I n principio è la Pangea, circa 300 milioni di anni fa. Intorno c’è il Panthalassa, un unico ed enorme oceano che occupa il 70% della superficie del pianeta. La Pangea non è un isolotto squadrato tipo la Sardegna: è ricurvo, con la gobba a ovest che darà vita al continente americano e la parte convessa a est dove aspettano di formarsi l’India, l’Australia, l’Antartide, una parte di Africa settentrionale e l’Eurasia. L’insenatura è riempita da un oceano più piccolo che si chiama Tetide. Grazie allo spostamento delle placche tettoniche, 120 milioni di anni più tardi, Tetide andrà a spezzare in due la Pangea, creando a nord la Laurasia e a sud il Gondwana. È proprio nel mezzo di questi due nuovi blocchi continentali che spunteremo fuori noi, l’Italia.
Fino agli anni Novanta si è creduto che in quel periodo, durante l’era del Mesozoico, la penisola italiana fosse totalmente sommersa dal mare. Mentre tutto il mondo si godeva i propri dinosauri, le ricerche, le ossa, i denti aguzzi e i musei a tema, noi rimanevamo un po’ amareggiati e in disparte, accontentandoci solo dei nostri tremila anni di civiltà varie. La relazione tra l’Italia e i dinosauri invece esiste e si è rivelata per la prima volta nel modo più inconsueto e avventuroso possibile, per caso, lontano dagli scavi istituzionali.
Nel novembre del 1980 Giovanni Todesco si trasferisce in provincia di Avellino con la moglie e i due figli piccoli. Nei weekend la famiglia mette su le scarpe da montagna, lo zainetto con l’acqua e i panini e va a esplorare i boschi, i sentieri e gli antri rocciosi. Ai bambini piace raccogliere foglie strane, conchigliette e frutta selvatica e dal canto suo papà Giovanni è un appassionato cacciatore di fossili. Un giorno decidono di visitare Pietraroja, un bellissimo paesino alle pendici del massiccio del Matese, nella provincia di Benevento. Durante la passeggiata la famiglia si imbatte in una vecchia cava dalla quale una ruspa sta attingendo per raccogliere terra e rocce. La ruspa va avanti e indietro frantumando strati di roccia e terra e portando tutto fuori per farne la base di un manto stradale. Giovanni Todesco nota subito che tra i pezzi di roccia spaccati ci sono alcuni resti fossili, piccoli pesciolini, forse qualche conchiglia. Allora decide che deve salvarne il più possibile dalla distruzione. Negli intervalli in cui la ruspa si allontana a scaricare, insieme alla famiglia, cerca di recuperare più fossili possibile.
Ogni volta che il rombo della ruspa si avvicina sono costretti ad allontanarsi e ad aspettare, osservando con dolore i cingoli che distruggono le pietre e la pala che investe le pareti. Durante l’ultima tregua Giovanni Todesco decide di addentrarsi nella cava e di cercare gli ultimi pezzi salvabili. Tra la polvere e la terra individua delle lastre con parti più scure, che sembrano tagliate in modo particolare: se le carica in grembo e ne raccoglie altre vicino che sembrano parte dello stesso pezzo, intanto tutto intorno trema e la polvere comincia ad alzarsi. Poco dopo la ruspa è entrata a schiacciare tutto e Todesco è fuori, sporco e spaventato, con il suo carico di rocce. La settimana dopo, il 23 novembre 1980, il terremoto dell’Irpinia investirà la Campania e il nord della Basilicata. Anche per questo Todesco è costretto a tornare a Verona.
La relazione tra l’Italia e i dinosauri si è rivelata per la prima volta nel modo più inconsueto e avventuroso possibile, per caso, lontano dagli scavi istituzionali.
Una volta a casa la scatola di rocce finisce in cantina e lì rimane per un bel po’. Ogni tanto quando il lavoro e la vita si fanno meno frenetici, Giovanni si rilassa tirando fuori una pietra e con la moglie ne incolla i pezzi e li pulisce. Nel tempo recupera 9 lastrine fossili, tutte di pesci piccoli e meno piccoli. L’ultima roccia, quella presa dentro la cava, è la più complessa da sistemare, è spezzata in varie parti e lo strato che copre il fossile è spesso 1 centimetro. Con tempo e pazienza marito e moglie ricompongono il pezzo e con delicatezza cominciano a pulirlo. La prima cosa che vedono una volta esportata la roccia inglobante del fossile, detta matrice, non è la familiare sagoma di un pesce, ma il moncone di una coda e una parte di zampe posteriori. Il lavoro procede molto lentamente, sempre nei momenti liberi. Alla fine di fronte ai coniugi si rivela un essere incredibile e stranissimo, molto piccolo, eppure dalla forma complessa e dettagliata, il corpo arcuato, le zampe anteriori piccole con tre artigli, la testa grande e allungata, le file di denti aguzzi, un occhio grande e tondo, il collo proteso in avanti, la cassa toracica stretta. Non è un uccello, sembra qualcosa di molto più feroce. Todesco non sa cosa pensare, per anni lo lascia in cantina sul tavolo da lavoro e va a curiosare su libri di animali e fossili, senza trovare mai una risposta convincente.
Nel 1993 esce Jurassic Park (sono passati tredici anni dalla passeggiata a Pietraroja), fenomeno mediatico senza precedenti, che fa letteralmente risorgere l’interesse per la paleontologia nel mondo. Todesco esce dal cinema e ha un solo pensiero in testa: i fossili di velociraptor che si vedono nel film sono spaventosamente simili a quello che tiene in cantina, l’unica differenza è che la sua creatura misura circa 25 centimetri ed è stata trovata vicino Benevento. È un pensiero folle e stupido, ma con uno slancio di coraggio si decide a contattare Giorgio Terruzzi, paleontologo e conservatore al Museo di Storia Naturale di Milano. Si sentono al telefono e gli dice che ha uno strano fossile da mostrargli. “Che cos’è?” gli chiede lo scienziato. Todesco è sempre stato indeciso, alcune parti somigliano a quelle di un rapace, eppure la testa è diversa, i denti sono affilati e ricurvi e poi c’è un pezzo di coda. “Per me è un uccello-rettile” risponde alla fine. Silenzio nella cornetta, un silenzio pieno di cose. “Vediamoci sabato pomeriggio” conclude Giorgio Terruzzi. Mezz’ora dopo squilla il telefono, è di nuovo lui “Vogliamo fare domani sera?”. Todesco avverte una nota di tensione nelle parole del paleontologo. Il giorno dopo sono in casa, si scambiano i convenevoli un po’ nervosamente, poi vanno in cantina. Il piccolo essere li aspetta al solito posto. Il paleontologo Terruzzi arriva davanti alla lastra e si blocca, è bianco in volto. Prende la lastra con le mani che gli tremano, ma gli cade e si spacca in basso a destra (ancora oggi si può vedere il segno), è fuori di sé dall’emozione. Comincia a dire:”È lui, è lui…”, poi si accascia su una sedia e con un groppo in gola sussurra: “Sono il primo studioso italiano a vedere il primo dinosauro italiano”.
Da quella sera gli eventi si susseguono a cascata. Il dinosauro viene chiamato “Ciro” (in fondo è un dinosauro campano) e viene consegnato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Comincia uno studio approfondito sul fossile da parte di diversi paleontologi che nel 1998 pubblicano i risultati del loro lavoro. Ciro è il primo e unico esemplare di una specie che chiamano Scipionyx samniticus, una specie di predatori vissuta in Italia circa 113 milioni di anni fa. L’esemplare è morto appena nato, probabilmente finendo in una laguna, e i fanghi calcarei lo hanno seppellito e protetto per milioni di anni. Lo stato di conservazione è incredibilmente buono; si vedono i tessuti muscolari, gli organi, i resti di cibo nel tubo digerente, i vasi sanguigni e capillari.
L’altro aspetto rivoluzionario del ritrovamento del piccolo dinosauro ci riguarda a livello geologico, e dimostra che l’Italia nel Giurassico e nel Cretaceo non era sotto il livello del mare, ma era costellata di terre emerse.
Quell’anno Ciro si aggiudica la copertina della storica rivista scientifica Nature e il suo ritrovamento ha un’eco planetaria. Intanto il trattamento riservato a Giovanni Todesco è paradossale. Oltre a non ricevere alcun riconoscimento, il 3 febbraio del 1999 viene denunciato dalla Sovrintendenza di Salerno e i carabinieri gli piombano in casa per perquisirla. È accusato di trafugamento di fossili, gli viene sequestrata la sua modesta collezione ed è obbligato a non recarsi alla presentazione del suo Ciro a Milano. Deve affrontare un processo per furto archeologico, pagandosi da solo un’estenuante spola tra Verona e Benevento, e solo cinque anni dopo, nel 2004, viene assolto e riconosciuto come “un benemerito della ricerca e salvaguardia dei Beni culturali”. Una magra soddisfazione se paragonata al valore incalcolabile del suo ritrovamento.
Oggi è possibile vedere il calco dello Scipionyx samniticus al Museo di Paleontologia di Napoli, mentre l’originale è custodito a Salerno in una cassaforte “in qualche scantinato”, come racconta lo stesso Todesco a Fabrizio Frizzi durante una puntata dei Soliti ignoti su Rai 1, in cui la storica scoperta scientifica diventa una bizzarra curiosità che viene liquidata in pochi secondi da un applauso incerto del pubblico.
In ogni caso il ritrovamento di Ciro carica di entusiasmo i ricercatori e i paleontologi italiani, mostrandogli una realtà inimmaginabile fino a pochi anni prima.
Il 25 aprile del 1994, vicino Trieste, la giovane Tiziana Brazzatti, strisciando a carponi sotto un fitto boschetto di rami e rovi per compilare la sua tesina in Rilevamento Geologico, scopre una mano con tre dita. Dopo cinque anni di lavori e trecento tonnellate di roccia rimosse, viene estratto il fossile di un Tethyshadros insularis, un androsauro vissuto circa 71 milioni di anni fa, alto 1,30 metri e lungo 4, ribattezzato “Antonio”. Questo animale è più piccolo rispetto alle dimensioni che di solito raggiungevano i suoi simili continentali (un esemplare cinese arriva a 14 metri) e questo ci fa supporre abbia subìto un processo di nanismo insulare per sopravvivere in un ambiente ristretto dove le risorse sono limitate. È il secondo dinosauro italiano.
Il terzo arriva nel 1996, grazie alla scoperta di Angelo Zanella, che in una cava vicino al comune di Saltrio, in provincia di Varese, recupera 119 ossa appartenute a un bipede di quasi 9 metri, vissuto circa 200 milioni di anni fa. Le ossa costituiscono solo il 10% dello scheletro, ma provengono da diverse parti dell’animale e ne hanno permesso una ricostruzione molto accurata. Il paleontologo Cristiano Dal Sasso, che lo sta studiando, ha affermato che questo è il più antico dinosauro carnivoro a tre dita finora trovato nel mondo.
Il ritrovamento del piccolo dinosauro dimostra che l’Italia nel Giurassico e nel Cretaceo non era sotto il livello del mare, ma era costellata di terre emerse.
Nel 2009 Luca Galletti, Vittorio Garilli e Francesco Pollina, un gruppo di paleontologi palermitani, trova la porzione di un arto in una grotta vicino al comune di Capaci. L’osso si scoprirà appartenere a un teropode vecchio cento milioni di anni. La presenza di questo enorme carnivoro (chiamato amichevolmente “DinoSaro”) rimette in discussione le teorie sulla natura dell’isola, che novanta milioni di anni fa si riteneva essere una porzione del fondale marino al largo del Nord Africa. Oggi alcune teorie ipotizzano che la Sicilia fosse una striscia di terra in parte emersa e che facesse da ponte tra l’Europa e l’Africa.
Il quinto e ultimo fossile estratto fino ad ora in Italia è quello di “Tito” (così chiamato per via dell’imperatore romano e perché appartiene alla famiglia dei Titanosauri), di cui è stata trovata una vertebra e due ossa del bacino durante la costruzione di un muretto a secco sui Monti Prenestini, a 50 chilometri da Roma. Tito è il primo sauropode italiano, ovvero un quadrupede erbivoro dello stesso gruppo a cui appartengono i brontosauri e i brachiosauri, ma con caratteristiche uniche e dimensioni ridotte, sempre legate, probabilmente, alle caratteristiche di isolamento del nostro territorio in quell’era.
A queste cinque creature si aggiungono diverse piste di orme fossili, dalle prime osservate sui Monti Pisani nel 1942 e difficilmente spiegabili all’epoca, a quelle trovate più tardi presso il Gargano (Foggia), Rovereto (Trento), Altamura (Bari), Sezze (Latina) e la più recente rinvenuta nel 2017 a oltre 1900 metri di quota sul Monte Cagno, in Abruzzo. Misura 135 centimetri ed è la più grande mai rinvenuta in Italia.
Torniamo nel Tetide per un attimo, l’oceano che spezza in due la Pangea, 250 milioni di anni fa. Oggi possiamo azzardarci a supporre che tra i due enormi blocchi continentali c’era un arcipelago di isolette che anche dal punto di vista geologico somigliava molto alle Bahamas. Durante il Cretaceo, che dura 80 milioni di anni, si creano ripetute connessioni tra queste terre frastagliate, che permettono un legame tra i due blocchi continentali e il conseguente passaggio e stazionamento dei dinosauri. È proprio in quel posto che viviamo noi ora.
Illustrazioni di Davide Bonadonna.