N on sarebbe bello se non dovessimo invecchiare, ammalarci e morire? Non sarebbe bello se il mondo si potesse sottrarre all’aumento irreversibile dell’entropia e quindi al disordine e la distruzione? Sì, sarebbe meraviglioso, ma, ahimè, non è così. L’idea che il mondo in cui viviamo possa essere fatto di qualcosa di migliore della materia che costituisce corpi e oggetti è sempre stata una grande tentazione e non stupisce che, proprio in questi anni di sviluppo tecnologico, sia alla base di un’ipotesi tanto affascinante quanto debole sul piano scientifico e filosofico. Si tratta dell’ipotesi della simulazione universale (Simulated Universe Hypothesis) avanzata da innovatori di successo come Elon Musk (PayPal, Tesla), filosofi celebri come David Chalmers (hard problem), e filosofi rigorosi come Nick Bostrom (transumanesimo) e molti altri fisici e teorici della computazione.
Secondo questa ipotesi, il nostro mondo non sarebbe altro che una simulazione prodotta da qualche potentissima rete di calcolatori di qualche civiltà più avanzata della nostra. È un’ipotesi allettante perché se noi e il mondo non fossimo altro che una simulazione, anche la morte e la malattia lo sarebbero, e potremmo così sperare di essere tenuti in vita indefinitamente. Come il ritratto di Dorian Gray, questa simulazione potrebbe farsi carico delle nostre miserie e permetterci di vivere in un’eterna giovinezza. Purtroppo, come il romanzo di Oscar Wilde, si tratta solo di una fantasia. Il fatto è che, se è plausibile che nel futuro le simulazioni dei calcolatori saranno sempre più sofisticate, non è però possibile che sostituiscano la realtà, e non per una questione di miglioramenti incrementali.
Quella dell’universo simulato è un’ipotesi che ha avuto ampia circolazione nel mondo fantascientifico, a partire dai romanzi di Phil Dick negli anni Settanta, fino ai più recenti film come Inception (2010) di Cristopher Nolan e, soprattutto, il cult movie The Matrix (1999) dei fratelli (ora sorelle) Wachowski. È impossibile non citare anche l’episodio antesignano della serie Doctor Who – la puntata intitolata The deadly assassin (1976) – nel quale il protagonista, impersonato da Tom Baker, combatte contro un sistema di calcolatori che si sarebbe impossessato di un’intera popolazione tenuta prigioniera all’interno di una simulazione a larga scala; una rete di calcolatori dal significativo nome di The Matrix. Oggi, lo stesso tema è stato sfruttato per il recente e commovente episodio San Junipero (2016) della popolare serie distopica Black Mirror. In ciascuno di questi mondi immaginari si prende in considerazione la possibilità che il mondo nel quale viviamo non sia altro che una simulazione creata da qualche potere nascosto che ci fa credere di avere un corpo, di vivere sulla terra, di condurre una vita fatta di persone, oggetti, prodotti, case, cieli azzurri, mentre non siamo altro che menti o cervelli accecati da una perfetta e continua simulazione del mondo esterno.
Non è un’idea nuova, anzi, è estremamente antica. Praticamente è in circolazione dai tempi di Platone quando, con il mito della caverna, il filosofo ateniese mise in dubbio la realtà quotidiana e suggerì una possibilità sconvolgente: il mondo che vediamo non sarebbe la realtà, ma una pura apparenza, una illusione, un sogno continuo. L’idea rimase in circolazione e trovò una nuova formulazione nelle riflessioni di Cartesio, sotto forma di dubbio iperbolico. Ancora una volta, viene messa in discussione la realtà del mondo quotidiano. E se fosse tutto un inganno? Magari perpetrato da un potentissimo genio maligno che si nasconde e ci tiene prigionieri di un mondo di ombre? Il filosofo francese uscì dall’imbarazzo facendo riferimento al suo famoso cogito ergo sum e, sostanzialmente, facendo appello all’esistenza di un dio buono che non giocherebbe mai questi brutti tiri agli esseri umani.
L’ipotesi che l’universo sia una simulazione è in circolazione dai tempi di Platone: il mondo che vediamo non sarebbe la realtà, ma una pura apparenza, una illusione, un sogno continuo.
Ormai, la soluzione di Cartesio non appare più né sufficiente né rassicurante. In compenso, la diffusione di sistemi per la realtà virtuale, cellulari, strumenti di brain imaging, CGI, hanno permesso a molti studiosi di declinare il problema in chiave tecnologico-fantascientifica: e se fossimo prigionieri di un sistema di simulazione? Se il mondo che abbiamo davanti agli occhi fosse creato da un computer, da una civiltà aliena, da una intelligenza artificiale? E se non fossimo altro che cervelli tenuti in vita dentro sistemi di supporto vitale? Le ombre sulla parete degli schiavi incatenati di Platone, le rappresentazioni mentali del demone maligno di Cartesio, non sarebbero altro che le forme generate da questa simulazione universale prodotta da una rete di calcolatori.
A molti questa ipotesi è parsa plausibile. In fondo, i videogiochi non sono diventati sempre più realistici? Dove si arriverà nel giro di pochi anni? Forse le simulazioni diventeranno così sofisticate da essere identiche con il mondo fisico? Fortunatamente – o sfortunatamente se speravate di fuggire alla morte in una nuvola di bit – ci sono una serie di motivi, di natura sia empirica che concettuale, che escludono tale possibilità. E molti di questi sono proprio basati sulle caratteristiche della tecnologia e sui dati empirici.
Virtuale è reale
Il primo gruppo di motivi che escludono l’ipotesi della simulazione universale è sicuramente il fatto che in realtà, la realtà virtuale non è affatto virtuale. In pratica, tutti i sistemi a realtà virtuali noti (e non quelli immaginati nei film di fantascienza) non creano un mondo mentale, ma utilizzano dispositivi quali schermi, strumenti aptici, stimolatori tattili, cuffie o diffusori audio che producono fenomeni fisici e non virtuali. In poche parole, quando indossate un casco per la realtà virtuale (sia esso un Oculus, HTC Vive, Playstation VR), non vedete colori virtuali o udite suoni virtuali, ma colori e suoni che sono tanto fisici quanto quelli che potete incontrare durante la vostra giornata. Il rosso che è proiettato sulla vostra retina da un minuscolo visore contenuto all’interno di un Oculus è tanto fisico quanto quello riflesso da una mela matura comprata al supermercato. Infatti, volendo, si potrebbe inserire una piccola videocamera dentro il casco per la realtà virtuale e riprendere quello che il visore sta mostrando: ciò che vedete non ha nulla di virtuale.
In modo analogo, tutte le sensazioni che si provano grazie a un sistema a realtà virtuale, corrispondono a proprietà fisiche e, quindi, non sono affatto virtuali. Grazie alle caratteristiche di questi dispositivi, il soggetto interpreta certi fenomeni fisici – che comunque sono percepiti attraverso occhi, orecchie, pelle e altri organi di senso – in modo sbagliato. Per esempio, all’interno del casco vediamo una piccola figura in movimento e pensiamo che sia un dinosauro alto parecchi metri. Siamo ingannati, è vero, ma non perché vediamo colori e forme che non esistono: solo in quanto attribuiamo dimensioni e posizioni sbagliate. Erroneamente, crediamo che ciò che vediamo sia un dinosauro grande come una piccola villetta a parecchi metri di distanza mentre è solo una piccola figurina su uno schermo a pochi millimetri dai nostri occhi. Tuttavia, non è virtuale, i colori e la forma che vediamo sono reali e fisici.
In un certo senso, la più grande illusione della realtà virtuale è quella di poter creare dei mondi virtuali. Non è così. La realtà virtuale è un pezzo del mondo fisico. Per convincervi completamente, provate a chiedervi: in un sistema virtuale potreste vedere dei colori in più rispetto a quelli dell’arcobaleno? La risposta è no.
Questo l’aveva già notato Cartesio a proposito dei sogni. Per costruire i sogni, la nostra mente utilizza gli stessi mattoni di cui è fatto il mondo reale. Noi sogniamo persone, case, alberi, animali, colori. Magari ricombinati in modo fantastico e bizzarro, ma pur sempre fatti delle stesse proprietà di cui è fatto il nostro mondo. Non sogniamo colori che non esistono. Tutto ciò che sogniamo è fatto con i pezzi del nostro mondo. Tra l’altro, se si analizzano i sogni, si scopre che la loro variabilità rispetto al mondo reale è molto ridotta. Pensateci, quasi sempre i sogni si svolgono in ambienti verosimili se non addirittura familiari. Incontriamo persone, parliamo, guidiamo veicoli. La presunta leggerezza ontologica dei sogni è sempre stata esagerata. La letteratura scientifica sui sogni evidenzia una totale aderenza tra i componenti di base del sogno e quelli della realtà. Il sogno non crea dal nulla, ma è chimerico, cioè fatto di pezzi del mondo fisico.
L’anima dell’informazione
La realtà virtuale reale, cioè quella che la tecnologia ci mette a disposizione, è dunque costruita utilizzando proprietà fisiche concrete, come tutto il resto. Ciò che si vede nei film, da Matrix a San Junipero, è soltanto una favola priva di fondamento empirico basata su un altro gigantesco equivoco che oggi affligge la cultura filo-scientifica: il concetto di informazione come una specie di anima 2.0; un’idea che è diventata uno dei miti fondativi della concezione popolare del mondo nella nostra civiltà tecnologica e tecnocratica.
Dal secolo scorso a oggi, la ricorrente analogia tra calcolatori e mente umana, tra computer e cervelli, ha finito con il convincere molte persone – anche studiosi di ottimo livello – che la nostra mente non sia altro che un flusso di informazione dentro il nostro cervello, tenuto in movimento dalle nostre reti neurali. Ma questo è assurdo: l’informazione è priva di colore, forme, sapori e odori. La simulazione universale non può essere prodotta all’interno di un calcolatore, per quanto potente, perché nel calcolatore non ci sono significati ma solo informazione, ovvero bit senza colore, odore, sapore. Il significato è nel mondo reale, fatto di carne, sangue, cieli azzurri, prati verdi e mari blu.
Nel film The Matrix, c’è una scena che è rimasta impressa nell’immaginario collettivo ed è stata poi riproposta molte volte in altri film e videogiochi: una cascata di caratteri alfanumerici verdi scorrono sullo schermo e si trasfigurano in una realtà virtuale fatta di colori e forme, totalmente indistinguibile dal nostro mondo reale. Dai caratteri verdi emerge un’avvenente donna bionda in un vestito rosso saturo. Il messaggio è chiaro – l’informazione si può trasformare in un mondo virtuale – ma è un messaggio completamente sbagliato. Questa trasformazione, che viene comunemente ritenuta plausibile, da un punto di vista scientifico non è più accettabile della comparsa del genio della lampada (© Thomas Huxley), o della pietra filosofale o di un’anima immateriale. L’equivoco nasce dal fatto che, quotidianamente, l’informazione viene utilizzata per produrre immagini su schermi o su carta. Ma tale passaggio non è miracoloso. Per ottenere una foto di mio figlio, la stampante ha bisogno di pigmenti e inchiostri fisici, lo schermo del mio tablet deve emettere luci colorate. L’informazione non si trasforma in colori e forme, l’informazione si usa per manipolare il mondo fisico.
La simulazione universale non può essere prodotta all’interno di un calcolatore, per quanto potente, perché nel calcolatore non ci sono significati ma solo informazione, ovvero bit senza colore, odore, sapore.
L’idea che l’informazione sia dotata di significato ha così generato un grave equivoco. Molti, scienziati e non, trattano l’informazione alla stregua di una specie di spirito: qualcosa di invisibile che fa succedere cose meravigliose. Che cosa è in realtà? Nient’altro che una descrizione formale in termini quantitativo-matematici di un processo di comunicazione. Non è qualcosa, ma un modo di descrivere quello che succede. L’informazione misura il numero di domande sì/no che un ricevitore e un emettitore si scambiano per comunicare qualcosa. Questa vuotezza dell’informazione era già ben chiara ai fondatori della teoria dell’informazione, Claude Shannon e Warren Weaver, fin dal 1949 e fu successivamente riaffermata dal filosofo americano John Searle negli anni Ottanta. In termini più precisi si dice che l’informazione è dotata di sintassi ma priva di semantica. In pratica ciò significa che la stessa sequenza di bit (diciamo 01000001) può essere la lettera ‘A’, una nota musicale, una sfumatura di rosso, o infinite altre cose, ma non è nessuna di queste cose. Questa trasformazione però – da bit di informazione a proprietà fisiche – non ha nulla di magico, richiede dei dispositivi che facciano succedere delle cose nel mondo fisico, sulla base delle indicazioni contenute nell’informazione.
In pratica, l’informazione è simile a una ricetta per cucinare, ma non è il piatto finale. Per cucinare un piatto, la ricetta non basta, ma sono necessari ingredienti e atti concreti. Una simulazione, in assenza di dispositivi fisici, è invisibile a meno che, come nel caso della ricetta, utilizzando ingredienti presi dal mondo esterno, non si ottenga qualcosa di fisico. Guarda caso, questo è quello che succede quando si indossa un casco per la realtà virtuale o, più banalmente, quando si guarda il televisore di casa: questi dispositivi utilizzano una descrizione matematica per produrre un certo oggetto fisico – per esempio, la figura di una bellissima donna vestita di rosso. Ma ciò che uno vede non è virtuale, è il colore emesso fisicamente da minuscoli led colorati dentro il visore.
Il fascino discreto della simulazione
Ma allora perché molti scienziati e filosofi considerano seriamente la possibilità di essere vittime di una simulazione universale? Forse la risposta, più che nella filosofia o nella scienza va individuata nella sociologia della scienza e nella psicologia dei singoli ricercatori. Il fascino degli scienziati per un’ipotesi come quella della simulazione universale può sembrare sorprendente. E il fatto che questa ipotesi ricalchi da vicino le ipotesi metafisiche di Cartesio e Platone rende il loro interesse ancora più ambiguo. L’impressione è che, magari inconsapevolmente, si cerchi una giustificazione pseudoscientifica (“pseudo” si riferisce alla mancanza di fatti concreti) per sostenere la stessa intuizione che aveva mosso i filosofi del passato: trovare un mondo mentale indipendente dal mondo fisico. In concreto, però, si ragiona sulla base di un assunto che è puramente fantasioso, come la velocità superluminale in Star Wars: si tratta di pura invenzione narrativa priva di interesse speculativo o scientifico. A prescindere dal valore di questi autori, le loro conclusioni rimangono infondate. In modo analogo, non si crea alcun mondo virtuale a partire dall’informazione. Non c’è alcuna prova che ciò sia possibile, anzi, come si è visto, tutti i sistemi di realtà virtuale utilizzano proprietà reali generate da dispositivi fisici.
L’ipotesi della simulazione universale è così attraente perché suggerisce la possibilità di una fuga dal mondo della natura, soggetto alla morte e alla caducità, verso un mondo di potenziale eternità. Una speranza di immortalità cui è difficile sottrarsi. E questo legame tra vita eterna e simulazione è evidente sia nell’immaginario fantastico che nelle speculazioni di filosofi e scienziati. Per esempio, nel già citato episodio San Junipero, gli esseri umani conquistano l’eternità al prezzo di essere trasformati in simulazioni grazie a brillanti server in un efficiente centro dati. L’essere umano diventa così, grazie alla tecnologia, puro spirito. È chiaro che questo punto di vista, anche se travestito da futurismo tecnologico, nasconde il più ingenuo dualismo. La contrapposizione tra fisico e mentale, tra mente e corpo, è riproposta in pieno. Il corpo non sarebbe altro che il contenitore biologico della mente, intesa come flusso di informazione, e potrebbe, in quanto contenitore, essere sostituito con un altro contenitore, magari più pulito, sofisticato, che non sporca, non invecchia a non muore. Questa possibilità è ciò che le religioni hanno sempre promesso suggerendo nozioni come l’anima o la vita eterna – princìpi trascendenti che dovrebbero sottrarsi all’evidente caducità del mondo naturale. Le religioni, però, giocano fuori dal dominio empirico proprio della scienza e quindi possono permettersi di promettere quello che vogliono. La scienza, invece, dovrebbe evitare di promettere il paradiso.
La nozione di informazione e quella di anima hanno finito con l’avere un ruolo molto simile: entrambe sono invisibili, potenzialmente eterne, e indipendenti dal corpo che le ospita. Anche il ruolo del neuroscienziato ha, per certi versi, sostituito prima lo psicologo e poi il sacerdote proponendo una sua via all’umano: il libero arbitrio, la responsabilità personale, la natura delle sensazioni e delle emozioni. Al di fuori degli esperti, i risultati delle tecniche di brain imaging sono spesso comprese come un modo per rendere visibile la mente umana. Certi neuroscienziati hanno apertamente sostenuto che non vi sia nulla di diverso tra, poniamo, l’attività neurale registrata nel giro fusiforme della mia corteccia cerebrale e la mia esperienza del viso di Gal Gadot? Oppure, tra l’attività corticale nell’area V4 e l’esperienza di un bel rosso? Eppure finora nessuno ha trovato niente di simile alla nostra esperienza cosciente dentro il cervello. Come ha scritto il filosofo americano Tim Crane: “le tecniche di brain imaging non hanno risolto il problema della mente, lo hanno reso più misterioso”.
A volte non in modo innocente, le neuroscienze stanno imponendo un nuovo credo – che nessuno comprende criticamente ma che si accetta per rispetto dell’autorità – in base al quale la mente è quello che i neuroni fanno all’interno del cervello: la cosiddetta ipotesi stupefacente del premio Nobel Francis Crick o, in tempi più recenti, l’ipotesi dell’informazione integrata di Giulio Tononi. Ovviamente il gergo è stato adeguato alle nuove aspettative di scientificità del grande pubblico: si discute di proprietà emergenti, computazione, informazione e non più di anima, mente, sostanza pensante. Ma la struttura della spiegazione è la stessa: si deve fare un salto concettuale e logico e credere che il cervello contenga qualcosa di speciale e, soprattutto, di invisibile, ovvero l’informazione.
In questo modo, nelle neuroscienze, come nella religioni istituzionali, sembra essersi creata una casta separata ed eletta che, grazie a un percorso di iniziazione, ha il diritto di farsi portavoce di una rivelazione basata non sulla comprensione intellettuale e sul pensiero critico ma sulla autorevolezza dei suoi rappresentanti, autorizzati anche dalla consistenza dei finanziamenti a loro disposizione. Seguendo questa analogia, l’informazione dentro il cervello è diventata così una sorta di nuova anima: l’anima 2.0, scientificamente rispettabile ma non meno incomprensibile.
L’ipotesi della simulazione universale non è altro che l’ultimo tassello in questo mosaico che propone un’esistenza puramente immateriale. Ovviamente, sarebbe opportuno fare un esercizio di pensiero critico e chiedersi se esistano veramente delle prove scientifiche a favore di questa possibilità. Purtroppo non ci sono. Qualunque cosa siamo, noi esseri umani con i nostri desideri, emozioni, pensieri e sensazioni, siamo parte della natura e, come tutto ciò che è fisico, siamo destinati al declino e alla morte. Ma, almeno, siamo reali, siamo fatti di carne e sangue, non siamo e non saremo mai una fredda simulazione dentro un calcolatore. Siamo natura, non informazione.