L’ ultima opera di Kate Tempest, poetessa e rapper londinese, inizia con un’avvertenza: “questo poema è stato scritto per essere letto ad alta voce”. Ma potremmo anche dire cantato, oppure interpretato, perché Let Them Eat Chaos è un lavoro difficile da definire. Può essere considerato una raccolta di poesie, un romanzo in versi o, appunto, un poema. Ma anche il copione di una performance, oppure lo spartito delle tredici tracce che compongono l’album omonimo.
Definire cosa sia Let Them Eat Chaos (edizioni e/o, testo inglese a fronte e traduzione di Riccardo Duranti) e a quale genere appartenga non è così importante. Kate Tempest – classe 1985, due raccolte di poesie e un album alle spalle – vuole raccontare lo spaesamento, le ansie, le frustrazioni e le aspirazioni degli abitanti di una qualsiasi metropoli occidentale che si chiedono dove stia andando la loro vita, e il mondo. Lo fa ibridando i generi, dando voce e ritmo alla parola scritta, una forma fisica al testo stampato, creando un’immagine vividissima delle storie che racconta e lasciando al lettore, ascoltatore, spettatore la scelta di avvicinarsi come crede.
“Picture a vacuum” esordisce decisa la voce di Kate Tempest. “Immaginate un vuoto/un buio immobile e senza fine”. Siamo nello spazio, sospesi fuori dal tempo e dalle emozioni. Da qui la Terra è solo un puntino luminoso, una morbida superficie blu e verde dall’aspetto confortevole. Una sensazione che sparisce via via che l’immagine si ingrandisce, la voce di Tempest che aumenta di ritmo:
Man mano che vi avvicinate alla superficie,
tutta la
pace
che avete mai provato è rimpiazzata da questa
furiosa
passione
mai provata.State provando emozioni.
Per la gente. Per la vita.
Le loro facce brillano dentro di voi.
State provando emozioni.
Volete essere vicini a loro.
Ancora più vicini.
L’occhio universale continua ad avvicinarsi fino a identificare nuovi particolari. Una città: “chiamiamola Londra”. Città irreale, caotica, affollata, una terra desolata del nostro secolo, dove le vite di immigrati, pensionati, single, fidanzati, famiglie sono un misto di piccole epifanie e fatiche quotidiane per sbarcare il lunario:
Appartamenti eleganti. Appartamenti rozzi.
Appartamenti dove i gatti non sono mai abbastanza,
sapete, diciassette gattaiole.
Appartamenti ricchi, appartamenti senza un soldo.
Appartamenti nuovi.
Appartamenti vecchi.
Appartamenti di lusso su misura.
In una via di Londra, particolare e universale al tempo stesso, sette persone si ritrovano sveglie di notte. Sono le 4 e 18 del mattino, non riescono a dormire. Andiamo a fargli visita. C’è Jemma, sveglia a rimuginare su un passato di colazioni a base di ketamina, cattive compagnie, denti guasti e file per il sussidio (“Sì, ho un futuro luminoso/ ma il mio passato cerca di rovinarmi”, le parole sputate su una base rap).
Oppure Esther che “stanotte si preoccupa dello stato del mondo” nella traccia Europe is Lost, dove questioni ambientali, politiche, sociali diventano un puzzle schizofrenico di immagini di oceani inquinati dal petrolio, attacchi terroristici, eredità coloniali, generazioni cresciute sotto la soglia della povertà:
Ma non preoccuparti di questo, amico.
Non preoccuparti dei
terroristi.
Il livello del mare sale!
Il livello del mare sale!
Gli animali –
gli orsi polarigli elefanti stanno morendo.
PIANTATELA DI PIAGNUCOLARE COMINCIATE A COMPRARE!!
Ma allora gli sversamenti di petrolio?
Shh.
I guastafeste non piacciono a nessuno.
E poi c’è Pete, che barcolla ubriaco verso casa dopo essersi bevuto tutto lo stipendio (“Oops/ Rieccomi qua/Quante volte ho giurato che sarebbe stata l’ultima?” ripete il ritornello, tra lo scanzonato e il rassegnato). Bradley, single e in carriera, non riesce a scrollarsi di dosso la sensazione che la vita non sia ancora cominciata, che quello che gli succede sia solo una serie di immagini vissute da qualcun altro, non dorme e si chiede in una litania smarrita “Lo so che sta succedendo/ Ma a chi sta succedendo?/ Cosa posso fare per svegliarmi?”. Anche per Zoe, nella notte, ci sono domande che suonano come una profezia: “Di chi è questa città?”; sta per traslocare, sfrattata dal padrone di casa, la risposta già la sa: “Londra è una fortezza murata, è tutta per i ricchi, se non ce la fai sei fuori, sai dov’è la porta.” E ancora Pia, che pensa alla sua ex con un misto di ironia e amor cortese:
Accanto a lei un corpo dorme, una ragazza che conosce appena.L’ha incontrata al pub
ed è andata come al solito.
La ragazza si chiama Rose,
Ma Pia soffre d’amore per la sua Spina.
L’ha piantata l’estate scorsa,
e, da allora, Pia non riesce più a riscaldarsi.
Non è l’unico riferimento alla tradizione poetica. Let Them Eat Chaos ricorda per forma e temi la Terra Desolata di Eliot, un percorso che attraverso frammenti e immagini si interroga e riflette sulla decadenza non solo dell’Occidente, ma del mondo. Gioca con i versi shakespeariani, li innesta nei pensieri dei personaggi e riporta ai nostri giorni il senso di impotenza e indecisione di Amleto. “To die, to sleep/ to sleep, perchance to dream” prende una nuova piega:
Dormire, sognare, per tenere a portata di mano il sogno.
A ciascuno il proprio, di sogno.
Non piangere, non urlare, non c’è bisogno.Tienitelo dentro,
continua a dormirci dentro.Che devo fare per svegliarmi?
Alternando rabbia e compassione, ninnananne ed elettronica, Kate Tempest usa la musica per modulare le parole di Let Them Eat Chaos, senza mai lasciare che prenda il sopravvento sul poema. Riesce a parlare di amore, morte, aspirazioni e frustrazioni, ambiente e politica, conflitti e riappacificazioni. E a curare quel senso di smarrimento che affligge tutti:
We are lost we are lost we are lost we are lost we are lost we are lostwe are lost we are lost we are lost
wearelostwearelostwearelostWe
Are
Lost.