D iego Marcon è un artista nato nel 1985 a Busto Arsizio, Lombardia. Quest’anno è stato finalista del Premio MAXXI Bulgari, ha vinto la quarta edizione del Premio Fondazione Henraux e ha da poco inaugurato una personale presso La Triennale di Milano in cui presenta una sola opera, La miserabile. Conosco Diego da anni e prima che lo facesse il suo lavoro è stato l’esemplare umano ad affascinarmi. Nel linguaggio della stand-up comedy esiste un termine – persona – preso in prestito dal latino e dalla psicologia analitica, per definire la sintesi di tematiche, linguaggio e ritmo propria di ogni comico. La persona è l’interfaccia che il performer presenta al pubblico e non coincide mai del tutto con l’individuo che scende dal palco.
Ciò che da sempre mi colpisce di Diego è il modo in cui la sua persona conviviale risulti in tutte le circostanze estremamente controllata e dettagliata, linguisticamente strutturata e strutturante. Utilizzando affettazioni, espressioni formulari e luoghi comuni; da che lo conosco ho l’impressione che Diego desideri trasformare ogni suo episodio – il racconto di una barzelletta, una partita a Tokyo, completare una Settimana Enigmistica in spiaggia con gli amici – nell’orma sentimentale di quell’episodio; in un topos con comparse: noi. Una messa in scena in cui tutta la grammatica dell’esperienza in questione viene dispiegata con grande rigore sintattico, per catturare in purezza la puntualità e l’intensità – ma anche il patetismo e la mondanità – del momento e conservarne un fossile venato di malinconia.
Come l’anonimo protagonista del romanzo Remainder di Tom McCarthy che, tramite ricostruzioni fisiche sempre più ossessive di alcuni istanti della sua vita, aspira a una più alta consapevolezza ontologica della trama del mondo; osservo Diego – l’essere umano e la sua funzione di artista – e mi pare aneli a sottrarre all’entropia dell’esistente precisi frammenti di realtà, per farne baluginare la perturbante melassa metafisica in cui galleggiano.
Uno dei lavori che preferisco di Marcon è Untitled (Head falling). Si tratta di cinque film in loop, della durata di dieci secondi ciascuno, in cui assistiamo, in primissimo piano, al lento chiudere gli occhi e all’estenuante accasciarsi e subito risollevarsi di cinque teste sospese tra il sonno e la veglia. La natura del loop non ci dà modo di sapere cosa alla fine avrà la meglio, mentre la tecnica di pazientissima colorazione e incisione manuale a cui l’artista ha sottoposto ogni fotogramma (“dipingevo, mangiavo mele, ascoltavo black metal. Ho passato un’estate così”, racconta Diego), rende fantasmagorica e iper-reale la dinamica di un non-gesto “da pendolari”, manifestandone la consistenza arci-umana tra le pieghe della sua fugacità.
Quando ci incontriamo nel suo studio/appartamento in zona Bande Nere a Milano, dopo aver consumato una granita e due tipi di focaccia a diversi livelli di lievitazione che Diego enfatizza con molto pathos (un feticismo, quello per le peculiarità dei prodotti da forno, che condividiamo), mi ricordo, da precedenti conversazioni, che il suo interesse nel discutere i soggetti delle opere è tutto sommato limitato. Ciò su cui ritorna più spesso, quantomeno nei discorsi, è l’esplorazione dell’immagine filmica in quanto tale e l’appagamento che ricava dal labour tecnico da essa richiesto. Un appagamento che gli fa percepire come affini, artisti che lavorano con linguaggi materici – quali la pittura e la scultura – apparentemente distanti dal suo, e che lo porta a parlare di ciò che produce usando un termine operaistico come “lavoro” e quasi mai uno aulicizzante come “opera”.
“Il mio medium di elezione è l’immagine in movimento. Non mi interessa chi fa video per raccontare o divulgare qualcosa anziché per indagare il linguaggio visivo che utilizza. Per questo non amo i lavori a soggetto: quello che mi interessa è che il contenuto del lavoro e la forma che il lavoro prende siano fortemente connessi fra loro e portino avanti una profonda analisi del mezzo stesso e del suo linguaggio. Negli Head falling, per esempio, guardando i film, il rimando al processo utilizzato – dipingere e grattare a mano un’infinità di frame – è costante. L’esaurimento del processo di lavorazione è connaturato a quello del gesto ritratto, una singola e secca azione. La sintesi è un processo che mi interessa molto, così come mi interessa molto utilizzare dei topoi, delle figure archetipiche isolandole da qualunque contesto narrativo nel tentativo di condensare tutto in un punto di intensità e di grande asciuttezza”.
Una di queste figure archetipiche è Il malatino: un altro loop filmico, un breve cartone animato estremamente essenziale e rétro nella sua estetica da vecchia animazione, in cui assistiamo al pesante sollevarsi del petto di un bambino evidentemente malato: solo nel suo letto, le palpebre illividite dalla febbre, un esile braccio che spunta dalle coperte, la testa sprofondata tra le pieghe di un cuscino tanto grande da farci credere che occupi l’intero universo del piccolo convalescente. Il bambino sembra grave ma – privi, appunto, di un “contesto narrativo” in cui inserirlo – non sappiamo quanto. Sappiamo solo che in quell’attimo in cui lo osserviamo, in quel respiro inspirato ed espirato indefinitamente, Il malatino è ancora vivo. Potrebbe trattarsi del secondo atto di una fiaba: in una mattinata croccante, Il malatino si alzerà dal letto finalmente guarito e, pieno di energie, si infilerà dei guantini di lana per fare a palle di neve con altri bambini; un allegretto per pianoforte. Oppure dell’ultimo atto di una tragedia: un dottore chinerà il capo, una madre scoppierà a piangere tra le braccia di una figura che dignitosamente l’accoglierà; una messa per organo. Nel cliché del cartone animato tradizionale – da Disney in giù – la vicenda si risolverebbe in uno di questi epiloghi. Nel lavoro dell’artista, invece, l’ambiguità intorno al destino del malatino non si dissipa, si perpetua anzi nell’eternità del loop, creando un “punto d’intensità” che sottolinea, non senza ironia, tutto il patetismo della sua condizione. Della sua perseveranza a esistere come immagine.
Quando l’ho incontrato, lo scorso marzo, Il malatino mi aspettava in fondo a una lunghissima sala buia del PAC di Milano tra le cui pareti, anziché il suo flebile respiro (il film è muto), echeggiava soltanto lo srotolarsi della pellicola all’interno di un proiettore 16mm. Un rumore anti-diegetico che, con la sua reiterazione, mimava il respiro del bambino calando un’incongrua serenità meccanica sul suo dilemma.
Soprattutto un suono che sottolineava come, in ultima istanza, il contenuto dell’immagine per l’artista sia in realtà subordinato e funzionale a una metodica esplorazione strutturalista delle tecniche che la (ri)producono.
“Quando abbiamo presentato Il malatino a Museion a Bolzano, si è aperta una discussione dai toni piuttosto accesi con uno spettatore che mi chiedeva perché non volessi spiegare il lavoro, aggiungendo che trovava arrogante il mio non volerlo fare. Non credo sia un atteggiamento arrogante, al contrario lo è presupporre che un qualsivoglia spettatore debba essere imboccato di chissà quali nozioni sul lavoro. Soprattutto il fatto è che su un film come Il malatino non c’è molto da dire: non è che un bambino malato a letto che né guarisce, né muore, e resta lì così – sospeso, trattenuto su una soglia dalla proiezione stessa; dal cinema. Per quanto possa sembrare piuttosto semplice, un film installato al di fuori della sala cinematografica ha bisogno di un preciso e attento allestimento: lo spazio e ogni suo elemento architettonico concorrono a definire una determinata percezione del lavoro. Era così ad esempio per Il malatino che, allestito al PAC, si trovava in fondo a una lunga ed enorme stanza vuota. Ho voluto installare il lavoro lì perché la desolazione dell’enorme spazio vuoto, la lunga camminata da compiere per andare a rendere omaggio al malatino, il rumore del proiettore che risultasse percepibile prima ancora della figura, fossero tutti degli elementi che predisponessero lo spettatore per una certa visione del film. Questi elementi hanno importanza anche rispetto al tema della scarnificazione e del raggiungere l’asciuttezza di cui parlavamo prima. Lo spazio risulta tutto sommato vuoto ma il vuoto stesso con cui si presenta il lavoro è in verità un ulteriore elemento che è parte del lavoro. Allo stesso modo, con La miserabile, per la prima volta ho lavorato in uno spazio quadrato, che trovo sia più difficile da gestire rispetto a uno spazio rettangolare, ma che allo stesso tempo ha una grande forza ed energia in sé”.
Per quanto Diego sia piuttosto restio a praticare l’auto-esegesi dei lavori, proprio La miserabile fornisce diverse chiavi di accesso ai contenuti della sua poetica. La più esplicita si trova nell’epigrafe che precede il testo curatoriale di Edoardo Bonaspetti. Estrapolata da un dialogo fra l’artista ed Eva Fabbris pubblicato su Mousse, rispondendo alla domanda “che cosa è per te patetico”, Marcon dice: “Patetica è per me la condizione umana e il suo perseverare nel trascinare se stessa come proprio fardello”.
L’esempio forse più eclatante di quanto l’ispezione esistenziale sia centrale nel lavoro dell’artista, lo si ritrova nell’opera finalista al Premio MAXXI Bulgari: una composizione di otto loop con minime variazioni al loro interno. In essa incontriamo Ludwig (che è anche il titolo dell’opera), un bambino in CGI, biondo, le guance rubizze, gli occhi neri, un accenno di occhiaie. Indossa un maglione blu da cui spunta il colletto di una polo gialla.
Come Il malatino, anche Ludwig è solo e prigioniero della soglia del suo loop: seduto su una cassa, nella stiva di una nave preda di un mare in burrasca. Intorno a lui è l’oscurità, rischiarata dall’occasionale fulmine e dal fiammifero che – novello “piccolo fiammiferaio”, un altro topos fiabesco – il bambino tiene in mano fino alla sua completa combustione e alla conseguente bruciatura di un polpastrello, seguita ogni volta da un “ahi!”. Osservandolo avvicinarsi e allontanarsi dallo schermo al ritmo violento delle onde, emergere e sparire nel buio, in balia di questa autentica collezione completa di terrori dell’infanzia (la solitudine, il buio, il temporale), non possiamo che provare una forte compassione. Di nuovo si tratta di una sequenza a prima vista imparentata con il sentimentalismo di certo cinema di animazione e che personalmente mi ha ricordato il naufragio iniziale di Fievel sbarca in America (che in effetti è stata una fonte d’ispirazione per la realizzazione dei fulmini).
Il fatto che – sulle note composte da Federico Chiari, collaboratore di lunga data di Marcon – a un certo punto Ludwig intoni un lied autocommiserante (“Dio come son stanco mi sento proprio giù/ Vorrei tirar le cuoia e non pensarci più/ Eppur…”), ogni volta troncato dalla bruciatura proprio quando una congiunzione avversativa sembra preludere a un suo “ottimistico” rovesciamento, conferisce infine a tutta la scena un timbro emotivo che dal drammatico si stempera prima nell’uncanny e approda in ultimo – direi – quasi al comico.
Nella Critica del Giudizio, Kant scrive che la condizione per apprezzare il sublime dinamico della natura sia la possibilità di osservarlo da una posizione di sicurezza. Nel farlo propone, tra gli altri, proprio l’esempio di un mare in tempesta. Se lo osserviamo dalla riva lo troveremo tanto terrorizzante quanto vivificante. La sua vista sortirà l’effetto di elevare il nostro animo “al disopra della mediocrità ordinaria” , di farci scoprire “una facoltà di resistere internamente che ci dà il coraggio di misurarci con l’onnipotenza della natura” e di metterci in relazione con una dimensione sovrasensibile esperibile solo in modo pre-concettuale e puramente sentimentale. Diverso sarebbe se fossimo su una barca in mezzo a quello stesso mare. In tal caso, sostiene Kant, non riusciremmo a provare nessuna consolazione estetica poiché “colui che teme non può giudicare del sublime”.
L’analitica del sublime – è cosa risaputa – fu uno dei motivi ricorrenti del movimento romantico che, a sua volta, riportò all’attenzione della cultura europea la funzione dell’ironia come momento di rovesciamento della dialettica negativa tra la coscienza priva di oggetti dell’interiorità umana e la realtà esteriore priva di coscienza. L’ironia romantica è tuttavia un’ironia fragile e inafferrabile, un fiore che appassisce appena lo si tocca o, forse, un cerino che si sfiamma sul più bello.
C’è una tale sovrabbondanza di simbologia romantica e mitteleuropea in Ludwig (l’individuo nella tempesta, il lied così tipicamente Sturm-und-Drang, i colori della bandiera europea indossati dal bambino; ovvero il progetto culturale, oggi semi allo sfascio, che proprio nello spirito romantico ha avuto la sua culla e proprio da una composizione di un certo altro Ludwig ha ricavato il suo inno) che non la si può ritenere casuale.
Ecco che allora, in questo schema allegorico, il canto del bambino cessa di suonare come una lagnanza – una reazione incongrua rispetto alle sue condizioni di immediato pericolo e di triste isolamento – e ci appare come l’espressione di una “facoltà di resistere” intensamente ironica e sentimentale. Rovesciando l’analitica kantiana: benché sia “colui che teme”, il bambino infatti conserva, ed esprime nel canto, le sue facoltà riflessive, e dunque vitali, al disopra delle terribili contingenze in cui si trova (il che, ironicamente, le rende ancora più terribili. Del resto introdurre l’ambiguità e potenziare la consapevolezza è esattamente la funzione dell’ironia). Giungendovi da un’altra traiettoria, qualcosa di simile lo ha scritto anche Michele D’Aurizio in un recente numero di Flash Art: “il bambino è sì spossato, sopraffatto dagli eventi mondani, ma dal suo canto traspare una nobiltà d’animo che ne emancipa il lamento da una dimensione di vittimismo infondato (emo, diremmo oggi)”.
“È come se Ludwig – precisa Marcon – proprio nel riconoscere la sua condizione patetica intravedesse anche la comicità del cul-de-sac che costituisce; il loop in questo ha un ruolo determinante, perché nella reiterazione l’episodio prende la forma di una running gag ripetuta all’infinito. Questo aspetto comico del lavoro è fondamentale: senza sarebbe di un patetismo o di un nichilismo sbracati e insopportabili. C’è sicuramente una visione piuttosto cupa della questione, tuttavia questa convive sempre con un aspetto ironico. Paradossalmente, è questo aspetto ironico che rende ancora più vivido l’aspetto cupo, e viceversa. Come per forma e contenuto, anche qui i due elementi si sostengono e amplificano a vicenda. Accade esattamente come in Thomas Bernhard: più l’autore insiste nella reiterazione degli aspetti più miserabili dei suoi personaggi, più si ride di gusto, perché le cose risultano immediatamente grottesche. È però proprio questa risata che, appena si prende il respiro, fa accusare con ancora più forza la condizione miserabile dei suoi protagonisti”.
A rendere ancora più inusuale il loop di Ludwig c’è ovviamente il fatto che, al pari de Il malatino e di molte altre figure che abitano il mondo di Marcon, il protagonista sia un bambino. Ovvero un soggetto anagrafico che la cultura contemporanea ha cristallizzato in una serie di accezioni univocamente positive, collocate all’opposto del pessimismo riflessivo che esprime il canto che l’artista ha scritto per lui. Se, a un’analisi superficiale, questa scelta può sembrare ripagata dal suo semplice shock value, la verità è che l’interesse di Marcon per il tema dell’infanzia è molto articolato, interamente connesso alla sua indagine della questione del “sentimentale” e costituisce forse la parte più esplicitamente politica del suo lavoro.
“La dimensione che non mi interessa dell’infanzia è il suo essere stata eretta a simbolo di purezza e innocenza. Semmai, della figura del fanciullo, mi interessa al contrario la sua possibile ambiguità. Da una parte il bambino è sicuramente un soggetto vulnerabile e che crea compassione, e che perlopiù fa emergere un desiderio di “prendersi cura”. Allo stesso tempo, il bambino può essere però una figura anche piuttosto sinistra, tant’è che nella letteratura e nel cinema di genere i bambini sono spesso personaggi spiritati o demoniaci, fino ad arrivare a film non di genere come Il nastro bianco di Michael Haneke in cui i bambini del film sono malvagi, sono quelli che da adulti diventeranno nazisti. Per me il bambino è una figura che, proprio per questa sua vulnerabilità e allo stesso tempo per la sua ambiguità, con la sua sola presenza costringe immediatamente su di una soglia… Allo stesso tempo vorrei che, quando si reca a una mia mostra, lo spettatore sia avvicinato prima al cuore che alla testa, e questo è possibile anzitutto grazie all’aspetto sentimentale del lavoro. Anche questo, a sua volta, è un aspetto molto ambiguo, perché in fin dei conti la dimensione sentimentale è esattamente quella su cui lavorano, ad esempio, le propagande populiste e fasciste. Il bambino come chiave d’accesso al sentimentale apre quindi a un campo di battaglia, anche in senso politico, che si gioca dal punto di vista linguistico e per me è importante che l’arte lavori su questo campo. Che l’arte crei uno spazio di opacità, negatività e demistificazione, in un mondo che osanna sempre di più la trasparenza e la positività come valori imprescindibili”.
Come tutti i nodi tematici del suo lavoro, questa dialettica tra chiarore e opacità, tra luce e buio, si esplica tanto nella poetica quanto nella pratica di Marcon. Accade infatti di frequente che, nelle sue opere, il soggetto dell’immagine sparisca interamente, appaia per un tempo molto limitato o sia difficilmente individuabile. In Ludwig il bambino viene (ri)fagocitato dal buio ogni volta che il fiammifero si spegne. Monelle è un film in cui l’oscurità è addirittura la regola ed è l’apparizione di un’immagine, per il tempo infinitesimale di un flash, a essere l’eccezione. In lavori più datati come Litania (2011), un non-documentario sulla comunità di fedeli di Medjugorje, uno dei primi video ancora vagamente a soggetto dell’artista, è l’intero film a spegnersi, assecondando il tempo della sua diegesi, fino ad andare del tutto “a nero”. Con il Super8 di Pour vos beaux yeaux invece l’artista sollecita il nostro sguardo a discernere – o forse sarebbe meglio dire a immaginare, nel senso proprio di processo di (ri)costruzione dell’immagine, a partire dal ricordo ideale di quell’immagine – i profili gassosi e appena accennati delle nuvole nel cielo bianchissimo sopra l’Ilē de Vavissiere. Le stesse Head falling, con la loro alternanza di sonno (buio) e veglia (luce), pur non rappresentandola esplicitamente, in qualche modo partecipano di questa dialettica.
Il processo di comparsa e scomparsa dei soggetti, di accensione e spegnimento delle fonti di luce, ovviamente ha ancora una volta a che fare con un’indagine tecnico/ontologica della rappresentazione cinematografica e del suo rapporto con il rappresentato. Tuttavia, come coglie Michele D’Aurizio nel già citato articolo di Flash Art, è anche un modalità di figurazione della malinconia suscitata dalla perdita dell’immagine e, quindi in un’ultima analisi, un’ulteriore indagine del “sentimentale”. Scrive D’Aurizio: “Quando il fiammifero si estinguerà, lo spettatore si troverà nel buio della sala di proiezione, a fare i conti con l’impressione retinica lasciatagli dall’immagine di Ludwig; quell’impressione che egli percepirà solo nella solitudine del proprio io, è l’immagine mentale della propria malinconia”.
Nella tradizione culturale occidentale, fin dall’età antica la cecità è stata di frequente associata a una forma di gnosi alternativa, di accesso a un Reale di natura extra-fenomenologica. Nel Mito accade spesso che, togliendogli la vista, gli dei compensino l’accecato con qualche virtù divinatoria. Nel neo-platonismo e nella mistica cristiana-medievale, la dialettica della visione si muove dal sensibile all’intellettuale. Cieco, di fronte alla possibilità di conoscere il principio primo, è colui che lo cerca nel mondo esteriore delle forme sensibili attraverso la ragione, anziché nel buio dell’auto-contemplazione e tramite l’intuizione, di nuovo, sentimentale. Si forma così, sulle basi dello gnosticismo ellenistico, l’idea di una teologia negativa (detta anche apofatica) secondo cui l’unica strada (la via negativa) che conduce al Reale trascendente, è, infine, la rinuncia (ovvero, di nuovo, una forma di perdita) a qualunque sua possibile definizione ontologica e, di conseguenza, a qualunque sua possibile rappresentazione mentale. Scrive Plotino nelle Enneadi: “Il pensiero non può comprendere l’Uno finché qualunque altra immagine è presente nella sua anima”.
A questo punto vale la pena notare come, nella già citata conversazione con Eva Fabbris apparsa su Mousse, Marcon stesso menzioni la teologia negativa in rapporto alla sparizione dell’immagine nel suo lavoro:
“Mi ha da sempre affascinato la teologia apofatica per cui la possibilità della conoscenza di Dio – che è per me un sinonimo di Reale – è possibile solamente per negazione. Lo stesso vale per il Reale, con cui un incontro è sempre negato, se non nella psicosi, che per la mistica è costituita dall’estasi. Litania sprofonda lentamente l’immagine nel buio, per proseguire solamente nel sonoro, che testimonia la presenza di una dimensione altra, invisibile, al di là dello sguardo e della presenza. […] Litania ha trascinato nel buio anche il mio lavoro. È da quel buio che ho sentito per la prima volta il desiderio di girare in pellicola ed è da quel buio che è affiorato Pour vos beaux yeux – realizzato in camera oscura con tecniche DIY di sviluppo della pellicola cinematografica – e l’intenzione di lavorare con la fiction. È in quel buio che ora si trova il mio lavoro”.
Paradossalmente, da quel buio da cui proviene, il lavoro di Diego sta sempre di più emergendo alla ribalta di svariati riflettori. Il 2018 è stato un anno importante e ricco di soddisfazioni per lui: premi, mostre personali, articoli su riviste importanti. Conoscendo una sua certa refrattarietà alla coolness – intesa come benigna chiacchiera heidegerriana, senza grande peso specifico e valore riflessivo – mi chiedo, e gli domando prima di salutarlo, quanto gli faccia piacere e come viva questa sua popolarità nel milieu della nuova arte contemporanea italiana.
“È il dialogo con persone che mi stanno vicine, e a cui interessa la mia ricerca, a generare momentum. È così che nascono articoli, mostre e quant’altro. Queste cose sono spesso la conseguenza di un lavorio incessante di anni e non un obiettivo in sé; il confronto cui danno luogo è un aspetto importante e che iscrive la ricerca in un pensiero e in percorsi precisi e sostanziali. Per ogni articolo, premio, proiezione o mostra che sia, sono sempre molto contento ed emozionato. Ma dura un istante, e alla fine mi rendo conto che ogni cosa è soltanto un’altra cosa. Tutto si spegne nel momento in cui lo vedi.”
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