R icordo perfettamente la prima volta che ho letto Marina Jarre. Era l’estate del 2009, avevo scelto dei libri a caso dal mucchio sulla scrivania di mia madre e ora sul treno notturno mi trovavo con un libretto sottile che sembrava parlare di cose che di solito m’interessano – guerra, russi, morte e distruzione. Non avevo mai sentito nominare l’autrice e anche mia madre la conosceva soltanto perché una sua tirocinante aveva fatto la tesi su di lei – valdese, molto anziana, viveva a Torino come noi (i torinesi che leggono hanno una fascinazione morbosa per gli scrittori che vivono a Torino). Il piccolo libro s’intitolava Il silenzio di Mosca.
La prima parte era la decostruzione di un’immagine di guerra che aveva a lungo ossessionato l’autrice dopo che qualcuno gliel’aveva raccontata (i soldati tedeschi catturati a Stalingrado che sfilavano davanti alla folla silenziosa a Mosca); la ricerca di documenti in russo, le versioni discordi nelle testimonianze, infine la scoperta dell’imperfezione congenita in una scena tanto perfetta, tanto iconica; il tutto diventava un saggio personale su menzogna, memoria storica, fallacie del ricordo e finzione narrativa. Del libro mi piaceva l’andamento divagante, freddo e intelligente, la struttura atipica, la stranezza, la rabbia sotterranea che intuivo, la precisione implacabile con cui parlava di cosa significasse invecchiare e avvicinarsi alla morte. C’era in quel libro finale, minore, qualcosa che sfuggiva alle mie categorie e si imponeva alla mia attenzione.
Errando tempo dopo in Internet, digitai a caso “prigionieri tedeschi” e, sotto il titolo La mistica dell’anima russa, trovai subito la pagina di un’autobiografia in cui un ragazzino undicenne raccontava proprio l’episodio che Pavel mi aveva riferito. Il ragazzino era il poeta Evgenij Evtušenko; tornato con la mamma a Mosca nell’estate del 1944, aveva visto sfilare circa 25.000 prigionieri tedeschi tra il silenzio totale degli abitanti della città. […] Il racconto letto riferiva però di un avvenimento interamente diverso da quello che mi ero immaginato, se si esclude la cornice. […] Il ragazzino undicenne lo aveva bensì descritto mentre gli astanti, dopo gli urli di scherno verso gli ufficiali, impietrivano alla vista dei nemici infine vinti, ma il poeta che sarebbe diventato lo aveva effettivamente subito interrotto con il sopravvenire della donna in stivaloni di gomma. Dal fazzoletto avvoltolato era sbucata insieme col pezzo di pane l’anima russa, la misericordiosa anima russa. L’anima russa alla quale, invero, non occorrerebbero mai altri aggettivi. Il mio racconto mi era stato strappato di mano.
Altri libri sono venuti negli anni, alla spicciolata, e sempre per rinvenimenti casuali: nella biblioteca di un amico, su una bancarella di libri usati, su eBay. Erano uno più bello dell’altro, si trattasse di romanzi o di memoir. Come poteva essere accaduto che una scrittrice così straordinaria e originale fosse sparita quasi del tutto? Non che non sia successo ad altri: penso a Wilcock o a Manganelli, che per fortuna Adelphi sta ripubblicando da tempo. Rispetto a loro, Jarre è più “leggibile”, poco interessata alla sperimentazione estrema; sarebbe stato più facile, almeno in teoria, che incontrasse un pubblico più vasto di una nicchia di appassionati.
L’anno scorso Claudio Magris si interrogava sui motivi di questo silenzio incomprensibile. Ci sono molte spiegazioni possibili, nessuna sufficiente: il “duro riserbo” di Jarre, per dirla con Magris; la sua lontananza dai circolini letterari, il fatto che negli ultimi anni si fosse occupata quasi solo di teatro e di storia dei valdesi. Non a caso, i pochi articoli usciti dopo la sua morte l’estate scorsa hanno parlato di lei come della “narratrice dell’epopea valdese”, magari menzionando i libri autobiografici dove veniva evocato lo sterminio degli ebrei di Riga. Ma Jarre non era soltanto questo. Il territorio della sua scrittura è infinitamente più vasto, più complesso e più enigmatico: è il mondo di un grande scrittore, e come tale si sottrae a ogni etichetta identitaria o testimoniale. Quello che vorrei fare qui è tentare di tracciarne una mappa, incompleta e sommaria, ma che dia un’idea di quanto l’esperienza di leggere Marina Jarre sia eccitante, sorprendente e meravigliosa.
Su tutte le cose della sua vita Jarre posa lo stesso sguardo distaccato, straniante e lievemente ironico.
Era nata Marina Gersoni a Riga, nel 1925, figlia di Clara Coïsson, un’italiana delle valli valdesi che insegnava all’università di Riga e che, tornata in Italia, sarebbe diventata un’importante traduttrice dal russo per Einaudi (avrebbe tradotto Propp, Bulgakov, Tolstoj, Dostoevskij e molti altri), e di Samuel Gersoni, un lettone ebreo. La sua prima lingua fu il tedesco: avrebbe imparato l’italiano dopo il 1935, quando i suoi genitori divorziarono, con grande melodramma, e la madre portò lei e la sorella minore in Italia, dove sarebbero state cresciute dalla nonna a Torre Pellice. Il padre, un personaggio eccentrico, teatrale e misterioso, rimase a Riga, dove ebbe più tardi una bambina da una relazione con un’infermiera tedesca che li avrebbe lasciati dopo l’invasione nazista della Lettonia. Sarebbero morti tutti, lui, la bambina e gli altri della famiglia, nelle stragi di ebrei nei boschi di Riga del novembre-dicembre 1941. Su questo buco gigantesco, e sul padre irresponsabile e sentimentale, Jarre tornerà in due libri capitali: I padri lontani, Einaudi 1987, e Ritorno in Lettonia, Einaudi 2003.
Il primo è un’autobiografia. Ma è un’autobiografia nel modo in cui lo sono Parla, ricordo di Nabokov o Gli anni di Ernaux, di cui peraltro, mi hanno fatto notare di recente, è progenitore nella struttura (il montaggio serrato di immagini separate che vanno a comporre un enorme quadro organico). E secondo me andrebbe letto da chiunque si occupi di nonfiction narrativa oggi, in Italia – e anche fuori, ma, come ho scoperto da Magris, altrove lo sanno già. Su tutte le cose della sua vita Jarre posa lo stesso sguardo distaccato, straniante e lievemente ironico: le minute tragedie dell’infanzia, la guerra e la Resistenza a cui assiste da spettatrice guardinga, la maternità e la scrittura, il lavoro come insegnante di francese a Torino e la città stessa nelle sue trasformazioni nel tempo. Il tempo, appunto, è uno dei temi che innervano e legano tutti i frammenti, così come la mancanza di appartenenza, di “patria”, a volte fieramente perseguita, a volte più sofferta, a volte semplicemente registrata come dato di fatto. Un’estraneità che sente anche rispetto al mondo valdese, che pure è in parte il suo: “Non c’era legame tra me e quel mondo che mi restava esteriore. No, le povere e pietrose case in ombra, le quattro creste affilate, la donna dalla voce alta, chiara, segnata dalle erre, non mi erano parenti. La loro storia non mi precedeva, non ero venuta da quella”.
Ho passato un’estate a Torino con un libro di botanica. Alle cinque del pomeriggio uscivo e andavo lungo la recinzione dei giardini del centro e della Crocetta, camminavo nei giardini pubblici e intanto riconoscevo gli alberi confrontandoli con le indicazioni e le illustrazioni del libro. […] Mentre camminavo per i luoghi, strada dopo strada, sui marciapiedi sporchi di polvere, carte, gelati squagliati, preservativi, siringhe, escrementi di cane, la strada finiva col diventare il luogo, l’unico possibile, indistinguibile dagli altri luoghi, e la gente ed io con loro sul marciapiede, indistinguibili tra di noi. […] Opinabili le cabine telefoniche, copia esatta delle macchine di trasmigrazione temporale o spaziale dei film fantascientifici, ovvie appunto come cabine telefoniche, a testimoniare anche loro la necessità quotidiana, la naturalezza di simili trasmigrazioni. Questo è il luogo senza nome, uguale ad altri luoghi e il mio tempo, uguale al tempo degli altri. Non fuggirò più.
Ritorno in Lettonia è il più celebre e dibattuto tra i libri di Jarre (ma comunque fuori catalogo), che giustamente Alberto Cavaglion su Doppiozero definisce una riscrittura dei Padri lontani. Qui, infatti, l’ormai anziana Jarre torna in Lettonia insieme al figlio, per la prima volta da quando l’ha lasciata a dieci anni. E prende infine su di sé quel padre ripudiato e la sua fine mostruosa, nonché quella storia ebraica a cui è altrettanto estranea e altrettanto indissolubilmente legata. È un libro potentissimo, che esplora le profondità vertiginose del senso di colpa e della rimozione con l’intransigenza e il disgusto per l’enfasi che sono una costante nella prosa di Jarre. Ed è ancora una volta un testo anomalo, che fa per esempio un uso molto interessante dei documenti, nel senso esatto in cui ne parlava Danilo Kiš in un’intervista che appare nella raccolta Homo poeticus: “Per quanto mi riguarda, personalmente credo nel documento, nella confessione, nel gioco dello spirito. Non esiste l’uno senza l’altro, è una specie di Santissima Trinità”. Questa magica, sapiente mescolanza delle carte è la perfetta definizione della nonfiction di Marina Jarre.
Poi ci sono i romanzi e i racconti. Rubando la definizione che Franzen usa per Alice Munro, si può dire con una certa esattezza che Jarre è una “distaccata fornitrice di piacevolissime esperienze private” (si parla di piacere del lettore, naturalmente). In effetti, per quanto la sua misura sia il romanzo lungo, Jarre somiglia per certi versi sia a Munro che al primo fra tutti i fornitori di esperienze private: Čechov. Nelle sue storie, in genere, non ci sono grandi accadimenti o eventi roboanti. Sono storie piccole di persone comuni; e come in Munro e Čechov, gli eventi minimi delle loro esistenze individuali assumono una portata immensa, che riverbera a lungo in chi legge assumendo sempre più intensità, finezza e mistero con il passare del tempo, unicamente per il modo in cui vengono raccontati. Ho già parlato della precisione di Jarre, ed è questa la sottile connessione che la unisce agli altri due scrittori: l’esattezza asciutta e priva di giudizio con cui sa registrare i propri sentimenti e quelli dei suoi personaggi. Anche i più strani, profondi o incomprensibili; e quelli che suscitano vergogna. Ci sono molti sentimenti indicibili, oscenamente naturali, nei libri di Marina Jarre, fermati in pagine magnifiche da cui è difficile estrapolare citazioni che ne dicano la bellezza complessiva. Come spesso accade con quelli davvero bravi, la sua non è una scrittura aforistica: il respiro vero della sua prosa si trova nel tessuto del testo, nell’architettura piena della pagina o del capitolo intero.
A volte le storie minute dei suoi personaggi incrociano la Storia: è il caso del delizioso La principessa della luna vecchia, uscito per Einaudi nel 1977, romanzo eroicomico su una scalcagnata famiglia di comunisti torinesi raccontata dalla voce irresistibile del figlio undicenne, che ha come sfondo i mesi che precedono il referendum sul divorzio del 1974 ed è uno dei pochissimi libri che raccontano (in chiave satirica, ma affettuosa) le persone che fecero il movimento di quegli anni. O del racconto «La fotografia», in Galambra. Quattro storie con fantasmi (Bollati Boringhieri 1987), che parte dal lento e freddo resoconto di una vacanza coniugale in una cittadina immaginaria per trasformarsi in una delle cose più belle mai scritte in narrativa sulla lotta armata italiana e le sue conseguenze.
Ci sono molti sentimenti indicibili, oscenamente naturali, nei libri di Marina Jarre, fermati in pagine magnifiche da cui è difficile estrapolare citazioni che ne dicano la bellezza complessiva.
Ed è soprattutto il caso di Un leggero accento straniero, il primo romanzo. Uscito nel 1967 come Monumento al parallelo per una piccola casa editrice, e poi ripubblicato da Einaudi nel 1972 con il nuovo titolo e alcune parti riscritte, ha come protagonista un’ex Waffen SS, Klaus Boehr, che ha partecipato agli eccidi di massa in Europa orientale e che dopo la guerra si è rifatto una vita in incognito come professionista svizzero in una grande città industriale italiana – Torino, sempre lei, ambigua e bifronte come il suo abitante segreto. Come nelle Benevole di Littell quarant’anni dopo, è Klaus stesso a raccontare la sua vita e le sue azioni, per le quali, ammette candidamente, non prova rimorsi, senza sapersi spiegare quando quella capacità sia caduta. Alla sua – come chiamarla? Confessione? Autodifesa? Meglio: gelida rielaborazione estetica di se stesso, si alterna la storia presente di un gruppo di giovani amici della Torino borghese, che finirà per intersecarsi con la sua.
Questo contrappunto, che può sembrare solo tecnico, contiene in realtà, come in un gioco di scatole cinesi, altri nodi narrativi articolati, altri paesaggi, altri interrogativi. Arriva il momento in cui il corto circuito potrebbe scattare e la verità essere svelata; ma quella che potrebbe diventare una banale svolta poliziesca prende una strada inaspettata, come sempre in Jarre. E pone domande fondamentali – la più feroce: sono davvero le circostanze a trasformarci in assassini meccanici, come insinua Klaus nel tentativo di scaricare su tutti il suo barile di sangue e cervella? Nonostante qualche lungaggine e alcuni passaggi un po’ invecchiati, il libro è vivo per dettaglio psicologico, costruzione dei personaggi, dialoghi, ironia. Forse era troppo presto per leggere la voce narrante di un nazista non pentito, forse la sua forma era troppo “tradizionale” in un momento in cui a dominare le scene erano le neoavanguardie, chissà.
Eppure, non vi sembra che ci sia in tutto questo un progredire fatale? Un anello si salda all’altro, fino al lillà bianco, fino al ragazzino russo, fino al campo cecoslovacco? Tutto sembra previsto da una regia impeccabile. Tutto fuorché il gesto che non compii, che non mi venne in mente di compiere, l’inutile, grottesco gesto di puntarmi la pistola alla tempia, rinunciando a capire. “Morto sul campo, un altro prende il suo posto”. Se a un dato momento vi fu un errore, o di scelta o di valutazione, trovatelo voi, signori. Io non riesco a scoprirlo e non riesco nemmeno a vedere chi o che cosa m’abbia mutilato così. Come un mostro antidiluviano, non ho che i monconi di qualcosa che serviva ad azioni che non so. Ma vi giuro che non riesco a trovare il punto, o il momento o la persona. Tutto fu chiuso ferreamente fra le invalicabili pareti della mia sorte. E della sera d’estate non ricordo il nome della ragazza, ma ricordo il frusciare dell’avena al vento, vicino a noi; un immenso, sottile fruscio lunare. Com’è possibile che io abbia sbagliato più degli altri?
C’è un ultimo romanzo di Jarre di cui voglio parlare qui, completamente diverso dal precedente. È uscito per Einaudi nel 1971 con una copertina di Roy Lichtenstein e un titolo bruttino: Negli occhi di una ragazza. Ed è forse il più bel libro di Marina Jarre. Racconta una storia piccola, ancora una volta: quella di Maria Cristina, una ragazzina di tredici anni colta nel momento in cui sta diventando una persona. L’anno è il 1969; lei vive in una famiglia modesta, con un padre incapace di comunicare, una madre malata e un fratello maggiore molto impegnato a fare la rivoluzione. Maria Cristina viene considerata stupida e così si considera lei stessa. Il suo sguardo sul mondo somiglia a quello della protagonista di Deserto rosso di Antonioni: un regista molto vicino a Jarre per toni, stile e storie: non mi ha sorpreso, mentre facevo ricerche per questo pezzo, scoprire che le aveva proposto un progetto per trarre un film dal suo Viaggio a Ninive. “C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cosa sia. E nessuno me lo dice”: la frase del personaggio interpretato da Monica Vitti vale anche per Maria Cristina, che preferisce le cose alle persone, più facili da amare, più comprensibili, meno spaventose. Del resto gli altri hanno già deputato Maria Cristina, in quanto femmina, esclusivamente al fare. Ma il suo ripiegamento su di sé deve interrompersi quando accadono due eventi, due scomparse che la costringono ad avere a che fare con l’imprevedibilità della vita umana e a compiere scelte.
La trama è tutta qui. Dietro la facciata di ingannevole semplicità ci sono tante cose: la classe, la stolidità del potere costituito, il destino subordinato delle donne, la politica come paravento emotivo, la solitudine tra membri della stessa famiglia, la morte. Ma nessuno di questi elementi diventa mai ideologico; questo non è un romanzo a tesi o un’operetta morale. È il Bildungsroman di un personaggio unico, Maria Cristina, che si innalza gigantesco fra i molti e affascinanti outsider dei libri di Jarre.
Si possono amare anche le cose. E lei aveva amato la castagna perfetta, cotta fin nel suo cuore giallognolo e s’era richiusa nel silenzio striato di odore di fumo e così non aveva più amato i suoi familiari radunati nella cucina della nonna intorno al giovane zio con la sua giovane sposa. E forse, se si ripeteva la magia, non avrebbe più amato Eliana e neppure Roberto. Visto che non l’amavano e questo la rendeva tranquilla ma le faceva anche male. Sul punto d’addormentarsi mise fuori la mano dalla coperta. Poi sognò; sognò di alzarla verso il buio e dal buio scese un’altra mano a toccare la sua, e non era di nessuno, né della mamma, né del padre, né di Eliana o di Roberto. Scese dal buio silenzioso odorante di fumo, rastrellato da un rastrello non guidato, ed era una mano calda e forte. Si rese conto poi che quella mano uscita dal buio era certamente la propria: dormendo s’era stretta la mano sinistra con la destra, quasi avesse avuto paura che qualcosa le sfuggisse nel sonno.
Tutto il libro passa attraverso la lente della sua visione, bizzarra, innocente ma molto più attenta alla natura delle cose e dei fatti di quella di chi la circonda, e lo straniamento formale funziona alla perfezione. Ci sono innumerevoli scene indimenticabili, dove la prosa sempre bellissima, levigata e severa si apre in quelle osservazioni piene di echi di significato in cui Jarre è maestra. Questi tumultuosi, inaspettati scarti nell’irrazionale, sotto le spoglie di una cronaca austera; questi soprassalti di emozione violenta che arrivano da una pendola nella casa di un ricco, da una castagna, da un occhio visionario dipinto sulla fronte di una bambina; è qui che risiedono il genio, la felicità di questo libro meraviglioso. Negli occhi di una ragazza esiste ancora, ristampato ormai molti anni fa da una piccola casa editrice, Calypso. Forse sarebbe ora di farlo tornare in una nuova veste, di ridargli il posto e l’attenzione che merita.
Sono stata al funerale di Marina Jarre, a luglio. Uno dei figli, credo quello che l’ha accompagnata in Lettonia, parlando di lei ha ricordato una scena descritta nei Padri lontani. Dopo la separazione dei genitori, lei e la sorella erano state nascoste dalla madre in un castello tedesco e il padre era venuto a cercarle, battendo alla porta per ore, ma loro, fedeli alla madre, non gli avevano aperto. Ora, diceva il figlio, spero che tu possa aprire quella porta e corrergli incontro. Sono state dette molte cose. Qualcuno ha letto un brano dal Silenzio di Mosca, il suo finale, in realtà. C’è dentro un’espressione di Bonhoeffer (la “cara terra di Dio”). Solo più tardi ho pensato: è giusto così. L’inizio, la fine.
I nomi si semplificano o scompaiono. Il mare di Sardegna che ogni mattina, appena alzata, ero solita contemplare da dietro il finestrone del nostro soggiorno non avrà più nome, sarà il mare e basta. Il mio luogo e il mio tempo sulla cara terra di Dio staranno in un cortile, povero, nitido, odoroso di fumo di legna. Tutto il resto, di là, continuerò a immaginarlo.