W ittgenstein scrisse in un famoso paragrafo delle Ricerche filosofiche: “Se un leone potesse parlare non lo capiremmo”. L’esperienza e il mondo del leone sarebbero infatti talmente diversi dai nostri da risultare incomunicabili. La finzione antica degli animali parlanti è indice di una proiezione antropomorfica di cui Wittgenstein faceva bene a indicare i limiti. Se però da quell’aforisma si ricava l’idea di assoluta incomunicabilità tra diverse forme di vita ne risulta una conclusione inaccettabile. I limiti del nostro linguaggio, infatti, non implicano che debba essere impossibile capire qualcosa della mente degli animali – comunque la pensasse Wittgenstein. Ci si addentra, però, in un campo d’indagine silenzioso e disorientante.
Più volte filosofi, scienziati e narratori hanno affrontato il problema. Darwin ne riconobbe il nuovo significato alla luce della sua teoria dell’origine dell’uomo, annotando profetico in un taccuino: “Chi comprenderà il babbuino farà più per la metafisica di quanto abbia fatto Locke”. In effetti, dagli studi di Darwin sull’espressione delle emozioni fino agli odierni studi di un etologo come Frans de Waal, gli interlocutori privilegiati di questo dialogo sono stati primati come scimpanzé, gorilla e bonobo, ma di recente il discorso si è esteso oltre i mammiferi terrestri. L’indagine sui cetacei, per esempio, è stata lanciata dalla scoperta del canto delle balene negli anni Sessanta del secolo scorso e rilanciata da libri come The Cultural Lives of Whales and Dolphins (2014), i cui autori Hal Whitehead e Luke Rendell attribuiscono ai cetacei la trasmissione culturale e l’elaborazione del lutto.
Come è accaduto con l’antropologia del secolo scorso, queste indagini rompono la barriera tra riflessione teorica a tavolino e esperienza sul campo. Con l’aumentare della distanza filogenetica, il compito dello studioso si complica e l’osservazione comporta sforzi d’immaginazione e la scommessa (non sempre vinta) dell’empatia: l’animale non può restare un oggetto di ricerca senza coinvolgere il soggetto umano. Il resoconto del rapporto con gli animali, che spesso occupa la vita intera dei ricercatori e talvolta li allontana dalla società umana, diventa così anche riflessione etica e narrazione autobiografica, rievocando un’antica esperienza di prossimità con gli altri animali, testimoniata da miti e racconti. Troviamo così, accanto agli studi più marcatamente etologici, libri come Leviathan, or the Whale (Leviatano, ovvero la balena, 2008) di Philip Hoare o H for Hawk (Io e Mabel, 2014) di Helen McDonald. L’allontanamento diventa un viaggio di scoperta sulla dimensione profonda e prelinguistica della mente, che richiede metodo, ma anche smarrimento.
I limiti del nostro linguaggio non implicano che debba essere impossibile capire qualcosa della mente degli animali: ci si addentra, però, in un campo d’indagine silenzioso e disorientante.
Su questa via ci imbattiamo anche in polpi, seppie e altri cefalopodi. Libri come The Soul of an Octopus (2015) di Sy Montgomery e, ora, Other minds. The Octopus, the Sea, an the Deep Origins of Consciousness (2017) di Peter Godfrey-Smith testimoniano di questo incontro apparentemente incongruo. Nella storia evolutiva l’antenato comune tra l’uomo e questi invertebrati sarebbe un essere vermiforme che visse 600 milioni di anni fa. Ma a dispetto di questa estrema distanza (circa il doppio di quella che, nell’albero delle specie, ci separa dagli uccelli), si tratta di animali particolarmente intelligenti, dotati di un cervello molto sviluppato. Un polpo ha circa 500 milioni di neuroni: molti rispetto alla massa corporea e di dimensioni paragonabili a quelli del cervello di un cane. Per Godfrey-Smith si pongono le condizioni di un incontro unico e decisivo:
I cefalopodi sono un’isola di complessità mentale nel mare degli invertebrati. Dato che il nostro più prossimo antenato comune era tanto semplice e remoto nel tempo, i cefalopodi sono un esperimento indipendente nell’evoluzione dei grandi cervelli e del comportamento complesso. Se possiamo stabilire un contatto con i cefalopodi in quanto esseri senzienti, non è a causa di una storia comune, non per la parentela, ma perché l’evoluzione ha costruito le menti due volte da capo. Si tratta probabilmente della cosa più prossima all’incontro con un alieno intelligente che ci capiterà di fare.
È l’intuizione che ha ispirato i leggendari kraken, lo Cthulhu di Lovecraft, gli alieni invasori di H.G. Wells e ancora di recente i pacifici “eptapodi” del film Arrival (e del racconto di Ted Chiang da cui è tratto). Godfrey-Smith ci spiega come essa possa avere avuto origine. Il suo libro, come spesso accade in filosofia, contiene cose diverse: discussioni di teorie paleontologiche e biologiche, resoconti di osservazioni subacquee, strane domande. “Fare filosofia è per lo più una questione di mettere cose insieme, cercando di ricavare un qualche senso dai pezzi di puzzle molto grandi”.
Il primo passo è capire l’eccezionalità dell’intelligenza di questi animali, che già l’antico naturalista romano Claudio Eliano caratterizzava per “dispetto e destrezza”. Godfrey-Smith raccoglie aneddoti e osservazioni fatte in mare (anche in prima persona) e in laboratorio. I polpi sanno svolgere operazioni come attraversare labirinti, svitare coperchi di barattoli e finanche usare utensili, come i gusci di cocco che si portano dietro come abitazioni: destrezza.
Ma la sorpresa sta nei “dispetti”: diversi polpi manomettono gli apparati sperimentali, scappano dalle vasche per rubare pesce, spengono luci sgradite fulminandole con spruzzi d’acqua, gettano il cibo cattivo (seppia) nelle valvole delle vasche, con quella che appare un’espressione di sfida. La capacità di sviluppare idiosincrasie si unisce al riconoscimento degli individui umani, e a comportamenti di apparente curiosità, simpatia o antipatia: così, scopriamo che alcuni polpi spruzzano regolarmente i visitatori del laboratorio o un singolo ricercatore, come quello che passando davanti alla vasca riceveva regolarmente “uno spruzzo di mezzo gallone d’acqua dietro il collo”. D’altra parte, Godfrey-Smith racconta di incontri subacquei in cui il cefalopode resta sospeso a osservare e estende un tentacolo per toccare la strana creatura a quattro zampe. In un caso, un polpo “afferrò la mano” di un assiduo frequentatore di una popolazione di polpi, che lo seguì “come se fosse condotto sul pavimento del mare da un piccolo bambino a otto gambe. Il giro andò avanti per dieci minuti e si concluse al covo del polpo”. La scena si svolge vicino a un sito particolarmente popoloso, in cui i polpi hanno accumulato mucchi di conchiglie, che Godfrey-Smith considera come una città: Octopolis.
La capacità dei polpi di sviluppare idiosincrasie si unisce al riconoscimento degli individui umani, e a comportamenti di apparente curiosità, simpatia o antipatia.
Ecco il rischio dell’antropomorfismo, a cui non può sfuggire nessun esploratore che passi molto tempo con animali intelligenti. Un rischio – talvolta pericoloso (si pensi a Grizzly man di Herzog) – ma non necessariamente un errore (io stesso ricordo un grosso polpo disturbato dalla mia torcia durante un’immersione notturna, che si allontanava sulla sabbia tirandosi dietro i tentacoli con quella che nei suoi occhietti sembrava distintamente indignazione).
Del resto Godfrey-Smith insiste anche sugli elementi di alterità radicale: il polpo ha un corpo quasi integralmente plastico, che può sfilare in piccolissime aperture o aprirsi minacciosamente come una stella: è “proteiforme, pura possibilità”. Inoltre, gli otto tentacoli sono disseminati di neuroni, per cui il polpo, piuttosto che avere come noi un centro di percezione e controllo unitario nel cervello, sente nei tentacoli. Per il polpo non si pone la distinzione tra cervello e corpo – come per l’uomo – e i tentacoli sembrano dotati di una relativa autonomia nel movimento e nell’esplorazione dell’ambiente, anche se al bisogno l’animale tira le redini del proprio corpo e si dirige come un siluro verso il suo obiettivo.
A questo punto l’indagine etologica e anatomica si interseca con domande canoniche della filosofia della mente contemporanea: Che cosa si prova a essere un polpo? E cosa ci dice la conoscenza di questi esseri sull’origine e la natura della coscienza negli animali?
Anche da questo punto di vista, il confronto uomo-polpo non è una singolare forzatura: al contrario, come risulta allargando l’orizzonte a altri libri, Godfrey-Smith non fa che realizzare un confronto che è stato a lungo ipotizzato dai filosofi.
1967: Hilary Putnam, nel famoso articolo “La natura degli stati mentali”, sostiene che è impossibile identificare uno stato mentale, per esesempio il dolore, con un determinato stato materiale, perché il dolore può essere provato da animali il cui cervello è notevolmente diverso dal nostro. Un esempio è proprio il polpo. Da questa tesi della “realizzabilità multipla degli stati mentali” Putnam ricava un caposaldo delle scienze cognitive contemporanee, cioè la definizione funzionalistica degli stati mentali: secondo questa tesi, gli stati mentali si definiscono in base al sistema di relazioni che intrattengono con stimoli, risposte e altri stati mentali, non per il fatto di possedere un’identica base materiale. Resta inevasa, d’altra parte, la domanda sulla loro omogeneità nelle diverse specie.
Per il polpo non si pone la distinzione tra cervello e corpo: gli otto tentacoli sono disseminati di neuroni, per cui anziché avere come noi un centro di percezione e controllo unitario nel cervello, sente nei tentacoli.
1974: Thomas Nagel affronta questa domanda nel titolo di uno degli articoli che inaugurano la riflessione contemporanea sulla coscienza: “Che cosa si prova a essere un pipistrello?” Secondo Nagel, “il fatto che un organismo abbia un’esperienza cosciente significa, fondamentalmente, che a essere quell’organismo si prova qualcosa”. Questa constatazione sulla natura della mente è contrapposta proprio alla concezione funzionalistica che, applicata al campo dell’intelligenza artificiale, portava ad attribuire la mente anche a “robot o ad automi che si comportassero come persone anche senza avere alcuna esperienza soggettiva”. D’altra parte, riconosce Nagel, “l’esperienza cosciente è un fenomeno ampiamente diffuso: è presente a molti livelli della vita animale, anche se non possiamo essere certi della sua presenza negli organismi più semplici ed è molto difficile in generale dire che cosa ne dimostri l’esistenza […] Essa si manifesta certo in innumerevoli forme, per noi del tutto inimmaginabili, su altri pianeti di altri sistemi solari nell’universo”.
Godfrey-Smith si pone su questa linea quando unisce la sua assidua frequentazione dei polpi con i suoi studi di filosofia della biologia. Un primo problema fondamentale è distinguere il caso di sistemi viventi anche semplicissimi, come i batteri, che reagiscono agli stimoli, da quello di animali capaci di sentire, cioè di avere un “punto di vista” sul mondo e distinguere se stessi dall’ambiente. Per orientarsi tra i tanti gradi e le tante forme di esperienza soggettiva che possono trovarsi nel mondo animale, Godfrey-Smith propone di distinguerne due specie: il sentire (feeling like something) e il possedere una coscienza integrata, capace di formare un “modello interno del mondo”. Per molti filosofi e neuroscienziati contemporanei, tra cui Stanislas Dehaene, questa distinzione non si pone: il sentire, dal punto di vista evolutivo, appare soltanto con lo sviluppo della coscienza integrata:
Ciò di cui facciamo esperienza, secondo questa concezione, è il modello interno del mondo […]. Il sentire comincia là – o, almeno, comincia a sorgere quando queste capacità cominciano a sorgere – nei cervelli di scimmie, delfini, forse altri mammiferi, e alcuni uccelli. Quando pensiamo che animali più semplici abbiano un’esperienza soggettiva, secondo questa concezione, stiamo proiettando su di essi una versione più debole del nostro proprio tipo di esperienza. Questo sarebbe un errore perché la nostra esperienza si basa su caratteristiche che essi non possiedono.
Godfrey-Smith ha diversi sostegni empirici e teorici per rovesciare questa “concezione dei ritardatari” e sostituirla con una tesi della “trasformazione” della coscienza che avviene per gradi. Diversi animali mostrano di non collegare tra di loro informazioni ricevute attraverso diverse vie sensoriali e nervose. I polpi, d’altra parte, mostrano di avere un controllo solo occasionale sui tentacoli, e quindi un’integrazione parziale tra i diversi organi sensoriali. Secondo la teoria sopra citata, questi animali non dovrebbero avere un’esperienza soggettiva vera e propria. Si tratta, d’altra parte, di situazioni paragonabili a quella umana in rari casi patologici, come la condizione di split-brain studiata da Roger Sperry e Michael Gazzaniga a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso: la separazione degli emisferi cerebrali, secondo questi studiosi, comporta la manifestazione di coscienze separate, dotate di specializzazioni diverse e capaci finanche di entrare in conflitto. Si parlava di coscienze, appunto.
Contro la concezione dei ritardatari, Godfrey-Smith invoca l’ipotesi avanzata da altri studiosi (come Derek Denton), secondo i quali alcuni sentimenti primordiali, come sete, soffocamento, dolore e piacere, costituirebbero le origini filogenetiche della coscienza nelle sue forme più complesse. Godfrey-Smith accoglie questa ipotesi, perché ritiene poco plausibile che tali sentimenti, di ovvia importanza evolutiva, possano esistere soltanto in presenza di complessi sistemi di integrazione dell’esperienza. E ne trae una conclusione più generale: il sentire può esistere senza la coscienza come integrazione dei sensi e rappresentazione del mondo.
Alla luce di questa ipotesi diventa possibile interpretare i comportamenti di molti animali che sembrano reagire al ferimento del corpo, tra cui granchi e alcuni gamberetti (e naturalmente i polpi), come prova di un vero e proprio sentimento di dolore. Tali animali acquistano così una diversa dignità etica: viene in mente l’aragosta di David Foster Wallace, che si aggrappa alle pareti della pentola.
Sul piano teorico, la distinzione proposta da Godfrey-Smith sembra utile a mettere ordine nel continuo delle forme di vita, introducendo una classificazione di forme di esperienza soggettiva senza porre nette discontinuità: dal semplice sentire (che comparirebbe già ai tempi del Cambriano) al sentirsi distinto dal mondo, al ricordarsi di sé, sapendosi individuo che resta identico nel tempo, persona. Strati di un’esperienza che in noi umani si sovrappongono – ma a volte tornano a separarsi.
Godfrey-Smith invoca l’ipotesi secondo cui alcuni sentimenti primordiali, come sete, soffocamento, dolore e piacere, costituirebbero le origini filogenetiche della coscienza nelle sue forme più complesse.
Resta il problema teorico di come immaginare la forma primordiale di sentire che non includerebbe la rappresentazione di sé. Un “rumore bianco”, forse, che fa da sfondo alle differenziazioni in cui gradualmente emerge un sé. E restano anche altre domande. È possibile attribuire un senso dell’identità a tutti gli animali che mostrano di possedere una memoria a lungo termine? La tentazione irresistibile è di attribuire a questi animali un’identità personale, come quella che noi ci formiamo grazie al linguaggio. Godfrey-Smith riconosce alcuni polpi in mare, e li chiama per nome. Ma spesso il contatto risulta spezzato, e gli incontri non si prolungano mai in rapporti. I polpi, d’altra parte, vivono solo per due anni. La distanza e la disillusione si ripresentano. Eppure, nel gesto del polpo di estendere il tentacolo, toccare l’uomo, e ritrarlo restando a guardare, è chiusa una elementare e profonda esperienza etica, che forse ci accomuna: “tu non sei cibo”.
Un altro tema affascinante del libro è quello del colore dei cefalopodi. Polpi e seppie, pur non avendo una percezione cromatica, riescono a modificare il proprio colore, spesso a scopo mimetico. Le seppie giganti (cuttlefish), in particolare, posseggono un raffinatissimo sistema di cellule cutanee che le rendono capaci di produrre motivi dinamici e variopinti. In questo video ripreso dallo stesso Godfrey-Smith, la seppia produce su metà del proprio corpo un motivo chiamato “nuvole in transito”. Sul lato da cui è visibile lo spettacolo si trova un’altra seppia. Il tutto assomiglia a un atto di comunicazione. Ma a volte, le manifestazioni avvengono in assenza di altri esemplari. (Qui altri esempi).
Per Godfrey-Smith, queste manifestazioni sono “un’espressione inavvertita dei processi interni dell’animale”. I mutamenti più bruschi, infatti, si accompagnano spesso a situazioni di attività improvvisa o pericolo. Ma questa espressività naturale non porta alla formazione di un codice di comunicazione, come è avvenuto per noi: si tratterebbe quindi di una sorta di “esperimento” incompiuto dell’evoluzione. Godfrey-Smith, stavolta, non sembra cogliere tutte le possibili implicazioni della sua esplorazione. Questa espressività inconsapevole e isolata appare ancora una volta come un frammento staccato ma fondamentale della nostra esperienza: assomiglia alla manifestazione involontaria delle emozioni, forse all’attività onirica, comunque a una condizione preliminare della creatività. La profondità del mare sembra assumere di nuovo un senso letterale di prossimità al fondo della coscienza.
“Quando ti immergi nel mare – conclude Godfrey-Smith – ti stai immergendo nell’origine di noi tutti”. Nel mare sono nate la vita e le prime forme di esperienza, l’espressione e la comunicazione. Per vivere sulla terra, ci portiamo dentro l’acqua salata. Per poter parlare dobbiamo innanzitutto bere. Eppure, per descrivere il mondo degli animali marini, l’uso delle parole risulta spesso incerto, alcune domande filosofiche non vanno a finire in risposte definitive, resta sempre una scia di vaghezza e fluidificazione del senso. Ma anche questa è una forma di conoscenza, che ci aiuta a uscire dai limiti del nostro linguaggio – e stavolta Wittgenstein sarebbe stato d’accordo.