L’ idea di scrivere Oltre l’orizzonte risale a una decina di anni fa, ma l’impulso decisivo c’è stato, nel 2015, con le celebrazioni del centenario della teoria della relatività generale di Albert Einstein.
Le celebrazioni del 2015 spesso puntavano esclusivamente sull’aspetto iconico di Einstein: lo scienziato stravagante e un po’ goffo, le sue buffe espressioni, i capelli arruffati. Oltre ad essere una rappresentazione soggetta a facili strumentalizzazioni, si tratta di un tentativo di veicolare caratteristiche completamente aliene all’essenza della figura dello scienziato. Il mio desiderio di celebrare Einstein era (ed è) agli antipodi di questo immaginario: ciò che mi interessava era sottolinearne il carattere di straordinario interprete del metodo scientifico che si è manifestato soprattutto nel “giovane Einstein”, ovvero il periodo compreso tra il 1905 e il 1917, durante il quale il fisico di Ulma fece alcune incredibili scoperte.
Il mito di Einstein che trasforma in oro qualsiasi cosa tocchi è inoltre d’ostacolo anche a un’operazione a mio avviso molto istruttiva: il confronto tra le metodologie impiegate dallo scienziato in gioventù e quelle adottate a partire dal 1917, in particolar modo dal 1919, l’anno in cui raggiunse fama mondiale. Di lì in poi Einstein gradualmente “si trasformò”, abbandonò quel fondamentale atteggiamento di umiltà nei confronti della natura che lo aveva contraddistinto fino a quel momento. Dal 1917 in poi l’attività scientifica di Albert Einstein non raggiunse altri risultati significativi; anzi, incappò in non pochi errori sui quali spesso si preferisce tacere per alimentare il mito della sua infallibilità.
Oltre a tale aspetto mistificatorio, le celebrazioni del 2015 sono state anche pericolosamente intempestive. Da diverso tempo non si registrano risultati sperimentali che possano guidarci oltre l’attuale orizzonte della fisica. I più grandi successi sperimentali degli ultimi decenni, dalla scoperta del bosone di Higgs all’osservazione diretta delle onde gravitazionali, ci hanno restituito importanti conferme sulle nostre conoscenze all’interno di schemi descrittivi già in uso, senza offrire alcuna indicazione su quale potrebbe essere il prossimo paradigma. Non abbiamo risultati sperimentali come quelli ottenuti nella seconda metà dell’Ottocento sulla velocità della luce, che portarono alla scoperta della relatività einsteiniana, o come quelli delle prime misure di livelli energetici degli atomi, che contribuirono in modo decisivo all’avvento del paradigma quantistico.
L’attuale situazione osservativa, di apparente stallo, non deve però essere considerata frustrante, perché è naturale che le fasi rivoluzionarie della fisica fondamentale siano rare. L’orizzonte del quadro descrittivo di Galilei e Newton ha retto per più di due secoli, mentre quello attuale, dovuto ad Einstein, Heisenberg, Fermi e altri, ha preso forma “solo” nei primi decenni del secolo scorso. L’unico dato che potremmo definire “preoccupante” è lo spazio che in questo stallo osservativo stanno trovando studi apparentemente rivolti alle frontiere della fisica fondamentale, ma che di fatto non provano neppure a superarne l’attuale orizzonte. Per questo trovo che le celebrazioni dell’Einstein “pop” siano state intempestive: si sono accordate a questa patologia del progresso scientifico che sta dilagando e che potrebbe essere contenuta ispirandosi all’approccio umile alla natura che consentì al giovane Einstein di oltrepassare gli orizzonti della fisica di Newton e Galilei. A preoccuparmi in modo particolare è ciò che viene racchiuso nell’idea di una “teoria del tutto”.
La mia area di ricerca, quella sulla gravità quantistica, rappresenta l’avamposto estremo di questa stagione della fisica fondamentale. I fatti sperimentali rilevanti per lo studio della gravità quantistica possono provenire solo da osservazioni in cui si manifestano contestualmente sia fenomeni gravitazionali sia fenomeni quantistici: un risultato che finora non abbiamo raggiunto e riteniamo sia molto difficile ottenere.
Molti fisici teorici, invece di moltiplicare gli sforzi per superare questo stallo osservativo, promuovono l’idea di una teoria del tutto da ritenersi “vera” esclusivamente sulla base della sua eleganza, senza il supporto dei fatti sperimentali. Si tratta del tradimento più assoluto del metodo scientifico, oltre che di un’affermazione desolante, perché l’arroganza di poter descrivere “tutto” sulla base dei fatti osservativi attualmente disponibili presuppone che non esista davvero nulla oltre il nostro attuale orizzonte, nulla di importante ancora da scoprire.
Io resto fedele a una prospettiva sul metodo scientifico in cui gli aspetti meramente interpretativi o estetici di una teoria, pur affascinandomi dal punto di vista filosofico, non abbiano valore da quello strettamente scientifico. La scienza ha sede nei fatti osservativi, non nelle opinioni o nei criteri estetici. Spesso si dice che la relatività speciale ci ha portato a vedere lo spazio e il tempo come un’unica struttura, lo spaziotempo: tale caratterizzazione filosofica (o interpretazione) è più che legittima, ma la scienza della relatività speciale risiede in predizioni quantitative e verificabili sperimentalmente, come quelle che riguardano la velocità della luce come massima velocità osservabile o la predizione della quantità di energia in cui è possibile trasformare una data massa. Avrò sempre una predilezione per il “grigio” dei risultati quantitativi di misure come queste rispetto alle abbaglianti visioni di certi filosofi e pseudofisici: preferisco i grigi fatti a un arcobaleno di chiacchiere.
È inoltre molto importante che in questo dibattito tra sostenitori e oppositori della teoria del tutto vengano coinvolti anche i non specialisti. Gran parte della ricerca, infatti, è finanziata dai cittadini, attraverso i loro governi, e spetterebbe loro la decisione se finanziare studi di grandiose (ma indimostrabili) visioni filosofiche o piuttosto una ricerca tesa ad andare davvero oltre i nostri attuali orizzonti, per scoprire nuovi fenomeni fisici e fatti oggettivi della natura.
Io sono fiducioso. Già in altri momenti di crisi della fisica fondamentale il metodo scientifico ha rimesso le cose a posto. Alla fine dell’Ottocento, per esempio, la convinzione di essere giunti a una teoria del tutto era ancora più forte di oggi, ma i fatti sperimentali fecero crollare tutti i pregiudizi di un’intera generazione di “fisici del tutto”. Guardando ancora più indietro, il mio pensiero va a Giordano Bruno, che più di ogni altro si è trovato accerchiato da ingombranti preconcetti e che ha avuto un ruolo importantissimo nella maturazione del principio di inerzia e quindi del principio di relatività. Un altro fatto che non viene mai menzionato da certi divulgatori scientifici è che la relatività di Einstein affonda le proprie radici in Galileo Galilei, e prima ancora in Giordano Bruno.
Già quarant’anni prima della formulazione più compiuta poi raggiunta da Galilei, Bruno argomentava in maniera solidamente scientifica a favore del principio di inerzia, senza contare che fu il primo pensatore a intuire che le scoperte di Copernico rendevano plausibile l’ipotesi dell’esistenza di altri pianeti come la Terra e di altre lune e altre stelle, come il Sole. I suoi oppositori erano gli arroganti sostenitori della teoria del tutto di quella stagione della fisica, ovvero il sistema aristotelico-tolemaico, che predicava l’eccezionalità della Terra e la condizione dell’universo racchiuso in un orizzonte ultimo costituito da una sfera di cristallo, a cui erano attaccate le stelle fisse. Bruno, nato a Nola, rispondeva ai suoi avversari con ironia: «Anch’io, da fanciullo, ho creduto che non vi fosse nulla al di là del Vesuvio, dal momento che al di là di esso nulla potevo scorgere». Col tempo, le certezze del sistema tolemaico di stelle fisse sono state spazzate via. Il metodo scientifico ha dato alle fiamme quei goffi pregiudizi, ha frantumato le ridicole sfere di cristallo: oggi i nostri telescopi osservano frequentemente pianeti molto simili alla Terra, in orbita attorno a stelle molto simili al Sole.
Quello che mi affascina di più della scienza non è la bellezza delle teorie che produce, che è qualcosa di soggettivo, ma la capacità dei fatti osservativi oggettivi di liberarci dai nostri pregiudizi. In certi momenti mi sembra quasi di vedere il giovanissimo Giordano Bruno, che pensava che oltre il Vesuvio non esistesse nulla, arrampicarsi un mattino sino alla cima del vulcano, e da lì, ammirato e felice, prendere consapevolezza del fatto che c’è tanto altro da scoprire.