I l polverone giuridico che ha coinvolto negli ultimi mesi l’ex governatore della Catalogna Artur Mas, accusato dal governo spagnolo di disobbedienza civile per aver celebrato a novembre del 2014 una consultazione popolare sull’indipendenza della regione – espressamente vietata dalla costituzione spagnola – ha rinfocolato un dibattito da sempre molto acceso in Spagna.
Gli assunti delle posizioni indipendentiste catalane risalgono addirittura al 1716, anno in cui il Principato di Catalogna fu annesso alla monarchia spagnola, cessando di esistere come stato ma non – per i fautori del catalanismo – come nazione. Da quegli anni le rivendicazioni degli indipendentisti non sono poi mutate molto e, sopravvissute ai regimi centralisti di Primo de Rivera e Franco, si sono formalizzate in richieste crescenti di autonomia politica, economica e culturale. Queste istanze hanno poi trovato piena espressione sotto forma di linguaggio artistico, soprattutto in letteratura e in musica grazie a una tradizione consolidata, dove sono riuscite a produrre nel corso del Novecento correnti di grande rilievo. Basti pensare a scrittori come Joan Salvat-Papasseit, Mercè Rodoreda, o al cantautorato della Nova Cançó, e a quanti nuovi spunti di riflessione hanno dato con le loro opere alla causa catalanista.
Gli stessi risultati però, sia a livello qualitativo che di omogeneità d’intenti, non sono stati mai raggiunti nel nuovo e più popolare medium del secolo, il cinema. Il cinema catalano, anche per colpa di congiunture storiche avverse, ad eccezione d’isolati episodi si è andato a configurare fin dalle sue origini come una forma d’arte industriale cosmopolita, improntata più su una produzione generalmente iberica di facile monetizzazione (seppur con mezzi abbastanza limitati), che sulla creazione di film dai contenuti e forma catalani. Insomma, in totale controtendenza rispetto all’attuale linea politica della regione. Non sarebbe del tutto un’iperbole infatti parlare, più che di “cinema catalano”, di “cinema fatto da catalani”.
Il cinema repubblicano
Nel momento cruciale del passaggio al cinema sonoro la Spagna attraversa una crisi politica che conduce al colpo di stato del 1923 di Primo de Rivera, la prima e più breve deriva reazionaria in cui sfocia il paese. Il governo spagnolo non sembra nutrire grandi interessi per l’industria cinematografica, finora appannaggio esclusivo della dinamica borghesia catalana, arricchitasi con la produzione di serial d’ispirazione italiana molto popolari. Con l’avvento del sonoro il castigliano diventa l’unico veicolo linguistico del cinema (e forse lo era anche prima, perché di didascalie in catalano o in basco non si ha alcuna notizia). Madrid nel frattempo diventa il polo principale di questa esigua produzione, scalzando il primato di Barcellona. La situazione non cambia neanche con la proclamazione della Repubblica del 1931 e per trovare film in lingua catalana bisogna aspettare lo scoppio della guerra civile del ’36.
L’utilizzo dell’audiovisivo durante la guerra civile spagnola ha un’importanza storica fondamentale, in quest’occasione infatti il cinema sonoro diventa per la prima volta lo strumento di divulgazione principale della propaganda bellica, un modus operandi che verrà riproposto dai paesi coinvolti nella seconda guerra mondiale. La fazione repubblicana riesce a controllare i centri di produzione di Madrid e Barcellona, i falangisti sono costretti ad appoggiarsi ai centri di Lisbona, Berlino e Roma. La produzione repubblicana è chiaramente la più diversificata, visto che al suo interno convivono sindacati, anarchici, comunisti, oltre alle realtà delle autonomie.
Una delle correnti più originali si sviluppa ad inizio degli anni Cinquanta grazie a una serie di film di genere che molti anni dopo verranno impropriamente rinominati “polizieschi alla catalana”.
La Generalitat, il governo autonomo catalano, fonda la Laya Films, sotto la direzione dell’intellettuale Joan Castanyer che in passato aveva collaborato con Jean Renoir. La Laya porta avanti un progetto di cinema sociale sul modello di quello sovietico, rigorosamente in lingua catalana, avvalendosi di aiuti tecnici ed economici francesi. Vengono prodotti soprattutto brevi documentari, come Espanya al día e L’enterrament de Durruti, e mediometraggi tra cui spicca Catalunya màrtyr (1938) di Joan Marsillach, una pellicola che deve molto al grande spaccato filo-repubblicano di The Spanish Earth (1937), il capolavoro americano diretto da Joris Ivens frutto della collaborazione di mostri sacri come Ernest Hemingway, John Dos Passos e Orson Welles. Il film di Marsillach è un atto di denuncia rivolto alla comunità internazionale nei confronti dell’aviazione tedesca e italiana, responsabile dei feroci bombardamenti sulle città catalane, e per questo viene distribuito in numerose copie in diverse lingue (qui si può vedere la sua versione francese).
Barcellona è l’ultima città a cadere in mano ai franchisti vittoriosi nel 1939 (che nel frattempo avevano già costretto all’esilio il regista Luis Buñuel), e questa estrema resistenza andrà a rinvigorire nell’immaginario catalano il risentimento verso l’autorità centrale di Madrid.
Il periodo franchista
I trentasei anni di dittatura franchista (1939-1975) sono connaturati da una politica autoritaria e centralista, condizione che implica la soppressione dei governi autonomi e di qualsiasi loro forma di espressione, anche artistica. Barcellona insieme a Madrid perdura come città di riferimento per il cinema, e si trasforma nel teatro di posa di film d’evasione che esaltano la prospettiva dei vincitori della guerra (ancora un modello di cinema italiano, quello dei “Telefoni bianchi”).
Una delle correnti più originali si sviluppa ad inizio degli anni Cinquanta grazie a una serie di film di genere che molti anni dopo verranno rinominati, a mio parere impropriamente, “polizieschi alla catalana”, un cinema che di catalano ad eccezione delle ambientazioni barcellonesi e dell’origine dei registi, conserva ben poco. I due film capostipite di questa rivisitazione del noir americano sono Apartado de correos 1001 di Julio Salvador e Brigada Criminal (con un giovane José Suárez al suo esordio) di Ignasi Iquino, entrambi usciti nel 1950. Iquino e Salvador, fondando il loro canone estetico su quello neorealista, girano le loro storie di violenza in esterni tra le strade di Barcellona, a causa di un budget ridotto all’osso, facendo un uso sistematico del “plano contrapicado” (il “low-angle shot”, l’inquadratura dal basso all’alto resa iconica da Orson Welles). Questi polizieschi riescono a superare il veto al realismo cinematografico della censura franchista, che voleva dare della Spagna un’immagine edulcorata da paradiso terrestre, grazie a un’accorata celebrazione dell’operato delle forze dell’ordine, impegnate in una battaglia manichea con la criminalità più abietta. Un’esaltazione del braccio armato della legge abbastanza simile si rivedrà in Italia una ventina di anni dopo con gli ormai film di culto del poliziottesco.
I film più interessanti, in particolar modo per uno spettatore di oggi, sono però due delle pellicole più tarde. Il primo è Distrito quinto (1958) di Julio Coll, ed è considerato dalla critica il Reservoir Dogs spagnolo. La trama è praticamente la stessa del film di Tarantino: dopo un colpo una banda di rapinatori attende febbrilmente l’arrivo dell’ultimo compagno che manca all’appello e che è in possesso del bottino, pian piano il dubbio che ci si sia un infiltrato della polizia all’interno del gruppo assale i membri della banda, generando accuse e tensioni. Il tutto è narrato attraverso continui flashback che ci mostrano i diversi punti di vista dei criminali. Tarantino non ha mai dichiarato di aver visto questo film, ed è un personaggio che di certo non lesina omaggi nei confronti dei suoi padri putativi, ma le somiglianze tra le due pellicole appaiono evidenti. Distrito quinto al contrario di tutti gli altri film del polizesco catalano è girato in interni, nell’atmosfera chiusa e asfissiante di un appartamento che alimenta i conflitti dei personaggi.
Il secondo film ha i tratti di un vero e proprio dramma psicologico dove le figure monolitiche proprie di tutto il filone poliziesco lasciano il campo a caratteri molto più fluidi, si tratta di Los atracadores (1962) diretto da Francisc Rovira-Beleta. Chiaramente debitore delle atmosfere del primo Godard (À bout de souffle in special modo), Rovira-Beleta mette in scena la storia nichilista di tre giovani appartenenti a condizioni sociali diverse che trovano nella violenza gratuita (e anche nella non brillantezza delle decisioni, visto che sono convinti di rimanere nell’anonimato durante le loro scorribande indossando un semplice paio di occhiali da sole) l’unica via di uscita alla noia esistenziale. Lo dichiarano esplicitamente proprio i protagonisti nella sequenza in cui El Señorito, interpretato dal francese Pierre Brice, presenta El Compadre al nuovo membro della banda: “È un sognatore, un giorno ucciderà qualcuno o lo ammazzeranno. Cosa importa, tanto la vita è così noiosa”. Sorprende davvero come un film del genere sia riuscito a superare la censura del regime, perché dietro alle vicende dei ragazzi, gli “atracadores”, ovvero i rapinatori, si cela un’aspra critica al senso di totale incertezza in cui vivevano i giovani durante la dittatura franchista. Emblematica in questo senso la fugace inquadratura ad inizio film sulle altalene vuote davanti alla Sagrada Família.
Alla fine degli anni Sessanta le suggestioni più avanguardistiche della Nouvelle Vague arrivano anche a Barcellona, coagulandosi nella Escuela de Barcelona.
Alla fine degli anni Sessanta le suggestioni più avanguardistiche della Nouvelle Vague arrivano anche a Barcellona e si coagulano nel lavoro di un collettivo di cineasti catalani conosciuto come Escuela de Barcelona. La proposta filmica di questi giovani registi, che si appoggiano alla casa di produzione Films Contacto, è molto eterogenea, mossa dal disprezzo per il cinema commerciale e incentrata sul sincretismo artistico di fotografia, pubblicità, moda e architettura moderna. Accusati di elitismo culturale soprattutto dai nazionalisti catalani, infastiditi che un movimento di rottura come quello fosse ancora veicolo di lingua e contenuti castigliani, i film dell’Escuela fanno fatica a trovare una distribuzione, nonostante l’avallo della censura franchista incapace di comprenderli.
Come spesso succede alle opere sfortunate in vita, alcuni di questi film verranno rivalutati molti anni dopo dai critici cinematografici, tanto che il professore Esteve Riambau definirà il movimento, nel suo libro Temps era temps, “l’unico momento collettivo d’investigazione formale e di rottura dei procedimenti narrativi dell’intera storia del cinema spagnolo”. Dante no es únicamente severo (1967) diretto da Jacinto Esteva e Joaquim Jordà è il film manifesto dell’Escuela de Barcelona, ed è pensato come una lunga stimolazione oculare dello spettatore attraverso la messa in scena surreale dei dispositivi di finzione filmica. Una pellicola criptica e anti-narrativa, un cantiere a cielo aperto come l’immagine che ritrae della città di Barcellona.
Nello stesso anno in cui esce Dante no es únicamente severo Josep Maria Forn dirige quello che per complessità tematica e intensità narrativa è senza dubbio il film più importante della cinematografia catalana: La piel quemada. Il film di Forn è un fedele affresco sociale della Catalogna degli anni Sessanta, e affronta con grande intelligenza problemi identitari, idiomatici e di convivenza regionale finora mai toccati dal cinema iberico. La prospettiva principale da cui è raccontata la storia non è quella della borghesia catalana di cui fa parte il regista, ma quella degli immigrati andalusi costretti a lasciare la loro terra alla ricerca di un futuro migliore nella regione più ricca del paese. La “piel quemada”, la pelle bruciata, che dà il titolo al film è ipostatizzazione filmica delle differenze socioculturali che intercorrono tra gli andalusi costretti a lavorare nella calura estiva e i catalani benestanti che si possono permettere di prendere il sole a pochi metri di distanza.
La grandezza del film di Forn è suggellata da una battuta che conferma tutta la sua modernità. Alcuni catalani seduti intorno a un tavolo commentano sprezzanti l’invasione “charnega” – un termine dispregiativo per riferirsi agli andalusi simile al nostro “terroni” – finché un cameriere, anche lui catalano, sentenzia in tono profetico: “I loro figli saranno più catalanisti di voi”. Questa frase proietta il film in avanti di decenni, nella società catalana post-franchista e multiculturale di oggi, dove i discendenti di quegli immigrati, spagnoli e non, sono diventati parte fondante della ricchezza della regione, arrivando fino ai suoi vertici politici (l’ex presidente della Generalitat José Montilla è di origini cordovane), come ha ricordato recentemente in un intervento al Congresso il politico indipendentista Gabriel Rufián.
La legge “Miró” cerca di ridurre il numero di film prodotti in favore della loro qualità.
L’incipit del suo discorso non può non richiamare alla memoria la potenza espressiva del film di Forn: “Mi trovo qui a difendere il diritto che ha ogni popolo all’autodeterminazione, perché sono figlio e nipote di andalusi arrivati in Catalogna cinquantacinque anni fa da Jaén e Granada. Sono quello che voi chiamate charnego e sono un indipendentista. Questa è la vostra sconfitta, e questa è la nostra vittoria”. La piel quemada rimarrà però un unicum nel percorso cinematografico catalano, e l’industria che si svilupperà durante il periodo della transizione democratica e in piena democrazia si concentrerà soprattutto nella produzione di sterili agiografie catalaniste o di nuovi film di largo consumo per un grande pubblico di lingua castigliana.
Il ritorno alla democrazia
La crisi economica che colpisce la Spagna alla morte di Franco, durante la transizione democratica, si ripercuote anche nel cinema. Gli spettatori diminuiscono e le grandi produzioni americane sono le uniche a resistere all’urto grazie al loro monopolio sul mercato della distribuzione. La legge “Miró” ad inizio degli anni Ottanta cerca di mettere un freno a questo sistema cannibalistico con una riduzione del numero dei film spagnoli prodotti in favore della loro qualità. L’operazione riesce in parte perché da questo nuovo assetto uscirà forse il più grande autore di sempre del cinema spagnolo, Pedro Almodóvar. La riduzione dei fondi statali però comporta la concentrazione della produzione a Madrid e una fuga di talenti catalani. Tra questi c’è Bigas Luna che proprio nell’industria barcellonese aveva esordito con Bilbao (1978), maturando nel capoluogo catalano la sua personalissima poetica di “amar y comer”, poi ispanizzata ed esportata in tutto il mondo con Jamón, Jamón (1990).
Nel frattempo in Catalogna si cominciano a girare alcune ricostruzioni storiche interamente in lingua catalana, per la prima volta dai tempi della Guerra Civile. Animati da uno spirito nazionalista troppo ingenuo e fazioso, questi film ottengono un ottimo successo di pubblico e danno vita a una serie di epigoni di valore filmico decisamente modesto. Tra i più popolari si può citare La ciutat cremada (1976) di Antoni Ribas, un’epopea familiare ambientata agli inizi del secolo, che cerca di imitare in maniera un po’ goffa lo stile di Visconti e di Bertolucci. La stessa mancanza di senso critico affetta anche Companys, procés a Catalunya (1978) del redivivo Forn, un pamphlet sugli ultimi giorni di vita dello storico governatore catalano ucciso dal regime di Franco.
Le già scarse sovvenzioni statali al Dipartimento di Cultura della Generalitat catalana si riducono oltremodo con gli effetti della legge “Miró”, e il Dipartimento preferisce spendere la quasi totalità dei suoi fondi per un mastodontico progetto di normalizzazione linguistica, attraverso il doppiaggio in catalano di ogni film straniero (anche in castigliano) distribuito nella regione. Secondo i dati ufficiali della Generalitat nel 1987 si raggiunge la cifra record negativa dello 0,6% dei fondi culturali investiti nella produzione cinematografica autoctona. La nascita del canale televisivo della Generalitat, TV3, migliora la situazione grazie a nuovi introiti pubblicitari, ma i risultati più importanti si riscontrano a livello televisivo: il cartone animato Les tres bessones, in Italia nota come Tre gemelle e una strega, è una delle serie di maggior successo alla fine degli anni Novanta e riesce a portare in giro per il mondo il repertorio favolistico catalano.
Se il cinema catalano vuole davvero essere specchio identitario della propria comunità non può limitarsi a investire in prodotti facilmente esportabili.
La maggior parte dei film sovvenzionati dal governo autonomo dall’inizio del nuovo millennio ad oggi sono, in linea con la tradizione dell’industria cinematografica locale, film di genere, prodotti da un equipe catalana ma scevri di qualsiasi contenuto identitario. Il rilievo internazionale del festival di Sitges, dedicato al cinema fantastico, ha forse contribuito a questa scelta produttiva che tra i tanti film discutibili è riuscita a tirare fuori dal cilindro anche un ottimo horror come El orfanato (2007). Questo classico “ghost movie” diretto da Juan Antonio Bayona e coprodotto da Guillermo del Toro, sulle vicende di un vecchio orfanotrofio infestato da spettri, è ad oggi il secondo più grande incasso della storia del cinema spagnolo (dietro a The others di Alejandro Amenábar), e ha addirittura portato il catalano Bayona alla regia del nuovo sequel di Jurassic Park.
Paradigmatico invece per la questione linguistica è il caso di Eva (2011) di Kike Maillo con la star tedesco-catalana Daniel Brühl (lo stalker nazista Fredrick Zoller di Inglourious basterds). Eva è un avvincente sci-fi sul tema dell’uso etico delle intelligenze artificiali ma, nonostante sia dichiarata come lingua originale il catalano, il film è completamente recitato in spagnolo, per ovvi vantaggi di distribuzione. Basta vedere il trailer diffuso in Catalogna per capire che è frutto di doppiaggio.
A questo punto è evidente che il cinema catalano se vuole davvero essere specchio identitario della propria comunità – quello che in genere sono le cinematografie nazionali – non può limitarsi a investire in prodotti facilmente esportabili, o all’opposto in esaltazioni autoreferenziali di figure martirizzate per la causa catalanista, ma deve fare uno sforzo ulteriore per dare una continuità linguistica e qualitativa alla rappresentazione della realtà stratificata della regione. I primi a trarne vantaggio sarebbero proprio le istituzioni territoriali che finanziano il cinema e che da anni rivendicano la loro autonomia dalle correnti centraliste spagnole. La Storia ci ha insegnato che spesso l’attività artistica può essere l’anticamera di grandi rivoluzioni politiche e culturali, questo potrebbe fare un buon cinema per una Catalogna “libera” e indipendente. Quantomeno ne guadagneremmo come spettatori.