D a quando ci ha mangiato Barack Obama – immortalato con lo chef Anthony Bourdain –, il ristorante di bun cha (piatto locale di spaghetti di riso, maiale grigliato, polpette di carne e salsa chiara agrodolce) da Huong Lien fa affari d’oro.
Per milioni di vietnamiti, il presidente afroamericano, seduto su uno sgabello di plastica, le maniche di camicia arrotolate al gomito, è il nuovo volto dell’America. Un’America diversa da quella dei loro padri, quella che ha bombardato e inquinato milioni di ettari di questo paese del Sudest asiatico. Un’America che potrebbe oggi essere un prezioso alleato nell’ascesa del “drago” vietnamita, rimasto finora un po’ nell’ombra di quello, più grande, cinese. Un’America che, infine, esporta decine di storie di successo da prendere a modello per la classe media e imprenditoriale di un paese in costante crescita. Fa impressione fare un giro nelle librerie di Hanoi, alcune ancora con in bella vista i quadri di Marx e Lenin, e trovarvi “Pensare, agire e investire come Warren Buffet”. Nel Vietnam che corre verso la industrializzazione e il compimento dell’economia socialista di mercato – il traguardo è fissato al 2020 – l’America ha saputo vendersi bene. E, da parte sua, il Vietnam oggi cerca di ricavare il massimo profitto dalla nuova partnership. Gente pragmatica, i vietnamiti.
Il Vietnam è impegnato in una contesa, fatta di psicologia e discorsi più che di azioni concrete, su un pugno di isole nel Mar cinese meridionale, un tratto di mare che vale circa 5 mila miliardi di euro all’anno e contiene ricchi giacimenti di petrolio e gas naturale.
A maggio di quest’anno, Obama è sbarcato in Vietnam nell’ambito di un tour asiatico che rimarrà nella storia per alcuni momenti decisivi. Oltre a essere diventato il primo presidente USA in carica a rendere omaggio al memoriale della bomba atomica di Hiroshima, Obama ha fatto un passo ulteriore incontro alla vecchia nemesi, togliendo l’embargo sull’export di armi vecchio di cinquant’anni. “Le due parti hanno sviluppato un nuovo livello di cooperazione e fiducia”, ha detto Obama parlando a Hanoi lo scorso 23 maggio. Gli ha fatto eco poco dopo il presidente vietnamita Tran Dai Quang: “La fine dell’embargo è una chiara prova che le relazioni bilaterali sono completamente normalizzate”. Non solo gli Stati Uniti potranno fornire al Vietnam armamenti; potranno anche inviare corpi di volontari e avere accesso al porto militare nella baia di Cam Rahn, nella regione centromeridionale del Vietnam. Per molti, Washington vuole aiutare il Vietnam anche militarmente per contenere la Cina. Come le Filippine, anche il Vietnam è impegnato in una contesa, fatta di psicologia e discorsi più che di azioni concrete, su un pugno di isole nel Mar cinese meridionale, un tratto di mare che, ricorda il Guardian, vale circa 5 mila miliardi di euro all’anno e contiene ricchi giacimenti di petrolio e gas naturale.
In realtà c’è molto più del solo contenimento di Pechino. Non tutto in Asia orientale, infatti, è riconducibile alla “politica dell’equilibrio” tanto cara ad americani ed europei.
Alla fine del Sesto Congresso del Partito Comunista del Vietnam, nel dicembre 1986, le nuove linee guida dettate dal gotha del partito parlavano di una nuova diplomazia fondata sul “diventare amici e partner affidabili di tutti i paesi del mondo”.
Una scelta dettata dalla necessità di conservare indipendenza e sovranità nazionale. L’Unione Sovietica, primo e fondamentale partner politico e militare di Hanoi dagli anni ’60 in avanti, stava “tirando i remi in barca” e aveva interrotto il flusso degli aiuti economici verso il paese di Ho Chi Minh.
Il 1986 segnò l’inizio dell’apertura del Vietnam al mercato e di un periodo di riforme conosciuto tuttora come ‘rinnovamento’, doi moi. A partire dal Sesto Congresso che sposò la linea del ‘riformatore’ Nguyen Van Linh, la leadership comunista vietnamita è riuscita a promuovere riforme di mercato senza rinunciare al controllo assoluto della vita politica ed economica.
Il 1986 segnò l’inizio dell’apertura del Vietnam al mercato e di un periodo di riforme conosciuto tuttora come “rinnovamento”, doi moi. A partire dal Sesto Congresso che sposò la linea del “riformatore” Nguyen Van Linh, la leadership comunista vietnamita è riuscita a promuovere riforme di mercato senza rinunciare al controllo assoluto della vita politica ed economica. Un percorso, per certi versi, simile a quello intrapreso dalla Cina alla fine degli anni Settanta, sulle orme della perestrojka avviata in Urss da Gorbachev.
Quella decisa dalla leadership comunista del Vietnam sul finire degli anni Ottanta fu un’apertura a 360 gradi, anche a paesi precedentemente ostili come Francia, Stati Uniti e Giappone, alleato asiatico del “blocco occidentale” e oggi primo fornitore di aiuti allo sviluppo e tra i principali investitori e fornitori di infrastrutture – l’aeroporto di Noi Bai di Hanoi potrebbe trovarsi in una qualsiasi città giapponese medio-piccola, senza considerare che è anche giapponese l’autostrada che lo collega alla capitale. La tattica è stata finora vincente: crescita economica che rallenta ma non si ferma e povertà che si riduce dai primi anni Novanta.
Oltre allo sviluppo, negli ultimi dieci anni, la leadership vietnamita ha più volte sottolineato la necessità di rafforzare il comparto difesa. Nel piano quinquennale approvato dall’assemblea nazionale a giugno 2006, si legge l’intenzione di “migliorare il potenziale di difesa e prendere misure per affrontare qualsiasi contingenza” e di “combinare la forza nelle attività internazionali allo scopo di mantenere la stabilità politica e la sicurezza, sviluppare l’economia nazionale, innalzando la competitività a livello nazionale e all’estero, rispondendo prontamente alle emergenti questioni internazionali”. Modernizzazione economica e sicurezza nazionale sembrano andare di pari passo. Per questo a partire dalla fine degli anni 90 ad oggi, Hanoi ha stretto accordi di cooperazione strategica con diversi paesi come Giappone (fornitura di navi della guardia costiera), Israele (sistemi di contraerea e intercettazione missili), India (batterie di missili) e Australia (programmi di addestramento per gli ufficiali dell’esercito). Ma la cooperazione militare continua anche con la Cina: poco prima dell’arrivo di Obama a Hanoi, Hong Xiaoyong, ambasciatore cinese in Vietnam, aveva incontrato il ministro della difesa locale Ngo Xuan Lich, impegnandosi a rafforzare i rapporti militari bilaterali.
L’impegno diplomatico sui fronti regionali e globali ha portato il Vietnam a essere considerato dagli altri paesi un attore sempre più di primo piano in Asia orientale. Una potenza “intermedia” in grado di svolgere un ruolo fondamentale non tanto ad arginare o contenere la Cina, quanto a evitarne l’isolamento. “Soft” e “hard” power, però, devono andare di pari passo: ed ecco quindi il necessario adeguamento delle forniture militari – ancora prevalentemente di fattura sovietica – a standard tecnologici più aggiornati.
È stato l’ex primo ministro Nguyen Tan Dung – pronuncia “Szung” –, l’uomo dietro il primo accordo commerciale bilaterale con gli Stati Uniti nel 2001 e dell’ingresso del paese della penisola indocinese nell’Organizzazione mondiale del commercio e nel Trans Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio trans-pacifico a guida Usa che secondo gli economisti del Fondo monetario internazionale potrebbe riaccendere la crescita del Drago nascente. Nel mezzo, non sono mancate certo le tensioni politiche con Pechino. Ma alla fine Hanoi e Pechino hanno sempre trovato una quadra, anche grazie ai canali tra i due partiti comunisti al governo. La mancata promozione dello stesso Dung da premier al vertice del partito comunista e la conferma del “conservatore” Nguyen Phu Trong – pronuncia “Ciòn” – pare rientrare in questo quadro di riequilibrio. Oggi Pechino è il primo partner commerciale di Hanoi. Il ripetersi degli scontri militari del 1979, nei palazzi del potere di Zhongnanhai come di Ba Dinh, non gioverebbe a nessuno.