D ue aggressioni, una quest’estate e una nel 2015, confermate dalle analisi scientifiche. Ad agosto l’orsa KJ2, considerata pericolosa, è stata catturata e abbattuta. Com’era prevedibile, la sua morte ha sollevato un’accesa discussione.
Ugo Rossi, presidente della provincia di Trento e firmatario dell’ordine di cattura e abbattimento, si è appellato alla necessità di garantire la sicurezza dei residenti e dei tanti turisti che nelle vacanze estive visitano i boschi trentini. Chi l’ha contestato ha fatto notare che in entrambi i casi KJ2 era con i cuccioli – il che renderebbe il suo comportamento aggressivo una normale reazione di difesa della prole – e alcuni sostengono addirittura che nell’ultimo incidente sia stato l’uomo ad attaccare per primo con un bastone.
Due diverse posizioni all’interno delle quali non sono mancate le solite esagerazioni, da una parte e dall’altra, semplificazioni che hanno vita facile nel conquistare titoli di giornali, servizi televisivi e popolarità, ma di certo non rendono conto delle tante sfaccettature del rapporto fra uomo e orso, e della complessità della sua gestione.
La famosa invasione
L’orso è un animale iconico, protagonista di storie e leggende. Compare sulle bandiere di città come Berlino e Berna, e di stati come la California, e fin dal Sedicesimo secolo è una delle più comuni rappresentazioni nazionali della Russia. Simbolico per la sua potenza, ma anche per il suo carattere refrattario.
“L’orso, così come il lupo, è uno dei tasselli fondamentali della natura alpina”, afferma Filippo Zibordi, zoologo ed esperto di grandi carnivori, autore del recente Gli orsi delle Alpi per Blu Edizioni. “È un animale schivo, che vive a basse densità e che è giusto tenere a distanza dall’uomo. Non è una bestia feroce ma neanche un tenero peluche. Anche per questo la sua gestione non è facile.” Zibordi gli orsi li conosce bene: ha lavorato per 13 anni a Life Ursus, un progetto avviato nel 1996 con il supporto economico dell’Unione Europea per tutelare la presenza dell’orso bruno nelle Alpi Centrali.
Promosso dal Parco Naturale Adamello Brenta e condotto in stretta collaborazione con la Provincia Autonoma di Trento e l’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (l’attuale ISPRA), il progetto ha individuato, grazie a uno studio di fattibilità, circa 2000 chilometri quadrati di ambienti idonei alla presenza dell’orso in un’area che comprende parte delle province di Trento, Bolzano, Sondrio, Brescia e Verona. I primi due esemplari, catturati nella Slovenia meridionale, sono stati liberati nel 1999, e nei tre anni successivi sono stati introdotti altri otto individui. Tutti gli orsi rilasciati sono stati dotati di un radiocollare e di due marche auricolari trasmittenti, per monitorarne gli spostamenti. Oltre alle valutazioni di natura ecologica, è stata esaminata anche l’attitudine di chi, con gli orsi, avrebbe dovuto convivere.
Non è raro che un orso – soprattutto quando deve accumulare risorse prima di andare in letargo – esca dai boschi e si avvicini agli insediamenti umani in cerca di cibo.
“Prima del rilascio, oltre a verificare la fattibilità scientifica del progetto, è stata anche studiata la sua percezione pubblica da parte dei residenti con un sondaggio d’opinione”, spiega Zibordi. “Più del settanta per cento di loro si è dichiarato favorevole alla presenza dell’orso. Un secondo sondaggio è stato fatto nel 2004, dopo il rilascio dei dieci esemplari, con risultati paragonabili. Nell’ultimo sondaggio però, quello del 2010, le percentuali sono state ribaltate: solo il trenta per cento circa dei residenti era ancora favorevole alla presenza dell’orso”.
L’orso è onnivoro. Anzi, per dirla meglio è un onnivoro opportunista abitudinario. Si nutre di carne, certo, e non sono mancati casi di orsi che attaccano una pecora per nutrirsi. Non è però un cacciatore efficiente come il lupo e non di rado la carne se la procura dai cadaveri di altri animali. È un grande consumatore di frutta, mais e, come da stereotipo, è irresistibilmente attratto dagli alveari. Non solo per il miele, però, di cui comunque è molto ghiotto: anche le larve delle api sono una parte importante della sua alimentazione.
Non è raro quindi che un orso – soprattutto quando deve accumulare risorse prima di andare in letargo – esca dai boschi e si avvicini agli insediamenti umani in cerca di cibo. Magari si limita a rovistare nei cassonetti della spazzatura, ma può anche creare danni agli alveari non protetti da recinti elettrificati, ai campi di mais o alle piante da frutto, oppure al patrimonio zootecnico (soprattutto ovini). Essendo abitudinario, se procacciarsi il cibo in questi modi si rivela pratico, tenderà a farlo di nuovo. Se poi il numero degli animali aumenta – all’epoca del primo sondaggio, nel 1997, ce n’erano solo due esemplari, mentre nel 2010 erano circa una cinquantina – ecco che il rapporto rischia di diventare sempre più complicato.
Una questione politica
“Negli ultimi anni sono aumentate le interrogazioni al consiglio provinciale e l’orso è diventato un argomento politico, tanto che ci sono stati addirittura alcuni partiti che l’hanno inserito nei loro programmi elettorali, accanto a temi come immigrazione e sanità”, racconta Zibordi. “Chi doveva in qualche modo difenderlo, e cioè l’amministrazione pubblica, ha capito che il tema era scottante e si è tirato indietro, lasciando un grande vuoto comunicativo. Ed è proprio questo fallimento della comunicazione istituzionale ad aver lasciato campo libero a strumentalizzazioni di ogni sorta.”
Poco importa se i danni provocati dagli orsi in Trentino – interamente indennizzati dallo Stato – sono poca cosa in confronto a quelli provocati, per esempio, da cinghiali e altri ungulati in Toscana. La forza simbolica dell’orso e la sua posizione nella catena alimentare conferiscono alle sue azioni una forte carica emotiva. Un incidente che lo riguarda non è qualcosa che può lasciare indifferenti.
Ed è proprio qui che l’assenza di una corretta comunicazione da parte delle istituzioni si fa sentire.
Un errore che non è stato commesso da chi gestisce l’altro grande nucleo di orsi italiani: quello dell’Appennino Centrale, soprattutto all’interno del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. “Qui si fa un’intensa attività di comunicazione sui ritmi biologici dell’orso e sul comportamento da adottare nel caso di un incontro, e finora non ci sono stati casi documentati di aggressione all’uomo”, spiega Dario Febbo, già direttore del Parco. “L’orso marsicano potrebbe essere una sottospecie a sé stante di orso bruno, verosimilmente derivante da popolazioni alpine, dalle quali è rimasta isolata 700-1000 anni fa o forse più. In questo arco temporale si è adattato all’ambiente appenninico e alla presenza dell’uomo in queste zone.”
C’è stata insomma una sorta di coevoluzione fra le due specie, che ha portato a una reciproca tolleranza. Ciò ha consentito la sopravvivenza dell’orso, la cui presenza è stimata intorno ai sessanta esemplari, il novanta per cento dei quali vive nel Parco e nella sua zona di protezione esterna.
“L’orso marsicano era piuttosto diffuso in centro Italia nei secoli passati”, continua Febbo. “Ci sono documenti storici che attestano la sua presenza in Calabria o che parlano di cosciotti d’orso venduti nel Trecento nei mercati di Firenze, ma nel corso dei secoli è stato perseguitato e braccato, finché ha trovato il suo areale di rifugio nell’area del Parco e delle zone limitrofe. E questa è stata la sua salvezza. Se si chiede dell’orso a un vecchio pastore abruzzese, ti risponde che se anche mangiava una pecora ogni tanto, gli spettava in quanto padrone della foresta.”
La forza simbolica dell’orso e la sua posizione nella catena alimentare conferiscono alle sue azioni una forte carica emotiva: un incidente che lo riguarda non è qualcosa che può lasciare indifferenti.
Dunque, la persecuzione dell’orso non veniva in genere perpetrata da chi viveva il territorio e aveva imparato a convivere con questo animale. “Gli orsi sono sempre andati a mangiare mele e pere negli alberi intorno ai villaggi del Parco. Era un fatto considerato normale e quindi anche tollerato”, racconta Febbo. “Oggi invece un fatto del genere suscita un clamore esagerato, soprattutto attraverso i social network, tanto che le persone che non vivono nel territorio dell’area protetta si stupiscono e si fanno un’idea sbagliata della situazione.”
Un problema, questo, comune alla situazione trentina, che porta facilmente a commenti e prese di posizione che poco hanno a che fare con la realtà del rapporto fra uomo e orso, tanto sull’Appennino quanto sulle Alpi.
“L’opinione pubblica si è schierata a favore o contro l’uccisione di KJ2, così come aveva fatto con Daniza nel 2014. Ma nella maggior parte dei casi si è trattato di commenti distanti dal problema vero. Personalmente ritengo che sia stato giusto rimuovere KJ2, ma quella scelta doveva essere preceduta e seguita da tutta una serie di decisioni che invece non sono state prese”, commenta Zibordi. “Il punto è che nella gestione del rapporto fra uomo e orso deve esistere una sorta di patto sociale, che privilegi l’incolumità pubblica. In Trentino gli orsi non possono fare tutto quello che la loro etologia gli consentirebbe, visto il livello di urbanizzazione dell’area. Ma non possiamo neanche permetterci di perdere la loro popolazione, vista la grande importanza che rivestono nell’ecosistema trentino. Si tratta quindi di lavorare per salvaguardare il loro habitat riducendo le possibili fonti di attrito con l’uomo.”
Al di là del confine
La gestione dell’orso non è un problema soltanto italiano. In Slovenia, luogo di origine degli esemplari con cui è stato ripopolato il Trentino, ce ne sono circa 500. In Croazia, il loro numero si avvicina addirittura al migliaio, e infatti la caccia da trofeo, sebbene fortemente regolata, è consentita. Ma i cacciatori, italiani, sloveni o croati che siano, non sono un problema. Anzi, in ciascuno di questi paesi le loro associazioni hanno spesso collaborato con le istituzioni nello sviluppo di progetti condivisi e nel monitoraggio degli animali.
“In Slovenia, negli anni ’50 e ’60, i cacciatori hanno dato un grande impulso alla protezione dell’orso, così come a quella del lupo e della lince”, spiega Tomaž Skrbinšek, ricercatore in ecologia molecolare all’Università di Ljubljana. “Molti di loro ci hanno aiutato nella raccolta di materiale biologico per le analisi genetiche.”
Skrbinšek partecipa ai lavori di Life DinAlp Bears, una collaborazione fra Slovenia, Croazia, Austria e Italia finalizzata alla gestione e alla conservazione dell’orso bruno nella parte settentrionale dei monti dinarici e delle Alpi. Finanziato dalla Commissione Europea, il progetto ha fra i suoi obiettivi l’incoraggiamento dell’espansione naturale dell’orso bruno, l’analisi delle barriere fisiche e sociali a tale espansione, e la promozione della coesistenza con l’uomo. “Una delle possibili soluzioni è di impedire agli orsi di raggiungere fonti di cibo antropogenico, per esempio usando bidoni della spazzatura fatti apposta per essere loro inaccessibili, oppure proteggendo gli alveari con apposite reti elettrificate. Un’altra è lo sfruttamento delle carcasse degli animali uccisi per strada come una possibile fonte alternativa di proteine”, conclude Skrbinšek.
Tra le iniziative del progetto europeo c’è la creazione di un’etichetta assegnata ad allevatori, possessori di alveari, contadini che si sono attivamente impegnati a promuovere la conservazione dell’orso.
“Anche un approccio sostenibile al turismo naturalistico può contribuire al miglioramento del rapporto uomo-orso e alla riduzione dei conflitti fra queste due specie”, aggiunge Irena Kavčič, ricercatrice in biologia all’Università di Ljubljana e coordinatrice delle attività di ecoturismo di Life DinAlp Bear. “L’orso ha un grande potenziale turistico, senz’altro maggiore dell’introito derivante dalla caccia, anche in un paese come la Croazia dove la caccia da trofeo è consentita.”
Fra le iniziative sviluppate dal progetto europeo c’è la creazione di un’etichetta bear-friendly assegnata ad allevatori, possessori di alveari, contadini e anche guide turistiche del territorio, che si sono attivamente impegnati a promuovere la conservazione dell’orso, a proteggere greggi e alveari per ridurre i possibili danni e relativi attriti, e a impedire che l’animale si abitui all’uomo. Oppure l’organizzazione di tour incentrati sull’idea di turismo sostenibile, che includono anche l’opportunità di fare bear-watching tramite guide locali e opportune piattaforme rialzate chiamate altane, situate nei boschi vicino a luoghi dove viene lasciato cibo apposta per attirare gli animali. In generale, quindi, oltre alle attività di gestione, monitoraggio e conservazione dell’orso, le diverse istituzioni coinvolte nel progetto – fra le quali c’è anche il Servizio Foreste e Fauna della Provincia Autonoma di Trento – hanno dato ampio spazio alla comunicazione.
Prove di convivenza
“La presenza dell’orso è già un grande valore aggiunto per il Trentino, che si vende come luogo naturale. Anche se di certo non ci si possono aspettare introiti come quelli del Parco di Yellowstone; là è l’uomo a essere un intruso nei territori degli orsi, qui da noi è ormai il contrario”, commenta Zibordi. “Attività più specifiche come il bear-watching però credo siano più difficili da realizzare, per diverse ragioni”. In Slovenia, per esempio, gli orsi sono da tempo abituati ai luoghi di alimentazione vicino ai quali sono collocate le altane, quindi è più probabile vederne qualcuno anche se comunque non è sicuro, visto che l’orso ha un olfatto molto potente ed è quasi sempre consapevole della presenza degli uomini, per quanto immobili e silenziosi siano. Inoltre, le altane slovene sono situate in posti difficili da trovare senza guida, anche per chi ci è stato, quindi è quasi impossibile che un turista possa tornarci da solo. Cosa che invece è più probabile in Trentino.
“Sulle Alpi, in sostanza, il rischio di ridurre la distanza fra uomo e orso è molto più alto, come pure quello di organizzare eventi di bear-watching senza che nessuno dei partecipanti veda neanche un orso”, conclude Zibordi. “Per come la vedo io, se proprio si vuole vedere un orso, si può andare in un cosiddetto parco faunistico”.
“Gli orsi sono fondamentali per il turismo, perché molta gente viene nel Parco innanzitutto per vedere loro. E il turismo genera un indotto di circa 30-40 milioni di euro all’anno”, spiega Febbo. “Nei periodi di maggiore affluenza turistica, in estate, molti dei sentieri che attraversano zone importanti per l’alimentazione dell’orso vengono chiusi, per evitare di disturbarlo in un momento chiave del suo ciclo vitale. Nel Parco non ci sono altane, ma particolari punti rifugi dai quali è possibile vedere gli orsi da lontano, senza quindi rischiare di infastidirli”.
La convivenza fra uomo e orso, insomma, è possibile, per quanto difficile. Ma necessita di una gestione attenta e responsabile che – come ha dichiarato quest’estate in un’intervista al Corriere della Sera Andrea Mustoni, responsabile del settore Ricerca scientifica e educazione ambientale del Parco naturale Adamello Brenta e coordinatore, fra il 1997 e il 2004, del progetto Life Ursus – sappia intervenire con “sufficiente incisività” nel caso di orsi problematici e affrontare con grande trasparenza ogni questione e problema, in modo da raggiungere un alto livello di consenso. Garantendo così benefici a tutti. Uomini e orsi.