C’ è una visione di famiglia, di comodità, di abitudine e di noia della sinistra borghese che pare aver raggiunto il proprio culmine negli anni Novanta. Si tratta di un mondo affettivo che superata “l’onta” degli anni Ottanta del disimpegno si preparava sereno e sobrio a godersi una socialdemocrazia temperata, matura. Quel mondo invece esplose: quasi all’improvviso e in totale inconsapevolezza. Se l’innesco fu l’inaccettabile visione berlusconiana capace di un incanto diffuso e seducente, i motivi più profondi risiedevano nelle contraddizioni di un ambiente politico e sociale che se fu dolce, lo fu nei confronti delle proprie idiosincrasie. Un mondo che andava alla deriva, ognuno per la sua strada. Tutti senza patria e senza famiglia, un “liberi tutti” per certi versi ricco di possibilità che non furono colte per stanchezza, per abitudine e vezzo.
Da alcuni anni Domenico Starnone sembra essersi preso in carico il racconto di quel mondo triste e disadorno. Da Spavento fino all’ultimo, intenso Scherzetto, Domenico Starnone delinea i confini di una sconfitta esistenziale legandola a un’età che non è più quella del caso e quindi della lotta, e ad una perlustrazione delle ambizioni ormai trasfigurate in sogni nostalgici o incubi angoscianti.
Fu un viaggio infastidito da sudori di debolezza e dalla voglia di tornarmene a Milano. Pioveva, mi sentivo teso. Il treno tagliava raffiche di vento che opacizzavano il finestrino con rivoli tremolanti di pioggia. Ebbi spesso paura che i vagoni schizzassero via dai binari, travolti dalla tempesta, e constatai che più si invecchia, più si tiene a restare vivi. Ma una volta a Napoli mi sentii meglio malgrado il freddo e la pioggia. Lasciai la stazione e nel giro di pochi minuti raggiunsi l’edificio d’angolo che conoscevo bene.
Scherzetto è il racconto di un dialogo – in perenne disequilibrio – tra il piccolo Mario, figlio di Betta e Saverio, e il nonno Daniele Mallarico, famoso illustratore che scende a Napoli da Milano dopo una breve malattia, angosciato da un lavoro da consegnare con anni di ritardo. I due si troveranno soli per qualche giorno: il nonno privato delle sue abitudini, ma nella casa che fu della sua infanzia; il nipote incuriosito da una figura famigliare che solo ora ha l’occasione di conoscere per davvero. Mario richiede attenzione, è incuriosito dal mestiere del nonno, ma anche profondamente critico con un occhio che sorprende e stupisce il nonno che invece ricerca a Napoli le abitudini di Milano mentre le nostalgie si intrecciano a visioni oniriche di una Napoli che riaffiora riportandolo agli anni della giovinezza e dell’infanzia legandolo così su un piano sconosciuto al piccolo Mario, figura quasi ieratica nella sua petulante saggezza.
Non mi diverto affatto. Giocare con il bambino non solo mi aveva spossato, ma aveva sottratto energia alle immagini che mi era sembrato di dover fissare con urgenza.
Le necessità, come le priorità, cambiano d’ordine: il protagonista si ritrova in continuazione strattonato tra un nuovo desiderio di libertà e di possibile felicità e una costruzione di ruolo che è però vergata da una noia privata da ogni emozione. Mallarico a tratti abbandona la sua indolenza per un attimo di rabbia come per un momento di ingenua pazzia, ma tutto poi lo riconduce alla sfibrante paura di uno sbaglio che ormai è dato, da un’esistenza forse persa all’inseguimento di opinioni e pareri spesso privi di valore o forse da un ruolo il cui peso è del tutto privo di senso.
Domenico Starnone è un narratore dell’abitudine e dell’ingenuità in un paese che condanna con durezza entrambe, sia moralmente che cinicamente (morale e cinismo vanno a braccetto), e lo fa con la consapevolezza di un’idea di società come di famiglia esplosa sotto i colpi della realtà, ma anche rimanendo fiducioso che quel sogno che ritorna in maniera scomposta e a tratti baconiana sia in fondo una via d’uscita da indagare. Una parte di realtà, solo apparentemente e momentaneamente reclusa tra i pensieri più impalpabili. Dare forma ai sogni necessita calma e felicità, due sentimenti, due atteggiamenti dell’anima che Mallarico insegue pur sbagliando da anni obiettivo. Mario sarà così la sua guida che nella sua elementare durezza nulla concede ad un nonno severo eppure così perduto.
Con Scherzetto, Starnone restituisce corpo e delicatezza a una storia comune dimenticata tra gli abiti vecchi e le case dell’infanzia. Racconto di una città e di una comunità dispersa tra i buchi di una memoria caduca e le rabbie irrisolte per una sconfitta diffusa e irriconoscibile. Scherzetto è in fondo il racconto di un Pinocchio troppo umano e troppo a lungo invecchiato.