C ome si può raccontare la precarietà tramite delle fotografie? Non quella semplicemente lavorativa, piuttosto la precarietà intesa come condizione di esistenza, come stato diffuso, pervasivo. Questo è il tema di Provisional Arrangement, l’ultimo progetto di Martin Kollar pubblicato dalla casa editrice MACK a fine settembre. Nato a Zilina, città della Cecoslovacchia poi diventata parte della Slovacchia, Kollar si è trovato presto a giostrarsi tra il perpetuo e il temporaneo. “Sono cresciuto sotto il Comunismo e il suo slogan ‘Con l’Unione Sovietica, da qui all’Eternità’” – scrive Kollar – “e noi all’epoca aggiungevamo, ridendo: ‘Sì, ma non un secondo di più.”
Il libro si apre con la fotografia di una poltrona rivolta verso una finestra, una tavola poggiata in equilibrio tra le due. È la prima di tante “soluzioni temporanee” ritratte da Kollar, un catalogo di scene che esprimono l’idea di una vita tenuta insieme col nastro adesivo: riparazioni improbabili, un uomo che dorme nella sua macchina, un ponte crollato, un campo da calcio su un terrapieno inclinato. Nessuna didascalia accompagna le fotografie, non c’è modo di ricondurle a una geografia o a una comunità che possano giustificare il surrealismo delle situazioni.
“Viviamo in un mondo complesso, privi di qualsiasi certezza o senso di continuità. Abbiamo amici temporanei, partner temporanei, cure dentali temporanee e preferiamo domicili temporanei a residenze fisse.” La precarietà fisica dei luoghi fotografati da Kollar è lo specchio deformante in cui guardare le proprie fragilità, insicurezze, la difficoltà di pensare il proprio futuro. L’Unione Sovietica dell’infanzia di Kollar diventa figura di un’epoca di ruoli e percorsi di vita rigidi, predeterminati; Provisional Arrangement si presenta come un’indagine preliminare su come cominciare la ricostruzione, su come reinventare da zero lo spazio della propria esistenza.
Si tratta del primo progetto che Kollar realizza rinunciando a esplorare un territorio preciso: i precedenti Nothing Special e Field Trip, ad esempio, sono stati realizzati viaggiando rispettivamente attraverso le ex repubbliche sovietiche e in Israele. Kollar rimane comunque un autore che parte da una cifra documentarista per capovolgerla, confondendo l’osservatore invece di spiegare e illustrare. Il suo stile fotografico si presenta molto trasparente, descrittivo, ma invece di pretendere di sintetizzare una storia in poche immagini come fanno molti fotografi, Kollar tratta ogni scatto come se fosse una digressione dal tema, ad allargare all’infinito i nessi e i significati.
Il suo lavoro è sempre accompagnato da una forma di comicità, merce piuttosto rara nel mondo fotografico: non il buffo, il grottesco a cui ad esempio Martin Parr inchioda i suoi soggetti programmaticamente derisi; qui si tratta invece di un’ironia amara che prende ispirazione dall’incongruo che il fotografo osserva. Se Parr prende in giro la volgarità della ricchezza e il generale cattivo gusto delle società capitaliste, Kollar al contrario fa commedia esistenzialista, prendendo spunto da dettagli in apparenza insignificanti per riflettere sul senso della vita.
“La fotografia è uno strumento molto limitato: può essere illustrativa, ma non è un approccio che mi interessa. Per questo ho deciso di sperimentare un approccio narrativo, non illustrativo.” Non è un caso che Kollar accompagni al mestiere di fotografo quello di operatore cinematografico e direttore della fotografia: per quanto abbia sempre dichiarato che non mette mai in scena le sue fotografie, Kollar osserva i luoghi come se fossero dei veri e propri set, tableaux dove ogni dettaglio e ogni minimo oggetto può raccontare qualcosa. Li trasfigura utilizzando soltanto lo sguardo. Piuttosto che un fotografo preso dal ruolo di testimone, Kollar si muove come un regista che cerca dei set già costruiti, per poterci girare le storie dei suoi film paradossali.