L e élite economiche occidentali lo hanno prima guardato con scetticismo, poi sono passate alla sorpresa, all’ammirazione e, infine, all’emulazione. L’opinione pubblica ne ha a lungo ignorato l’esistenza, per dividersi quindi tra esaltazione e demonizzazione del suo modello di business. È Jeff Bezos, fondatore di Amazon, al terzo posto della lista Forbes dei più ricchi al mondo con oltre 60 miliardi di dollari di patrimonio personale, costruito in 20 anni partendo da un’idea – vendere libri online – e dal famigerato garage, fattosi ormai tropo delle grandi narrazioni imprenditoriali di questi anni.
È cronaca delle ultime settimane che Bezos, a capo anche di Blue Origin, un’agenzia spaziale privata, fa ora parte di una speciale commissione del dipartimento della difesa americana. Si chiama Defense Innovation Advisory Board e la coordina Eric Schmidt, già CEO di Google e oggi Presidente di Alphabet, l’ombrello azionario che tiene insieme tutte le attività collaterali al noto motore di ricerca.
Cosa ci fanno due giganti della Silicon Valley tanto vicini alla stanza dei bottoni? Per esempio proseguono nel solco di una tradizione della difesa americana, risalente almeno a Henry Ford e alla seconda guerra mondiale, di ibridazione tra istituzioni pubbliche e competenze private. Lo scopo della commissione – lo ha spiegato il segretario alla difesa USA Ash Carter – è infatti quello di “fornire consigli sulle pratiche più recenti e interessanti nel mondo dell’innovazione”. Si tratta quindi di un organo di natura puramente consultiva che, almeno in questa fase, non prevede la partecipazione dei suoi membri a decisioni operative o strategiche. Anche perché, come ha chiarito lo stesso Ash Carter presentando il progetto a marzo: “Non tutto ciò che si fa nel settore privato è utile alla causa della difesa, che non è un’azienda ma un esercito di professionisti. Questo non significa però che non possiamo cercare in giro per il paese nuove idee e nuove lezioni da imparare per operare con maggiore efficienza”.
Con una lunga esperienza nella risoluzione di problemi logistici di crescente complessità, grazie a strumenti e idee alla massima avanguardia del settore, si può immaginare il contributo di un uomo come Bezos alle componenti logistiche del più costoso programma militare del pianeta. Qui si entra però nel campo delle congetture, dato che l’esatta natura delle consulenze fornite dal board è al momento ovviamente riservata. Quel che è sotto gli occhi di tutti invece, è come il gotha della Silicon Valley, faccia così il suo ingresso nelle stanze del potere militare di Washington D.C. dalla porta principale.
Se Bezos e Schmidt sono i nomi che più saltano all’occhio, scorrendo l’elenco dei quindici “convocati” nel board, si palesano infatti altre presenze interessanti in quest’ottica: dal co-fondatore di LinkedIn Reid Hoffman al presidente di Google Fiber Milo Medin, dalla direttrice operativa di Instagram Marne Levine alla fondatrice di Code For America Jennifer Pahlka per finire con il presidente dell’Aspen Institute (nonché biografo ufficiale di Steve Jobs) Walter Isaacson. Nomi che dividono la pagina con quelli di ex generali, matematici, psicologi, giuristi e scienziati. Il più noto dei quali, perlomeno al grande pubblico, è Neil De Grasse Tyson, cosmologo e divulgatore scientifico di fama mondiale che qualcuno ricorderà per la conduzione della serie Cosmos.
L’inclusione di una fetta influente dell’intellighenzia digitale nella pancia del dipartimento della difesa, non è solo un fatto piuttosto inedito ma cade peraltro in un frangente delicato nei rapporti tra il governo di Washington e i colossi tecnologici della West Coast, ancora scossi dalle ricadute pubbliche dello scandalo Snowden, che li ha visti chiamati direttamente in causa come vittime/complici nelle violazioni della privacy compiute dalla NSA. Le ripercussioni di quello scandalo si sono fatte sentire ancora lo scorso febbraio, quando, con una lettera aperta ai suoi clienti, Apple ha denunciato pubblicamente la richiesta dell’FBI di installare una backdoor (letteralmente “porta sul retro”) sull’iPhone di Syed Rizwan Farook, uno dei due responsabili della strage di San Bernardino. Un software che, si leggeva nella lettera, “nelle mani sbagliate potrebbe aggirare i sistemi di sicurezza di qualunque iPhone”.
La comunicazione di Apple peraltro, oltre a trovare il sostegno di altri colossi, tra cui la stessa Amazon, seguiva di pochi mesi un’altra lettera aperta dai contenuti simili, indirizzata direttamente a Obama nel maggio 2015, e sottoscritta anche da Facebook, Google, Twitter, Microsoft, Mozilla, LinkedIn, Tumblr e Yahoo.
In questo scenario, il coinvolgimento diretto, pubblico e molto pubblicizzato – alla “luce del sole”, come si suol dire in questi casi – di importanti esponenti di alcune di queste compagnie nei piani della difesa americana, potrebbe anche essere letto come un tentativo, da ambo le parti, di offrire maggiore trasparenza a un’opinione pubblica in credito di fiducia nei confronti sia delle istituzioni sia dei produttori di tecnologie ad alto consumo.
Per un altro verso lo si può interpretare come un passaggio di consegne tra vecchie e nuove élite imprenditoriali, anche ai vertici del potere più assoluto e controverso tra quelli a disposizione di uno stato. Il momento in cui un processo dialettico cominciato con un “think different” come antitesi, è infine giunto alla sua sintesi, rivelando un’identità con la tesi che intendeva in principio decostruire.
Forse più utile a un dibattito intorno a questi temi, è infine la posizione di chi sostiene che, tra innovazione tecnologica a scopo civile e a scopo militare, esiste un rapporto di feed-back continuo. Ricordando come la stessa internet sia nata da una costola del Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA), sul Financial Times la storica della tecnologia dell’Università di Stanford Leslie Berlin rimarcava per esempio che: “Tutto il reparto hi-tech americano deve in fondo ringraziare il dipartimento della difesa, perché è da lì che sono sempre arrivati i soldi per sviluppare la tecnologia che usiamo oggi”.