticali sembra essere quella tra i quattro e i dieci anni. Le uniche due frasi che Genie riusciva a usare con cognizione (le rarissime volte in cui parlava) furono “basta” (stop it) e “non più” (no more). La mancanza di linguaggio di Genie si accompagnava ad una mancanza di memoria: nel test di riconoscimento facciale raggiunse solo il livello “borderline”, sebbene con risultati diversi da quelli di chi aveva subito un trauma cerebrale. Insomma, Genie aveva una qualche forma di immagine del mondo che la circondava, ma riusciva a comunicare solo attraverso i disegni, non sapeva usare il linguaggio e, di conseguenza, non era in grado di assimilare ricordi.
L’età giusta
Al contrario di quanto si possa pensare, la mancanza di memorie della prima infanzia non dipende dallo scarso sviluppo del cervello a quell’età. Già in un primissimo stadio, in cui il sistema nervoso è ancora in fase di sistemazione e accrescimento, abbiamo un tipo di memoria, chiamata memoria implicita, in cui il bambino è capace di ricordare, per esempio, la voce materna. Tuttavia quello che noi intendiamo davvero come “memoria” – ovvero la memoria esplicita o dichiarativa – inizia a svilupparsi già dal secondo o terzo mese dalla nascita, fino a raggiungere il suo pieno completamento a sette anni.
Già entro il primo anno i neonati hanno delle capacità di apprendimento fenomenali: assorbono molte informazioni e ben presto iniziano a rispondere agli stimoli esterni, sviluppando sempre più chiaramente quantomeno la memoria a breve termine. Un esperimento ha dimostrato che già a sei mesi di età un bambino riesce a ricordare un’azione per due o tre mesi. Entro il primo anno di vita ha un cervello abbastanza sviluppato da poter iniziare a ricordare esperienze passate per un periodo ancora più lungo. Tuttavia, di questi primissimi anni, nessuno di noi riesce a rintracciare un frammento, sia esso una singola immagine, un suono, un sapore – almeno in modo cosciente.
Si ritiene che, mediamente, siamo in grado di ricordare eventi solo a partire dal quarto anno di vita, più spesso tra il quarto e il quinto. Cosa succede tra il primo anno – in cui sviluppiamo la memoria – e il fatidico quarto anno? Sono anni fondamentali, in cui iniziamo a stare in piedi, a esplorare il mondo. Iniziamo a mapparlo, a costruire un’immagine interiore di ciò che ci circonda: anni importantissimi per determinare cosa saremo, eppure, di nuovo, non riusciamo a ricordarli in età adulta. Le neuroscienze hanno individuato due possibili spiegazioni, tuttavia entrambe sembrano parziali: lo sviluppo impetuoso del cervello e l’assenza di una capacità di linguaggio pienamente sviluppata.
L’amnesia sembra essere un normale processo di selezione delle informazioni da parte del nostro cervello.
Nei bambini si sviluppano settecento nuove connessioni tra neuroni al secondo. Secondo alcuni, detta in maniera semplice, questo continuo accrescimento cancella i ricordi precedenti: in sostanza, il cervello, continuando a svilupparsi, deve “far spazio” e rimpiazzare i ricordi più vecchi, perdendoli per sempre. Questo fenomeno interesserebbe soprattutto l’ippocampo, la regione del cervello deputata alla memoria. Sul finire dell’Ottocento, Hermann Ebbinghaus condusse una serie di esperimenti su se stesso che sono divenuti la pietra miliare degli studi sulla memoria. Un esperimento in particolare riguardava la memorizzazione di sillabe nonsense (tipo “zof” o “kag”). In quell’esperimento Ebbinghaus descrisse quella che poi sarebbe diventata nota come curva dell’oblio. La curva indica che tendiamo a dimenticarci elementi appena imparati in modo esponenziale: molto più velocemente nei primi momenti, e poi in maniera sempre meno accentuata. Nella prima ora perdiamo circa il 50% delle informazioni appena apprese. A trenta giorni riusciamo a mantenere solo il 3% delle informazioni.
L’amnesia, insomma, sarebbe un normale processo di selezione delle informazioni da parte del nostro cervello. Ok, ma perché non riusciamo a ricordare proprio niente dei primi anni di vita, nemmeno una piccola frazione di ricordi? Il caso di Genie sembra suggerire che riusciamo a ricordarci solo ciò che riusciamo a descrivere con il linguaggio. Ma è proprio vero che possiamo ricordare solo se possiamo descrivere? Sebbene non esista un percorso unico di sviluppo del linguaggio (essendo influenzato da moltissime variabili), si può dire che tra i tre e i quattro anni i bambini siano già capaci di raccontare storie, dunque di un livello minimo di astrazione. È proprio l’età in cui abbiamo i primi ricordi. Qualche anno fa un gruppo di ricerca ha condotto un esperimento su bambini di cinque anni che erano stati condotti al pronto soccorso per piccoli incidenti in età compresa tra uno e tre anni. I risultati dello studio dimostrerebbero un collegamento tra memoria e linguaggio: bambini che erano andati al pronto soccorso dai tre anni in su riuscivano a descrivere l’incidente, i bambini a cui era accaduto al di sotto di tale età no.
Tuttavia una buona parte dei ricercatori non è d’accordo con un approccio neurologico per spiegare il collegamento memoria-linguaggio, a partire anche dal fatto, per esempio, che bambini nati sordi riescono comunque ad accumulare memorie. Insomma, lo sviluppo del linguaggio deve avere una qualche influenza, ma probabilmente non è il fattore determinante. L’enigma dell’amnesia infantile sembra non essere legato a doppio filo con lo sviluppo fisico. Il linguaggio non è determinato unicamente dalle capacità di sviluppo del cervello. Come anche la storia di Genie insegna, il linguaggio è soprattutto un fattore sociale. E proprio sugli aspetti sociali gli psicologi si stanno concentrando per riuscire a risolvere l’enigma, con risultati che sono già adesso estremamente interessanti.
Memoria culturale
Il concetto centrale di questo filone di ricerca è la narrazione di sé, ovvero la nostra capacità di descrivere e organizzare le informazioni intorno a noi. E in questo il linguaggio verbale è uno strumento fondamentale. Uno studio del 2009 ha stimato che nel mondo esistono circa 6909 lingue distinte e attive. Molte di queste lingue stanno scomparendo a velocità incredibili: ci sarebbe addirittura un forte legame tra perdita della biodiversità (genetica) e scomparsa delle lingue; questo perché da sempre la lingua ha giocato un ruolo fondamentale nell’interpretazione del nostro mondo. Jared Diamond, il famoso antropologo, nel suo “Il terzo scimpanzé” descrive in maniera esemplare questo concetto: “le lingue differiscono nella struttura e nel vocabolario, nel modo in cui esprimono il nesso di causalità, i sentimenti e la responsabilità personale, e quindi nel modo in cui si formano i nostri pensieri. Lingue diverse sono adatte a scopi diversi”.
Qi Wang, professoressa di psicologia alla Cornell University, ha condotto un ampio studio su quanto la memoria sia influenzata dalla cultura. Ha raccolto centinaia di primi ricordi di studenti statunitensi e cinesi. La narrazione personale ha fatto emergere differenze sostanziali: i primi ricordi degli statunitensi erano più lunghi, elaborati ed egocentrici; quelli cinesi, invece, era molto più brevi e “oggettivi”. Ma la differenza forse più interessante era che i ricordi di questi ultimi iniziavano mediamente 6 mesi dopo quelli dei primi. I risultati sembravano mostrare, quindi, che l’inizio temporale dei ricordi potesse avere una forte caratterizzazione culturale. Il primo veicolo della cultura è la famiglia: Wang ha quindi ripetuto l’esperimento, stavolta interrogando le madri dei ragazzi. I risultati sono stati essenzialmente identici, andando a confermare le ipotesi iniziali. La psicologa è giunta alla conclusione che nella cultura cinese la memoria personale non sia così importante.
Culture fortemente attaccate alla propria tradizione hanno ricordi molto più precoci.
Il comunitarismo tipico della tradizione confuciana sembra avere effetti sulla memoria individuale. Al contrario, il forte individualismo della cultura occidentale, che pone la propria persona al centro dell’interesse e del mondo circostante, connota ogni ricordo in modo molto personale. “Sostanzialmente, c’è una grossa differenza [culturale] tra dire ‘allo zoo c’erano delle tigri’ e ‘allo zoo c’erano due tigri, e io avevo molta paura’”, ha concluso Wang. Non è solo una questione di individualismo e comunitarismo. Uno dei fattori centrali è sicuramente il valore che si dà alla tradizione e al passato. Culture fortemente attaccate alla propria tradizione (non solo in termini di trasmissione di sapere, ma anche in termini di sopravvivenza come popolo) hanno ricordi molto più precoci. In questo senso, tra i popoli studiati, i maori della Nuova Zelanda detengono attualmente il record di precocità nei ricordi: mediamente il loro primo ricordo è riconducibile ai due anni e mezzo di età, contro i tre anni e mezzo degli occidentali.
Cultura, tradizione e narrazione di sé, quindi. Ma un libro appena uscito nel Regno Unito, The Memory Illusion, spiega come i ricordi che abbiamo siano sostanzialmente ricostruzioni fittizie, altamente manipolabili e poco veritiere. Julia Shaw, autrice del libro e psicologa forense, ritiene che sia possibile manipolare almeno in parte i ricordi, soprattutto nel tratto fondamentale delle emozioni: un processo definito da Shaw memory hacking. Attraverso alcune tecniche di manipolazione del cervello con il laser si è dimostrato che nei topi è possibile eliminare la paura associata ai brutti ricordi. E con ogni probabilità la stessa cosa è possibile per il cervello umano. Attraverso le tecniche di memory hacking sarà possibile avere ricordi ancora più precoci? Non lo sappiamo. Al momento, come abbiamo visto, l’unico dato certo è che l’amnesia infantile è provocata da un insieme di fattori strettamente collegati l’uno all’altro. Sviluppo neurologico, linguaggio e cultura probabilmente sono solo alcuni di questi fattori, e altri ancora ne verranno.