N ella scena più asciutta e straziante che il cinema americano abbia proposto da molto tempo a questa parte, Michelle Williams, platinata, proletaria, bella, segnata e sfatta, spinge la carrozzina di un neonato e a un certo punto si ferma per dire “ti amo” a un uomo che le cammina accanto ma non è suo marito né il padre di suo figlio. È un “ti amo” così doloroso che non vorremmo sentirlo, e i minuti senza risposta sono lunghi e insopportabili. Fino a qualche anno prima, Lee (Casey Affleck, Oscar meritato) nella vita di Randi era tutto: erano sposati e avevano tre bambini, lui al pomeriggio voleva fare l’amore anche quando lei aveva l’influenza e se ne stava a letto in scialle e calzettoni respingendolo mentre le bambine guardavano i cartoni sul divano e il bambino dormiva dopo essersi fatto un pianto, come tutti i bambini.
Adesso di quella vita giovane e quotidiana non è rimasto nulla, nemmeno una fotografia. Randi è una ex moglie che sta urlando all’uomo che conosce meglio di chiunque “non puoi morire così”, ma neanche questo riesce a scuotere Lee, a scollargli dal viso la distaccata compassione che indossa dalla notte in cui per continuare a vivere ha dovuto proteggersi da sé stesso indossando una maschera di ghiaccio. Anche perché nei momenti in cui non riesce a trattenersi, a fermarsi un attimo prima di esplodere, a Lee tocca mettere il mondo al riparo dalla propria rabbia. Ma a quel punto di Manchester by the Sea, in quella scena che ha tutti i difetti della vita – è troppo breve e troppo lunga, bruciante ipnotica e cruda – gli spettatori conoscono la crepa che ha spezzato Lee in due. Nessuno si aspetta che lui le risponda “anch’io”, perché non può più esistere nemmeno l’ultimo pezzo della vita sgangherata che quei due avevano costruito insieme. C’è una ragione per cui Randi ha maledetto Lee anche se ora si sta scusando per avergli augurato di bruciare all’inferno, c’è stata una notte dopo la quale niente di loro due è sopravvissuto, di certo non il desiderio di amarsi. Già si fa fatica a tenere a bada quello di uccidersi.
Manchester by the Sea racconta gli scampoli di una famiglia piegata e poi rotta eppure diversamente unita, in cui nessuno ha insegnato a nessun altro a parlare attraverso una carezza ma tutti i membri conoscono il codice familiare per cui una bestemmia equivale a un atto di amore mancato. Un gruppo di persone che sembrano uscite da una novella di Verga ma sono saldamente impiantate nella provincia americana, con la grazia di un’orchestra filarmonica per colonna sonora. Una famiglia ferita che rifiuta di farsi compiangere, in cui neppure chi lo è davvero ha voglia di indossare la parte della vittima. Una famiglia, e basta. La regia di Kenneth Lonergan incastra frammenti in disordine temporale, ma sempre mostrando come esista per tutti una precisa e ricorrente distinzione fra un prima e un dopo. Prima e dopo la morte prevista di Joe, il fratello di Lee. Prima e dopo la notte che ha diviso Lee e Randi. Prima e dopo la gita in barca con Patrick, il figlio adolescente di Joe, che è rimasto orfano di padre, ha una madre alcolizzata e si divide fra due fidanzate entrambe sveglie e intraprendenti. Il ritmo del film segue la cronologia della memoria individuale e familiare e ogni tanto, all’improvviso, illumina il vissuto dietro il malessere.
Sono i dettagli a riportarci alle nostre ossessioni, ai lutti, alle persone che abbiamo avuto in sorte familiare e poi un giorno ci hanno lasciato, lasciandoci soli con l’inconveniente di essere sopravvissuti.
Così sappiamo, a poco a poco, quale ruota della sfortuna abbia urtato la vita di persone che si feriscono perché altrimenti non saprebbero esistere, perché anche difendersi è un modo di stare il mondo. Ci sono molte tragedie e nessun patetismo in questo film: si racconta il dolore com’è e non come bisogna raccontarlo per strepitare chiedendo attenzione. Si racconta la classe operaia senza esotismo e senza brandirla per farne la propria giustificazione sociale: Lee fa l’idraulico e il tuttofare, il lavoro è un’abitudine, la casa un bene da tenersi stretti come un surrogato dell’affetto, nascere proletari è un fatto e non un vezzo per accreditarsi nel cinema impegnato, qualunque cosa quest’espressione voglia dire.
Non c’è patetismo in nessuna delle scene in cui appare Lee – stupefacente Lee, catalizzatore e sismografo del male che passa sulla terra, capace di spaccare la faccia a un estraneo per sputare fuori il dolore che viene dal vento ghiacciato, dalle giornate sbagliate di mare, dal destino che non gira e dal dolore sempre fuori misura rispetto alle nostre piccole vite. Non c’è patetismo quando Lee si nega e si ritrae e dice all’avvocato che non può, proprio non può occuparsi del nipote, e non importa se suo fratello aveva disposto diversamente, il fatto è che lui in quella città non tornerà a vivere, perché non lo sa più fare. Non c’è patetismo nell’adolescente Patrick, a cui la notizia della morte del padre viene data mentre gioca in palestra con la squadra della scuola, e lui va in obitorio e ci resta meno del tempo necessario a riconoscere il corpo.
Poi basta, si va avanti. Se solo non ci fosse quel pollo nel freezer a ricordarci un cadavere nel surgelatore, in attesa di sepoltura. Perché sono i dettagli a riportarci alle nostre ossessioni, ai lutti, alle persone che abbiamo avuto in sorte familiare e poi un giorno ci hanno lasciato, lasciandoci soli con l’inconveniente di essere sopravvissuti. Non sono quasi mai i funerali (e pure qui ce n’è uno, raccontato magistralmente) a farci espiare la morte di chi abbiamo amato. Il lutto non è vestirsi di nero davanti a una bara. Il lutto è un taglio nella mano mentre proviamo a chiudere un freezer, è la barca del padre che non vogliamo vendere, è una rissa cercata dal nulla in un pub. Manchester by the Sea resta ancora a lungo una volta usciti dal cinema, dopo aver cercato nel buio la domanda che ci farà tornare a guardarlo un’altra volta: ma come fa, chissà come ha fatto questa vita lontana sullo schermo a raccontarmi tutto della mia.